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Maria
Sabrina Titone
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“INFERE CENERI
E POLICROMIA DEI VIVENTI” |
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«Ci sono
cento modi di raccontare le storie, di ascoltare le lingue,
di riprodurre i dialetti, di fare il teatro dei burattini.
Io scendo all’inferno e so cose che non disturbano
la pace degli altri. Ma state attenti. L’inferno
sta salendo da voi. Non resterà per tanto tempo
l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come
dire, toccato la vita violenta».
Così dichiarava Pier Paolo Pasolini in un’intervista
a Furio Colombo, rilasciata il primo novembre 1975, poche
ore prima che l’omicidio di Ostia chiudesse –
con una morte violenta – l’estrema, violenta
parabola della sua esistenza.
Ostia impone un epilogo infero all’esperienza pasoliniana
di poesia.
L’esperienza privata e rischiosa della vita si consuma
infatti, nel caso di Pasolini, in un’esistenza poetica
e votata alla poesia. Del resto di sé ripetutamente
giurava: «Io so scrivere solo in quanto poeta».
Da poeta appassionato della vita tentava di raccontare
le storie, di ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti.
Così negli anni bolognesi, come in quelli dell’agro
friulano, delle borgate di Roma o dei set cinematografici.
Fino all’estremo rifugio a Chia.
Poco più che ventenne, nella Prefazione del 1947
ad Atti impuri professava la sua dichiarazione di poetica,
precoce ma valida per la sua opera intera: «lasciare
inferno l’inferno», scrivere senza edulcoranti,
prestare la sua penna di poeta alle voci enarmoniche dei
parlanti.
Ai circuiti epigonali della scrittura, soffocati dall’industria
culturale, alla scrittura intransitiva, perfettamente
confezionata, Pier Paolo Pasolini si oppose sin dagli
esordi. Del resto il suo incontro avvenne sotto gli auspici
della natura, sotto il segno della rugiada: «In
una mattinata dell’estate del 1941 io stavo sul
poggiolo esterno di legno della casa di mia madre. [...]
Quando risuonò la parola ROSADA. La parola rosada
pronunciata in quella mattinata di sole, [...] non era
mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono».
E da quell’incontro con i suoni della poesia, non
smise mai di appassionarsi alle lingue che fanno dei viventi
esistenze compiute, e non smise mai di interpretare attivamente
le forme della poesia. Se nell’ultimo Pasolini l’opera
si articola in una performance ininterrotta, che non teme
di trasgredire e non cela il suo protagonista, in tutto
Pasolini le parole sono azioni in se stesse in quanto
segni fatti musica.
L’incontro bruciante con la policromia dei viventi
e della lingua si compiva per Pasolini a Roma.
Agli inizi degli anni '50, Pasolini abbandonava il Friuli
alla ricerca di un tempo nuovo, di sfide e passioni, di
un’umanità primigenia ancora immune dalla
drammatica mercificazione, dal vuoto artificio. Roma era
cronotopo infero e paradisiaco al contempo, luogo di assoluta
espressività nonché di totale licenza linguistica
per la lunga tratta di anime che l’attraversava,
per «la meglio gioventù» locale.
Dinanzi all’inedita selva romana, ai ‘riccetti’
delle borgate si riproponeva a Pasolini il problema di
raccontarli “dal di dentro”, sottraendosi
all’edulcorata specola borghese: col suo plettro
romanzesco, lo scrittore desiderava farne dei parlanti,
senza violentarne la natura.
La ‘città di Dio’, capitale dello Stato
e della Cristianità, gli si rivelava come la città
di Dite, e per cantarla non poteva che chiedere soccorso
al magistero dantesco.
Nelle pagine romane di Pasolini, cose e persone, pur essendo
concretissima, fenomenica realtà, sembrano alludere
ad altro, costituire figure di un significato non semplicemente
letterale, celando in filigrana un modello che lo stesso
Pasolini, per precisi indici ed esplicite dichiarazioni,
autorizza a definire dantesco, ispirato dall’Alighieri
infero.
All’innocente, eretico abiuratore, Dante insegnava
le regole della combinazione e della contaminazione di
generi e forme, gli esiti iridescenti del plurilinguismo
e del polistilismo che Pasolini, nella sua opera intera,
inventa, demolisce, reinventa, rinnega.
Il poeta ‘di primule e temporali’ a Roma iniziava
a riciclare la giustizia gerarchizzata dell’imbuto
infero per notomizzare le moderne nefandezze del perbenismo
borghese, l’ovvietà, la paralisi, la mediocrità;
sperimentava le tinte più cruente delle roventi
bolge di Dante per tratteggiare la dannazione e l’innocenza
dei ghetti suburbani. ‘Roma malandrina’
offriva a Pasolini, senza oneri di scavo, un repertorio
di esistenze, di disperate vitalità prive di sviluppo,
aliene da prospettive potenziali, come i dannati di dantesca
memoria. Il calepino di Pasolini fagocitava, al suo primo
contatto col caput mundi, i suoni di Pietralata, Quarticciolo,
Primavalle, le bolge che l’architettura di potere
– fascista prima, democristiana poi – aveva
voluto contigue ma visibilmente reiette.
Nelle pagine che ci restano di quegli anni, le vite dei
suoi ragazzi si agitano in un inferno di fango, melletta,
asfalto, escrementi. Le «fangose genti» dell’imbuto
dolente popolano la città facendosi tutt’uno
con la polvere, sempre a strettissimo, fisico contatto
con gli avanzi della metropoli, sono parte della melmosa
gravità del ‘bullicame’ cittadino,
abitano le ‘ruine’ degli argini, si immergono
nell’ostile densità delle acque di Roma.
Nei mercati, nelle piazze, dove la fiumana d’anime
si ingrossa disordinatamente, luci dirette e impudiche
– narrativamente elette da Pasolini – abbagliano
con violenza mezzani, prostitute o sagome anonime, colorandoli
di brutalità animale.
La tavolozza dell’Alighieri aveva dunque mostrato
a Pasolini le sue tinte più lugubri cui ricorrere
con umiltà per tinteggiare le borgate romane con
le gradazioni del più basso, torbido Inferno. Ma
Pasolini si spinge oltre nel suo discepolato: talora costringendo
il suo verso nelle scomode armature della metrica e tentando
di cimentarsi nel verso del Maestro; ben più ripetutamente,
avventurandosi in riscritture della Commedia e, in special
modo, della sua più tetra cantica. Così
accade nei reiterati collage e centoni danteschi in prosa
e poesia; così nei frammenti di un romanzo mai
divenuto tale, La Mortaccia, storia della discesa in un
Inferno contemporaneo di una prostituta romana.
Una fosca e preziosa filigrana dantesca attraversa ad
arabesco l’opera Pasolini, facendo delle sue pagine
tessere minute di un unico mosaico dallo sfondo infernale,
in cui dantismo, polistilismo e contaminazione sono spesi
al servizio dell’intento mimetico.
Pasolini si dilettava a collezionare clausole e lessemi
danteschi ad alta densità espressiva, citandoli
fedelmente o personalizzandoli in eretiche riletture,
in prosa, poesia o su celluloide. Trascurando tutta la
prima filmografia, turgida di cromatismo infero e di fedeli
prelievi dalla Commedia, basti pensare, come estremo approdo,
a Salò, sacra rappresentazione al limite della
leggibilità, ispirata congiuntamente da Sade e
Dante.
Amareggiato dall’inconsolabile certezza dell’inutilità
della scrittura, nell’ultimo scorcio degli anni
Sessanta Pasolini non smetteva di interrogarsi sul suo
senso e di attaccarne le regole fino ad accettare che
la scrittura non miri ad altro che a qualcosa di scritto:
si affidava dunque ad opere riempibili all’infinito,
incompiute e interminabili. Un’arte imprevedibile
capace di riaprire sempre il gioco, anche ben oltre l’esistenza
in vita del suo autore.
Dopo aver vissuto con pienezza e presenza gli anni Sessanta,
come pochi costante e vigile nell’interpretazione
della realtà, al malessere spinoso, infernale dei
controversi anni Settanta – nel disordine della
politica come nello scacco della letteratura – chiedeva
di sottrarsi. L’inferno della vita aveva ormai cittadinanza
nella sua esistenza artistica; poteva continuare a scriverne
senza più esperirlo. È La Divina Mimesis
a siglare un definitivo hic desinit cantus di questo inferno,
autocertificandosi come paradigma dell’impotenza,
dell’incapacità di concludere volontariamente
l’opera: la posticcia morte violenta dell’autore,
comunicata con mestizia dall’editore che si fa carico
della pubblicazione postuma delle disordinate pagine,
gela La Divina Mimesis in una condizione di eterna provvisorietà
che richiede un costante sforzo ermeneutico, reclama lettori
che sappiano darle un senso. Tragica profezia di quanto,
la morte improvvisa del 1975, effettivamente decideva
per le sorti di Petrolio, opera incendiaria e onnicomprensiva,
vas apocalittico di forme, dimensioni ed essenze.
Tragica profezia da Pasolini presentita e nuovamente documentata
nelle stesse pagine di Petrolio: |
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Nel progettare e nel cominciare a scrivere il mio romanzo,
io in effetti ho attuato qualcos’altro che progettare
e scrivere il mio romanzo: io ho cioè organizzato
in me il senso o la funzione della realtà; e una
volta che ho organizzato il senso e la funzione della
realtà, io ho cercato di impadronirmi della realtà.
Impadronirmene magari sul mite e intellettuale piano conoscitivo
o espressivo: ma ciò nondimeno, in sostanza, brutalmente
e violentemente, come accade per ogni possesso e per ogni
conquista.
Il secondo fatto è il seguente. Nello stesso tempo
in cui progettavo e scrivevo il mio romanzo, cioè
ricercavo il senso della realtà e ne prendevo possesso,
proprio nell’atto creativo che tutto questo implicava,
io desideravo anche di liberarmi di me stesso cioè
di morire. Morire nella mia creazione: morire come in
effetti si muore, di parto: morire, come in effetti si
muore, eiaculando nel ventre materno. |
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