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PER CONOSCERE FEDERIGO TOZZI - SAGGIO

 
Marco Marchi
Scrivere per il padre. Ritratto di Federigo Tozzi

 

Diceva Oscar Wilde, uno scrittore letto da Tozzi, che «Chi ha più di una volta vissuto, deve più di una volta morire». La vera vita di Federigo Tozzi, sono convinto, fu e resta la sua scrittura. Modernamente, siglando punti di non-ritorno e nuove possibilità novecentesche appannaggio dell'esercizio letterario, lo scrittore senese non ha mai scritto un'autobiografia, ma un'opera articolata e complessa che è corretto definire a sfondo autobiografico: un unico grande romanzo, volendo, scandito – come accade ad esempio anche in Svevo, dal giovanile Una vita all'estremo, incompiuto Le memorie del vegliardo – in grandi capitoli. Un unico romanzo, per di più, vòlto in Tozzi ad includere al suo interno – ibridamente e con assoluta disponibilità, da scrittore tra i massimi della letteratura italiana del Novecento – forme diverse di sperimentazione, e cioè tutti i generi di una pratica letteraria ampia e variegata che, oltre il romanzo, prevede moltissimo: dalla novella alla prosa lirica, dall'aforisma all'espressione poetica, dal testo per il teatro alla pagina saggistica.
Ecco, in un moderno, suggestivo ed artisticamente formidabile viaggio ad occhi chiusi, dell'incertezza e del «parere», dell'insoddisfazione e della inevitabilità, le caleidoscopiche e tutte necessarie potenzialità del narrato: le versioni alternative di stessi episodi che sono qualcosa di più di vita semplicemente differita o rivissuta, la vita che si moltiplica attraverso alter ego contraddittori e contrastanti (Rachele dell'Eredità e Remigio del Podere), le risorse tutt'altro che dissimulatorie dell'en travesti (oltre a Rachele, l'isterica Adele, l'erudita contessina Giulia della novella Gli olivi, la bionda contadina Fiammetta di Una figliola), i differimenti autobiografici più decentrati e imprevisti, attivi persino (mediati dal riferimento cristologico, nonché da appresi e autobiograficamente recuperati caterinismo e pirandellismo) nell'oggettivata narrazione di Tre croci, fino all'essenziale, antiumanistico autobiografismo senza nome della sofferenza, del degrado, dell'abbandono e della dimenticanza, che si fa animale e cosa, che fa del mondo intero il «doppio» di chi scrive: una farfalla ferita, un embrice che si sporge, un ventaglio sbiadito, un uccello imbalsamato, un piccolo cimitero di campagna, una giovane derelitta incontrata sul Lungotevere per guardare negli occhi della quale, «addirittura privi di ogni carattere umano o bestiale» come gli appaiono, lo scrittore dichiara di aver dovuto «assolutamente dimenticare non solo la sua coscienza, ma anche ogni cosa della sua memoria» (Il crocifisso).
Ecco – con l’emergere di un’ampia cultura psicologica un tempo insospettata, e procedendo a ritroso, in zone paraletterarie molto feconde, già partecipi di quella «vita scritta» in cui Tozzi vive – lo scrittore che anche nelle precoci corrispondenze epistolari di Novale letterarizza se stesso e gli altri (fino all'immaginata «morte per vertigine» di Isola vecchia con cui la scrittura, prima che il finale di Con gli occhi chiusi si formalizzi, opera le sue vendette), già prevedendo e programmando un uso letterario della lettera, anticipando addirittura materiali pronti al reimpiego come sarà per la composizione dei Ricordi, una fase gestatoria antichissima, arretrabile al 1902, in cui si attivano le metafore capitali della letteratura tozziana.
Gli occhi chiusi, la jamesiana barca capovolta, il terrore della morte incombente già confortato da un «piccolo crocifisso d'avorio», il senso del divieto e il gravame della «oscura colpa a priori» sono immagini e motivi ricorrenti di un'anima al nastro di partenza della propria autonoma avventura nel mondo; e ancora, singolarmente tempestiva e intonata al Qohélet, l'individuazione di un'irredenta umanità bestiale, sofferente e crudelissima, cui prestare soccorso come al vitellino di Adele o all'albero dai «rami troppo schiacciati» di Bestie, con il rimpianto di quella che in Paolo è stata per un momento la «vita apparsa», mentre violenza gratuita, non-senso, minaccia dell'«inibizione perpetua» sono i sentimenti avvertiti cui la richiesta culturale presta per suo conto assistenza.
Si profila – in una sorta di livellata «rappresentazione dolorosa» di ricordi che loro malgrado tornano a snodarsi – una galleria di anonimi, oscuri, inanimati e dimenticati, dostoevskiani umiliati e offesi intuìti personaggi importanti e inevitabili, portatori di storie da raccontare, inespresse. Ed ecco, magari confuso tra loro o tra qualche animale da bestiario, metamorfico e imprendibile, «l'altro Federigo», l'«altro io» che da padrone della luce si trasforma in ombra, riconfermandosi il prepotente, litigioso, fisionomicamente come nella vita reale «grave e muscoloso» avversario di sempre (L'altro io, in Barche capovolte), o diventa magro, «forse più leggero del suo bastoncino di bambù secco», come un sorridente e ciarliero fattore «ricco e ladro» dagli occhi celesti, in grado di riverberare sulla campagna «caratteri acremente simpatici o altrettanto antipatici», pronto a sparire «tra i pampini della sua vigna, divenuta soltanto una sensazione di colori» (Persone).
Ecco infine, con evidenti alterazioni cronologiche che la scrittura, precorrendo la realtà, registra, l'idea fondamentale di un'intera opera balenata nel marzo del 1907, quando Tozzi era a Roma con Emma, lontano da Siena e dal padre: un'idea che, in anticipo sui giorni del maggio 1908 e su un altro decisivo ritorno a Castagneto, già si lascia cogliere e fissare in scrittura: «M'è apparso anche un breve dramma, il cui fondo m'è stato dato dalla portineria di questa casa. Non saprei. Una stanzetta col paravento, che cela un letto dov'è malato il padre del protagonista... Ma non saprei» (Novale, lettera dell'11 marzo 1907).
«Santa Caterina – affermerà lo scrittore in un suo celebre testo saggistico – ci sbarazza di tutto ciò che ci impedisce di giungere al nostro io più profondo. E siccome a lei era aperta e manifesta ogni anima, ella poteva scrivere le sue lettere con la certezza di essere su la verità» (Prefazione a Santa Caterina da Siena, Le cose più belle). L'ardore di carità fattosi scrittura di Santa Caterina rimarrà per Tozzi un punto di riferimento e un anelito, ma la sua poetica volgerà piuttosto, stabilizzandosi, a un leopardiano – scientificamente accertato attraverso le letture di William James, Janet, Bergson, Ribot, la «Revue Philosophique» e perfino un sunto d’autore del Tre saggi sulla sessualità di Freud – «stare nella disperazione».
Il Tozzi poeta potrà così tornare a rileggersi in una delle liriche dei Fascicoli: «Se questi soli spariscono mozzi, / ben altro sole l'anima travide / per gli occhi che d'azzurro sono pozzi» (Sotto la morte); potrà momentaneamente raccomandarsi o presumere di riconoscersi - in sintonia con Colui che si guarda nella fonte - come ai tempi di Specchi d'acqua: «Oh, poterti toccare, paradiso; / carne armoniosa ed umida di luce! […] / Ritorna, Cristo, perché troppo è stata / mietuta dal dolor la specie umana. [...] / Signor che taci con amor paterno / l'anima comprendendo ti rispose» (A Dio); persino, come avviene in Canto gregoriano, escogitare identità da finale di componimento del tipo «il mio silenzio è come te Signore!». La tonante voce di silenzio di un Dio testualmente attivo nel giovanile poema in prosa Paolo nei termini di un conflitto fra chi detiene il Logos e un superomistico eroe illuso a tal punto da nobilitare la propria solitudine in «un'imagine di Dio», riconduce per via di «misteriosi atti nostri», scientificamente accreditati e fondanti una poetica, alla radice etimologica stessa di un neotestamentario mystèrion (myein, chiudere): farsi «muti» e «miopi», chiudere labbra e occhi per «intra-vedere» (cfr. G. Ravasi, in «Il Sole-24 ore», 1° ottobre 1995).
L'incidenza di buone novelle, fedi comunicabili e risolutivi indirizzi ideologici cui potersi attenere si ferma qui: un «laicismo da privazione», in sostanza, secondo l’ottima definizione di Luigi Baldacci (Tozzi moderno, Einaudi 1993). Sulla riattivata trasmissibilità di un incalco spezzato che torna ad essere forma perfetta prevale in Tozzi, anche a sentirsi o volersi finalmente sentire figli di un padre, una moderna «somiglianza inesplicabile» (L'incalco). Lo scrittore stesso risponde al volontarismo di Santa Caterina (un tutt'uno immaginoso con il «capo spinato di Cristo crocifisso» cui la volontà, «crociando» il proprio, si conforma) con assertive definizioni da trattato scientifico: «Noi siamo sottoposti alla volontà incosciente» (Il mio egoismo, in Barche capovolte). Se per Santa Caterina anche «La memoria diventa una cosa con Cristo crocifisso» (La memoria e Cristo, in Le cose più belle), per il bergsoniano e prefreudiano Tozzi «La nostra coscienza è il resultato di comparazioni che avvengono a nostra insaputa» (Contentezza di sé).
Ciò nonostante (proprio per questo) Tozzi continua a cantare, ad aggiornare la sua espressione artistica fino all'atto cruento che deciderà della sorte di un suo personaggio assassinato nei campi, tra pampini e grappoli d'uva acerba: «O mio crociato amore, non istare; / insanguina le vigne ch'hai piantate: / è la tua ploia questa dell'estate, / quando l'aridità vuol soffocare» (Santa Caterina, in La città della Vergine). La funzionalità del «primitivismo» di Tozzi non esita a riproporsi, a manifestarsi, e ancora in chiave di saldature psicologico-religiose mediate dal linguaggio. «Vi è in noi, sempre - si afferma in San Bernardino da Siena, di nuovo coniugando per puntuali imprestiti linguistici le risultanze jamesiane di un «libro di psicologia» come Barche capovolte a un pronunciamento critico - un mondo destinato al silenzio ed è forse il migliore e il più significativo. Le scuole letterarie hanno proibito di adoperare certi spunti emozionali, perché quando stiamo con la penna in mano sembra che essi si disfacciano come i sogni, tanto appartengono, con profondità indicibile e con significato enorme, agli elementi meno equivoci che si rivelano alla nostra coscienza. Noi abbiamo dato alla nostra psicologia intima un senso convenzionale che si muta dinanzi alla realtà».
È – rabdomanticamente inconsapevole e culturalmente sostenuta – la letteratura che precede gli eventi naturalistici della vita, fino ad un'altra scrittura premonitoria, ancora da brivido, reinterpretabile per colui che quella scrittura, autobiograficamente, oltre le sue intenzioni, redige: «Io sono morto una domenica, quando la gente cominciava ad escire di casa» (Persone): quasi una profezia, «prescienza» più che «presentimento» – lo ha suggerito Glauco Tozzi in uno dei suoi più intensi ricordi del padre (Testimonianza per mio padre, in Per Tozzi, a cura di C. Fini, Editori Riuniti 1985) – che specificandosi all'occorrenza nel 21 marzo del 1920, quell'anno Domenica di Passione, estende biograficamente e inaspettatamente suggella le ricorrenti figurazioni del Christus patiens di un intero percorso letterario: da quei generici «figli crocifissi» accomunati e compatiti in una lettera di rievocazione del passato di Novale alle pagine tarde del Podere e di Tre croci, dalle prose di Bestie e di Cose e Persone alla splendida, già ricordata novella Il crocifisso.
Ma è anche, all'alba di quel lontano 21 marzo 1920, domenica e cristica domenica di Passione, l'inizio della primavera: la promettente primavera tanto invocata, artisticamente frequentata e discussa in Tozzi («Primavera giammai, non torna amore» secondo un verso delle leopardiane Ricordanze, «Orsù, figliuolo, non stiamo più in negligenzia; ché il tempo de' fiori ne viene» secondo un'esortazione di Santa Caterina), la stagione ambiguamente resurrezionale e reliquiaria dei fiori di campo pietosamente sparsi sul corpo di Giacomo Selmi, cristologico e imprevisto «doppio» pregresso di Remigio. Si allude al ritratto terminale di Giacomo Selmi che compare ad apertura del Podere, in quelle stupefacenti pagine ritrovate dall'autore nel 1918, di un romanzo iniziato anni prima, riemerso da una valigia: «È bellissimo – comunica prontamente Tozzi a Emma, allora a Castagneto –. Ci sono cose viste in un modo che forse non vedo più».
Una potenziale vicenda naturalistica di decadenza e degenerazione si fa storia simbolica, un biografico «piede bucato da una bulletta» aggetta su iconografie da Golgota presto precisate. «Remigio salì in ginocchio sul letto. Ma Giacomo, che aveva la testa ciondoloni sul petto e gli occhi chiusi, non se ne accorse né meno. Allora, gli chiese: / – Non mi riconosci?». È il tema della caduta del padre, già attivo nel romanzo del '13 e altrove in Tozzi, ma qui pervenuto alle sue conseguenze narrative più implicanti, di consuntivo e di bilancio. Ai sette anni di sopportazione della presenza di una serva al fianco del padre, il personaggio Remigio oppone i tempi bergsoniani che, al di là delle trame e delle superficiali occorrenze e ricorrenze che anche la vita porta con sé, interessano Tozzi: i tempi della «profondità», i tempi - sconfinati e attimali, indistinti e inesorabilmente vincolanti - della memoria: «Allora, Remigio appoggiò la testa ai ferri del letto e stette zitto; mentre quel che facevano dinanzi a lui gli pareva di vederlo da tanto tempo».
La pretesa ultima notte di Pietro a Poggio a' Meli, soprattutto, segretamente continua: «Tali cose, con la sonnolenza e con la stanchezza, gli ritornavano a memoria, rapidamente; mentre pareva che il moribondo non lo vedesse né meno. Allora, si scostò dal letto; e si mise a sedere nell'ombra che faceva una scatola vuota accanto alla lucernina». Riecheggiano – per Remigio «uomo dei dolori» e per Tozzi scrittore di cultura – le Lamentazioni bibliche: «È bene per l'uomo quando porta / il giogo fin dalla sua giovinezza. / Sieda solitario e silenzioso, / perché Egli glielo ha imposto; / ponga nella polvere la sua bocca: / forse c'è speranza! [...] / Chi è che disse e le cose furono? / Non le comandò forse il Signore?» (III, 27-37); e ancora: «Egli mi ha condotto e ha fatto camminare / nella tenebra e non nella luce; [...] / mi ha fatto stare nelle tenebre / come i morti del secolo» (III, 2-6) .
L'agonia di Giacomo Selmi alla Casuccia prevede ormai, del tutto specularmente, l'abdicazione di Dio alla parola e alla vista, sue prerogative essenziali, suoi contrassegni: «quando tentava di dire qualche parola, nessuno lo intendeva»; «Giacomo aveva gli occhi chiusi, con le palpebre quasi trasparenti e violacee; dalla bocca mezzo aperta, respirava affannandosi quando il rantolo gli chiudeva la gola». L'assimilazione è più che annunciata: è in atto. Chi alitava sul mondo la vita, il padrone della luce il cui soffio decideva del giorno e della notte, le cui parole tonanti nel silenzio erano il «vento impetuoso» che spira dalla bocca in Giobbe 8, 2 (si ricordi l'apertura di Con gli occhi chiusi, con Domenico in trattoria che a fine giornata soffia sulla fiammella di una candela), ha bisogno di aiuto, di respiro: «Allora gli dettero un tubo di ossigeno. Remigio sorreggeva il cannello di gomma; da cui il gasse esciva con un sibilo sottile; e il morente protendeva le labbra, si scoteva e inghiottiva. Una volta sola, aprì la bocca: la lingua e il palato erano chiazzati di rosso scuro. Luigia disse: / "Ha arsione. Guarda che asciuttore!"».
Si approda, nell'universo non salvato di Tozzi, prima che al riferimento cristologico distesamente sperimentato sulla proiezione di sé che sarà Remigio, a una cristologia del padre, còlto, lui che era un mostro, come un evangelico Gesù crocifisso, estremo Dio della sete forzatamente umanizzato e sofferente: «Gli accostarono alla bocca un bicchiere, credendo che potesse bevere; ma gli rovesciarono l'acqua giù per la barba e la camicia. Remigio avvolse a un fuscello un poco di cotone idrofilo bagnato e glielo mise su la lingua. Il morente lo strinse; come per succhiarlo. / Poi il respiro doventò più grave e più rado, le mani gli si gonfiarono; si scosse, lamentandosi».
Il veterotestamentario Dio di Tozzi si fa Gesù, anticipando e complicando il più facile rispecchiamento sacrificale di Remigio; propone, volendo, anche l'ammaliante, oltranzistico e se così fosse davvero perverso camaleontismo di una nuova possibile alleanza, di immagini che equivalgano a un'impensata prospettiva di riscatto, sufficientemente cristiana e sufficientemente eretica. Non manca neppure - controlli il lettore, rileggendo in questa chiave il finale del primo capitolo del Podere, valorizzando le reiterate riprese temporali e la concisione da sintassi evangelica alla Marco di un periodo-versetto come «Poi il respiro doventò più grave e più rado, le mani gli si gonfiarono; si scosse, lamentandosi» - il compianto delle pie donne: «Mentre le donne piangevano, guardandosi l'una con l'altra...».
Oltre la morte che fa anche di Dio un uomo in croce, un figlio disorientato di un altro padre, persino la resurrezione appare presagita da una sorta di rassicurante e inquietante permanenza naturale, per cui la scomparsa di Giacomo Selmi sarà per il figlio che gli sopravvive la permanenza stessa della creazione, l'antico seducente e offensivo «mantello» di Paolo o il «fiorito ammanto / che dal sole più chiaro è rivelato» di una lirica di Specchi d'acqua, le superstiti ed esclusive «cose da amare», adesso, di un podere che tornerà a prosperare e rifiorire di continuo, perennemente: «Il cadavere era doventato, come improvvisamente, d'un giallo spaventevole; e gli sparsero sopra, dopo avergli messo un vestito, che Giacomo non aveva mai voluto rinnovare, pochi fiori di campo, portati da Dinda, la moglie di Picciòlo».
«C'è tanta primavera – dice una prosa di Cose – che mi fa paura. Viene fuori dalla terra e riempie ogni spazio, nell'aria» (74). Inscenando prima di ogni resurrezione la morte del padre, mentre Remigio teme l'inevitabilità di «qualche parola che gli sarebbe restata sempre a mente» (un irritato e distratto «Addio!», un concitato ultimo comando, un «urlo» che trascolora in quello dell'ora nona?), lo scrittore trova le sue. Come si legge nella celebre Lettera al padre di un autore più volte e a ragione richiamato per Tozzi, Franz Kafka: «"Adesso sei libero!". Naturalmente era un'illusione; non ero o, nel più favorevole dei casi, non ero ancora libero. Scrivevo di te, scrivendo lamentavo quello che non potevo lamentare sul tuo petto».
Tozzi, lo sappiamo, non aveva potuto leggere Kafka, ma aveva letto (e segnalato all’attenzione nell'esemplare dei Canti scelti che possedeva) una lirica di Walt Whitman che recita, nella traduzione autorizzata di Luigi Gamberale: «Io mi abbandono sopra il tuo seno, o padre mio, / Mi avvinghio a te, sì che tu non possa discioglierti dalle mie strette, / E mi terrò avvinghiato finché tu non mi rispondi qualche cosa. / Baciami o padre mio, / Toccami colle tue labbra, come io tocco quelle di chi amo, / Spirami, mentre che ti stringo, il secreto del tuo murmure che io desidero» (Quando io declinava coll'oceano della vita). E aveva letto – lui che sosteneva che «leggere, nel nostro tempo, è specialmente esistere. Ed esistere con tutta la nostra anima e con qualche fede» (Persone) –, assieme a Dostoevskij, a Leopardi e agli scrittori scientifici, la Bibbia: «Chi ama suo figlio - questo è l'Ecclesiastico, 30, 1-9 - gli fa spesso sentire la sferza. [...] / Muore suo padre, ma è come se non morisse, / perché dietro a sé lascia uno che è simile a lui. [...] / Un cavallo non domato diventa intrattabile, / ma un figlio lasciato a se stesso diventa un temerario. [...] / Accarezza tuo figlio e ti farà spaventare, / scherza con lui e ti farà piangere».
Ha dichiarato di recente Mario Luzi, un testimone oltremodo prestigioso ed affidabile del Novecento italiano: «Per me è un grande scrittore. Non ce ne sono come lui. […] Tozzi viene dal fondo della senesità; viene dall’ambiente, dalla realtà, dalla “zolla” senese. Ed è questa, forse, la ragione del limite che la sua risonanza ha avuto. Ma quando lo legge e c’entra dentro se ne innamora. […] Magari in alcuni scritti può apparire oggettivamente angusto, però dentro i suoi libri c’è tutto. E quando entri dentro viene fuori tutto il senso e direi il non senso delle nostre vicende umane, delle nostre passioni. Se si pensa che ha scritto tutto in pochi anni, lasciandoci tre o quattro capolavori, c’è da chiedersi chi abbia fatto altrettanto. Nessun altro» (M. Luzi-R. Cassigoli, Frammenti di Novecento, Firenze, Le Lettere, 2000). Tozzi insomma – come in un altrettanto prestigioso, singolarmente lusinghiero e del tutto valorizzabile giudizio epistolare a suo tempo espresso da Ezra Pound – autore di valore «locale» e «internazionale».
Così – dopo essere diventato uno scrittore straordinario, dopo essersi sufficientemente distinto da quel Federigo Tozzi «uomo tolto alla vita industre» cui più che ad altri Tozzi ha dedicato la sua opera – il figlio rimane con se stesso e con la propria libertà. Instabili diversità e coincidenze forse ritrovate, là dove tutto avviene e si conclude: la casa del padre.
 
   
   

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