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Giacomo Trinci
 

DA “PINOCCHIO IN VERSI. AUTOBIOGRAFIA DI UN BURATTINO”
 


1

Sentito morto, non vidi più mondo.
Qualcosa era diverso e non mi avvidi.
Dov’ero io non c’era che profondo.
Dettato d’aria, e vento, ed altri nidi.
Sfuggito dell’umano il guscio tondo,
mi ritrovai al bisbiglio dei tuoi lidi.
Sgusciato ero di mano dal morire,
fatica più, sfumato in un fiorire.

2

Chi mi aveva staccato da quel ramo?
Chi deposto ai tuoi piedi, Fata mia?
Quel campo spelacchiato che ora chiamo,
è sparito lontano, non c’è via
che mi riporti ad esso, al suo richiamo.
Oh mia vita passata, oh mia poesia.
Oh tu che scomparendo appari bianca,
polvere fata, cuore che ci manca.

3

Remota notte giunsi in una stanza,
bianca di mura e spessa di una febbre
che si allontanava in chiara distanza.
Pietà d’occhi lontana in me s’accrebbe
e mosse la Bambina, che in sembianza
di vivido vapore dalle lebbre
di morte mi strappò con le sue mani,
battute per tre volte ai venti vani.

4

Ed ali accorsero precipitose
e nere, mentre inghiottito già tutto
mi sentivo in un travaglio di cose
sbandite. Un grosso falco per il flutto
dei tempi si arruffò e si ricompose
davanti alla finestra in calmo lutto:
- Oh mia graziosa Fata, cosa dite? -,
disse il falco con tono basso e mite.

5

La pietà fatta voce disse allora:
- Vedi tu quel burattino, disfatto
e fatto in tutto questo vento? All’ora
della fine lo riprendi, e nel sacco
qui lo riporta nella mia dimora;
stacca col becco il nodo dello scacco,
ed in terra sull’erba, che riposi
all’ombra della Quercia che disposi. -

6

Il Falco volò via come di strappo,
mentre nel mio respiro mi duolevo
della bellezza stretta nel mio cappio.
Mi sciolse il nodo e bevvi nel sollievo
l’aria, la vita, il prodigioso drappo
delle sue meraviglie; e fondo levo
un sospiro animale, riemerso
dal mio lontano male che attraverso.

7

- Ora mi sento meglio! -, come in sogno
dal fuso di ogni affanno ripescato
mi sento, e dall’inganno del bisogno
che bisogno non è, ma smisurato
appetito di niente, e mi vergogno.
Un buon uomo barbuto inaspettato
mi si fece davanti, zampettante,
e mi guardava come un cane ansante.

8

Lo sciagurato era vestito bene.
Forzato nel suo sfarzo d’altri tempi,
indica a me la via che più conviene.
Prima che il matto tutto in me si adempi
in fatti ed in parole, si contiene
in uno smanettare senza esempi.
Non dice, e dice, è muto ed è loquace,
nel suo vestito candido e vivace.

9

Un nicchiettino in testa da cocchiere
tutto in livrea di gala era vestito;
con la parrucca bianca e le maniere
d’illustre servitore, nel convito
dei giorni mi invitava e nelle fiere
celesti del perdono; il rifinito
abitino mi schioccava la vista
di bellezza com’opera di artista:

10

una giubba color di cioccolata,
con i bottoni tutti di brillanti
sciolse la mente tutta intenebrata;
poi due calze di seta vidi avanti,
due scarpini scollati; ed inforcata
la coda nella fodera, o nei guanti,
non vidi bene; nel teatro ancora
del sonno ogni parvenza si scolora.

11

Sentii lontana la mia cieca vita
come un tuono perduto bubbolare;
sentii la Fata dalla mia ferita
di legno all’uom barbuto sospirare
e dire: - Medoro, la più gradita
e bella delle mie carrozze rare
attacca, e vai nel bosco. Mezzo morto
sul prato, come chi non ha conforto,

12

troverai un burattino. Piano piano
raccoglilo dall’erba dei mill’anni,
mettilo dentro e strappalo al pantano
del tempo, e qui lo porta! -. Dagli affanni
già mi illusi fuori, come sovrano
d’ogni malanno, quando negli inganni
celesti l’ombra e l’aria alla mia mente
formarono le cose dentro il niente.

13

Ed una bella carrozzina d’aria
vidi venire a me, tirata intera
da nuvole di panna, in fila varia
di topolini bianchi a stretta schiera.
Un vento venne a me dalla contraria
vita dell’ombre, e dentro una straniera
chiarezza mi depose e vidi lei,
la bianca fiaba, quello che vorrei.


14

Mi prese in collo la Fatina eterna,
e in una cameretta con pareti
di madreperla, nella parte interna,
mi sciolsi in un respiro, dentro quieti
paesaggi d’acque, nevi, e la materna
fame di libertà coi suoi divieti.
Sentivo sciolti in musica gli orgasmi,
i conversari intorno, i muti spasmi.

15

Quando ad un tratto mi trovai ripreso
da tre neri spettacoli d’inferno,
scarabocchi di chiacchiera nel teso
miracolo di quel bianco governo:
un Corvo, una Civetta e, vilipeso,
dal muro nero paternale eterno,
un Grillo, a vuoto sprofondato in verbo
ed in se stesso fattosi superbo.

16

- E’ vivo o morto? -, mi sembrò di udire.
il Corvo subito si fece avanti,
mi tastò tutto, ed io del mio finire
mendicai l’ore dentro i muti pianti:
- Quel legno mal cresciuto nel mentire -,
disse il corvaccio gonfio dei suoi vanti,
- è morto; e se non fosse morto, allora
segno sarebbe che gli è vivo ancora. -

17

L’altro nero disegno di Civetta
contraddisse il collega sul mio male:
- E’ vivo. Pure mi sento costretta
ad ammettere che questo animale
se non è vivo è morto, proprio in schietta
verità di docenza. Questo è il sale
di tutta la faccenda. - Il Grillo intanto
si restringeva al suo perpetuo canto.

18

Sempre più fioco, sempre più finito.
Ed io dov’ero senza più parola?
Quale universo terso in me stranito?
E quanto la mia vita più s’invola
tanto più vedo vita, e lo svampito
stuolo dei suoi vani ministri. Sola,
la bianca mia fatina paradiso
dispare appare al sogno, col suo viso.

19

L’ombra del Grillo alla sua crosta fisso.
Alla sua luce di ragione appeso.
- Di che, di che, che cosa crocifisso?
Perché la rosa avete disatteso?
A quale storia nuova avete affisso
le vostre vite in dissonante peso?
Dal sogno di una cosa ad una stasi.
Questo sonno che rende persuasi.

20

- Medico che non sa, sposi il silenzio: -,
disse arguta quell’ombra che scrutava;
- e date retta a quello che sentenzio:
quel legno lì ammalato che si aggrava
è uno svogliato, un niente, e lo licenzio. -
Mi trovai in una notte oscura e cava,
solo in mezzo ai ministri della morte;
vidi chiuse al mattino le mie porte.

21

Mio grillo di coscienza abbi pietà!
Gridai fra me e me stesso d’animale,
mosso a schizzi, a febbre di chi già sa
l’angustia vera d’ogni sostanziale
raziocinio perbene che non va,
non va più avanti, inoltra nel suo male.
Ma vibro, affondo nella mia cotenna,
sento soltanto friggere l’antenna.

22

Era un male animale, sparolato.
Oppure non sapevo quale bene.
Solo un bianco incantato, annuvolato,
che non trova soggiorno nelle vene
del pianto quotidiano lato a lato,
ma solo immaginato si sostiene.
Solo tenue più tenue, filo e vento,
fedeltà mia a quel che non divento.

23

Non diventare niente, non volerlo,
questo è il peccato tuo, diceva il Grillo.
Ma non sentivo, non volevo berlo
il liquido che tutti nel tranquillo
lavoro ci avvelena, e sostenerlo
per cavilli e discorsi d’uomo brillo.
Abbiate pietà del mio non volere,
fatina mia che non ti fai vedere.

24

- Il lamento del morto è segno certo
di sua imminente, pronta guarigione. -,
sostenne il Corvo. - Saggio, riconverto
il dire del caro, illustre in questione,
cieco Corvo -, aggiunse sul punto aperto
del problema la Civetta - lezione
d’esperienza, vuole che il morto pianga
quanto più dalla vita si disfanga. -.

 

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