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PER CONOSCERE FEDERIGO TOZZI - GIUDIZI CRITICI

 
   


Narrare, per Tozzi, è catturare quei misteriosi atti nostri, il mistero inarticolato di quegli atti. Non si tratterà più dunque di una narrazione di cause e di effetti, ma di comportamenti, di modi insindacabili di apparire e di esistere. Di qui l'innato antinaturalismo di Tozzi. Il naturalismo narra in quanto spiega, Tozzi narra in quanto non può spiegare.

GIACOMO DEBENEDETTI, Con gli occhi chiusi,
in "Aut-Aut", n. 78, novembre 1963


Rispetto al naturalismo, Tozzi si comporta come quel mollusco che, non disponendo di una corazza sua propria, prende asilo in quella di certe chiocciole di mare. E accade così che il guscio e il suo abitatore abbiano qualcosa in comune dal punto di vista della coesistenza, ma non abbiano niente da quello della biologia specifica. Si potrà insomma dire che Tozzi fu il Bernardo l'eremita della chiocciola naturalistica. […]
Ed ecco che ogni archetipo mentale (magari naturalistico) si dilegua; o per meglio dire la sua trama è sfilacciata in distrazioni narrative dell’autore. […] In Con gli occhi chiusi non esistono momenti privilegiati ai fini delle conseguenze narrative. Ogni momento della realtà ha lo stesso diritto di cittadinanza. […] Le esequie di Anna o il sotterramento del cane Toppa, il vecchio cane da pagliaio, hanno la stessa importanza. Noi diciamo che le pagine del sotterramento di Toppa sono una distrazione; ma infine è un nostro errore di calcolo. Siamo noi che restiamo legati ad una prospettiva, ad un’economia, e cerchiamo di imporla a Tozzi che ha tutt’altra idea, e ben più moderna, di come si fa un romanzo.

LUIGI BALDACCI, Le illuminazioni di Tozzi,
in "Il Bimestre", n. 9-10, luglio-ottobre 1970,
ora in Tozzi moderno, Torino, Einaudi, 1993


La scrittura di Tozzi è piena di intoppi e di vuoti. Richiede un tipo di lettura non lineare, che sappia aggirare gli ostacoli tornando magari sui propri passi o saltando in avanti, che colmi le lacune lasciate aperte e trapassi liberamente e "illogicamente" da un'associazione psicologica all'altra. Essa mette il lettore in uno stato di spaesamento, di leggera ma costante vertigine. Esige l'incessante contributo attivo di un interprete a cui non è lecito rilassarsi neppure per un attimo, un costante impegno ermeneutico. Contiene in sé un appello incessante alla libertà del lettore, e insieme lo sollecita ai limiti estremi delle possibilità.
Il ritardo con cui Tozzi si è imposto fra i classici del nostro secolo e i disagi che la storia della ricezione registra hanno a che fare con l'ambiguità con cui la sua opera si presenta e con la conseguente difficoltà a incontrare il "lettore modello" da essa postulato. La sua produzione narrativa è sembrata troppo ardua a lettori che amano una scrittura consequenziale e pacificata, troppo provinciale per ambientazione e scelte linguistiche a quelli più sofisticati che prediligono una letteratura "metropolitana" e d'avanguardia. Gli uni e gli altri sono "buoni" lettori; per Tozzi occorrono invece, come egli stesso ebbe a scrivere polemicamente, "pessimi" lettori, cioè lettori diversi, capaci di uscire dalle categorie prestabilite.

ROMANO LUPERINI, introduzione a
Federigo Tozzi. Le immagini, le idee, le opere, Bari, Laterza, 1995


Soltanto quando si sia arrivati alla fine, e meglio ancora si siano lasciati passare parecchi giorni dopo la lettura, si comprende con una chiarezza che dà l'impressione di cose vedute e vissute realmente, che non a uno a uno i particolari inesauribili, quasi momentanei, […] si sono forzati, come pareva leggendo, a metter su l'insieme di questo romanzo di Federigo Tozzi, Con gli occhi chiusi; ma, cosa veramente mirabile, la comprensione radicale, il totale dominio, il possesso pieno e assoluto di questi personaggi e del loro animo, dei loro casi, di tutto ciò che è in loro e attorno a loro, per immediato irradiamento delle loro più minute sensazioni e impressioni. […] Si direbbe naturalismo: ma non è neanche questo; perché qui tutto, invece, è atto e movimento lirico.
LUIGI PIRANDELLO,
in "Messaggero della Domenica", 13 aprile 1919


Il personaggio femminile è la grande riuscita del romanzo Con gli occhi chiusi. Ghisola è un autentico polo di attrazione sessuale: fa pensare alle grandi figure femminili di Hardy, a Batsheba, a Tess. Noi viviamo la passione di Pietro per Ghisola perché sentiamo quanto la donna sia desiderabile. Ed è uno strazio assistere alla sua degradazione. […] Il terzo protagonista del romanzo è il padre. Domenico Rosi ha una straordinaria evidenza. E' un concentrato di appetiti: l'appetito della roba, l'appetito sessuale, l'istinto di sopraffazione. Ha un vero gusto per il comando, e lo esercita su tutti, sul figlio, sulla moglie, sul personale della trattoria, sui contadini. Dirò per inciso che è sorprendente l'analogia di Domenico con le figure del padre in Figli e amanti e nel Dedalus. Anche il padre di Paul Morel, cioè il padre di Lawrence, anche il padre di Stephen Dedalus, cioè il padre di Joyce, possiedono una straordinaria e quasi animalesca vitalità. E i figli ne sono atterriti e affascinati insieme.

CARLO CASSOLA,
in F. Tozzi, I romanzi, Firenze, Vallecchi, 1973


Basta entrare nella storia dello scrittore per rendersi conto di quanto Tozzi trascini nelle righe della sua opera la sua vita; quanto l'esperienza letteraria, anche nei suoi risultati puntuali, si configuri per lui fin dall'inizio come un esorcismo o un fascino autobiografico. "Io non conosco – si dice in Paolo – quale legge mi unisce ai miei genitori. Io sono diventato un uomo senza ch'io abbia la ragione della mia vita" […]. I due temi – quello della creazione e del concepimento che la perpetua e quello dell'espressione linguistica – tornano ad intrecciarsi, indissolubilmente: né più né meno di come avvenne con esiti tecnicamente ineccepibili, al principio dei tempi, quando un Dio parlante disse e fu fatto. C'è un'invidia creazionale, in Tozzi, che reagisce alla gelosia paterna e piange la propria incapacità di procedere a una creazione alternativa: impossibilità anche di dire, di far corrispondere automaticamente il nome alla cosa, il discorso alla storia, com'è della parola rivelata, che è nel contempo ordine e ordinamento.

MARCO MARCHI, Il padre di Tozzi,
in "Antologia Vieusseux", n. 73-74, gennaio-giugno 1984, ora in Federigo Tozzi. Ipotesi e documenti, Genova, Marietti, 1993


Tozzi ha alcuni caratteri in comune con Verga. Come Verga, ci ha dato il ritratto autentico di una provincia italiana; la Toscana di Tozzi, come la Sicilia di Verga, è in qualche modo 'magmatica', grazie ad un analogo approccio linguistico alla realtà. Né Tozzi né Verga sono dialettali; essi vanno più a fondo del dialetto; attingono alla voce viva di un parlato che oltre che dialettale è anche psicologico al livello dell'inconscio. Ma i punti in comune tra Tozzi e Verga si fermano qui. Le differenze, in compenso, sono illuminanti. Tra Verga e i suoi 'vinti' ci sono una distanza, un distacco che non sono soltanto dovuti all'oggettività propria del naturalismo ma anche alla differenza sociale tra Verga e i propri personaggi. Una distanza di classe, un distacco signorile, anche nella pietà. Invece Tozzi sta in mezzo ai suoi personaggi, anch'essi 'vinti', come un simile tra i suoi simili. Non è una questione di autobiografia, benché Tozzi nei suoi libri parli spesso di se stesso; e Verga nei suoi, mai. E' una questione, secondo noi, di identificazione attraverso la cattiveria. Tozzi si identifica coi suoi personaggi, condividendone l'acredine e gli odi perché, si direbbe, si sente incapace di oggettivarli attraverso la pietà. Egli ha bisogno di stare addosso alle sue creature con quell'aderenza ingiusta ed aggressiva che è propria soltanto dell'antipatia. Anche per quest'aspetto, Tozzi è un moderno; mentre Verga non lo è. Infatti l'approccio esistenzialista non sa che farsene della simpatia, vuole soltanto l'identificazione. La cattiveria di Tozzi viene dal fatto che egli si identifica con personaggi cattivi.

ALBERTO MORAVIA, prefazione a
F. Tozzi, Novelle, Firenze, Vallecchi, 1976


Nel racconto toscano di Fucini, di Procacci o Paolieri, nell’arcaica e imperturbabile dimensione delle aie e delle fattorie, di cui la madia e il fiasco sono elementi inamovibili, si trovano sì a far da protagoniste le massaie, i capoccia, i contadini (gli assalariati) della patriarcale società del contado, ma sono pur sempre tipizzazioni fisse, macchiette che accentuano con la loro naturale collocazione il dato coloristico. Personaggi assai simili fanno parte anche del mondo tozziano ma il loro spessore psicologico è ben più complesso poiché oscure e insondabili sono le motivazioni del loro operare.

GIORGIO LUTI, introduzione a
F. Tozzi, Opere. Romanzi, Prose, Novelle, Saggi, a cura di M. Marchi,
Milano, Mondadori, 1987


Debenedetti capì per primo che il caso Tozzi non aveva a che fare né col frammentismo vociano, né con D'Annunzio, né con Verga, né con Dostoevskij, né con Mario Pratesi, né col cristianesimo, né col cattolicesimo, né con la crisi della piccola proprietà agraria, né col teppismo degli intellettuali ecc., ma aveva bensì a che fare con la violenza di un padre contro il figlio e con l'invidia di questi verso il padre; con fenomeni di regressività e di afasia; con stati d'ansia, d'angoscia, di paura; con l'aggressività propria e con la minacciosità degli altri; con traumi non sanati, lesioni profonde, mutilazioni, castrazioni e vendette che si ritorcono contro chi ci ha mutilato; col disamore, l'indifferenza, l'incomunicabilità, la cattiveria e l'incapacità sentimentale dei bambini; infine con l'assenza di ogni prospettiva etica perché, in quel mondo e a quei livelli, i valori sono ancora di là da venire, o non verranno mai, e quei personaggi sono destinati a non diventare adulti.

LUIGI BALDACCI, Tozzi e la lezione di Giacomo Debenedetti,
in "Nuovi Argomenti", luglio-settembre 1987,
ora in Tozzi moderno, cit.


Il mondo che è intorno a Remigio Selmi è brutto e cattivo, e il poeta lo descrive con una veemenza goiesca in cui non mancano tinte polemiche […]. La gran bellezza del libro è nella continuità implacabile d'uno stato d'animo che chiamerei d'idillio avvelenato. […] Così tutte le contemplazioni si mutano in torture, e non v'è aspetto della terra e del cielo che non venga oscurato dalla presenza del bisogno e della fatica. Si aggiunga a quest'ostacolo, d'indole particolarmente economica, quell'altro che sempre si frappone nei personaggi di Tozzi tra il desiderio di vivere e la possibilità di una piena vita. […]
Il podere ha un'intensità disperante. E' un libro monocorde ed ossessivo. La perfezione con cui Tozzi ha espresso il lirismo soffocato dello struggle for life negli uomini e nelle creature inferiori ha pochi precedenti.

GIUSEPPE ANTONIO BORGESE,
in Tempo di edificare, Milano, Treves, 1923


In Tre croci quando Giulio dà fondo al suo animo, parlando col Nisard nell'ultima passeggiata, dice che non ha mai avuto la sensazione piena dell'esistenza: "Io non sapevo se quel che vedevo era un sogno più vasto, continuo a cui m'ero abituato: e del quale soltanto poche volte avevo coscienza. Per farle capire meglio, immagini che il presente stesso era per me il senso d'una realtà convenzionale". Come a dire che egli si è sentito sempre a disagio nella vita, e lo capisce ancor più nell'atto del suicidio, quando vede "che la coscienza quotidiana si era inspirata non ai suoi sentimenti, sempre mobili, ma a certe invariabilità; alle quali, forse, quei sentimenti, si erano sempre attaccati". Uno scrittore sociale potrebbe forse trovar luogo, qui, a dimostrare che le "invariabilità" sono non altro che gli idola fori dei pregiudizi; mentre invece Tozzi aggiunge, senza domandarsi altro, che "anche il desiderio di morire era invariabile", e cioè era prescritto da tutta la logica della vita di Giulio, e non v'era da far altro, perciò, che mettere la testa nel laccio adempiendo il dettame misterioso che gli veniva dall'alto, o dal basso del suo inferno.

FERRUCCIO ULIVI,
in Federigo Tozzi, Milano, Mursia, 1962


Alla ricerca di riabilitazioni interiori, di quell'anima tanto anelata e latitante nell'uomo di Tozzi che, distinguendo dalle bestie e dalle cose, risulterebbe garanzia di una benevola paternità e di una indiscussa appartenenza filiale, lo scrittore incontra la psiche, e con lei la cultura scientifica. Le dinamiche di un immaginario culturalizzato si arricchiscono, si danno il cambio, si intrecciano. «E quando io scrivo Signore – specifica un aforisma di Barche capovolte –, intendo parlare di uno stato speciale della nostra anima» (Penelope): anima e psiche, come avviene nel James di The Varieties of Religious Experience e come lo stesso D'Annunzio del Trionfo incoraggia, si profilano termini intercambiabili di un'unica indagine che persino a livello elementarmente vocabolaristico, di scelta di linguaggio adottato, rinvia a precisi ambiti tecnici di derivazione: anima, estasi e rivelazione, ma anche coscienza (o conscienza), sensazione, percezione, stato mentale, associazione, inibizione, memoria, volontà incosciente (e già in Paolo «ricordo inconscio del passato» e «sacco pesante» dei ricordi dell'infanzia «rimosso»). È la scoperta dell'inconscio e, nel contempo, l'inaugurazione della poetica dei «misteriosi atti nostri» (secondo una celebre dichiarazione di Come leggo io) cui il realismo del profondo della scrittura tozziana si affida. L'immagine di un Tozzi in balìa di ossessioni e grande narratore solo per via di proiezioni simboliche risulta oggi insostenibile.

MARCO MARCHI, introduzione a
Vita scritta di Federigo Tozzi, Firenze, Le Lettere, 1997


Tozzi va considerato fra i quattro o cinque maggiori romanzieri italiani del secolo. Ma è nel campo della novellistica che Tozzi raggiunge i suoi maggiori risultati, paragonabili, in campo europeo, solo a quelli di Pirandello, Joyce, Kafka. Con lo stesso Pirandello e con Verga, Tozzi è il maggior novelliere dell’Italia unita, ed è un limite grave della cultura letteraria del nostro paese non averne compresa la grandezza.

ROMANO LUPERINI, introduzione a
Federigo Tozzi. Le immagini, le idee, le opere, Bari, Laterza, 1995


C'è, su Tozzi, una specie di silenzio programmatico. Per me è un grande scrittore. Non ce ne sono come lui, neanche Svevo, che è molto intellettuale, anche perché proviene da quel crocevia di culture. Tozzi, invece, viene dal fondo della senesità: viene dall'ambiente, dalla realtà, dalla "zolla" senese. Ed è questa, forse, la ragione del limite che la sua risonanza ha avuto. Ma quando uno lo legge e c'entra dentro se ne innamora. Io l'ho sempre sostenuto, anche all'estero, in Francia, in Inghilterra l'ho sempre indicato come un grande scrittore. In Francia l'hanno tradotto, poi è stato dimenticato, come rimosso. Magari in alcuni scritti può apparire oggettivamente angusto, però dentro i suoi libri c'è tutto. E quando entri dentro viene fuori tutto il senso e, direi, il non senso delle nostre vicende umane, delle nostre passioni. Se si pensa che ha scritto tutto in pochi anni, lasciandoci tre o quattro capolavori, c'è da chiedersi chi abbia fatto altrettanto. Nessun altro.

MARIO LUZI,
in M. Luzi-R. Cassigoli, Frammenti di Novecento, Firenze, Le Lettere, 2000

 

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