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  Voci della memoria
 
Alina Giomi ved. Orlandini
 

Una somma di episodi

In famiglia siamo molto contenti per questa iniziativa: finalmente un libro scritto dal popolo di Castelfiorentino sul passaggio della guerra nel 1944 e dintorni. Ci voleva proprio, così qualunque cittadino, anche non istruito, può scrivere fatti ed episodi avvenuti a lui, alla famiglia, ai conoscenti, a qualsiasi persona.
Purtroppo, io avrei tanti di quei fatti da riempire mezzo libro. Fra tutti ne ho scelti alcuni che ricordo meglio e che fecero tanto soffrire la famiglia. Ma ho anche di bei ricordi.
La guerra, che orrore! Quanti lutti e rovine portò in tutta l'Europa! Come dimenticarli? Sono soddisfatta di scrivere ora, alla mia modesta maniera, affinché i giovani e i meno giovani conoscano questi orrori direttamente da chi questi orrori ha vissuto.
Io non voglio entrare in politica perché questo non è un libro di partito. Non è e non deve essere. E' un libro di storia locale, per tutti, castellani e immigrati che ormai da anni si sono inseriti nella nostra comunità e che ora sono castellani a tutti gli effetti.

Primo episodio

Il mio marito, Pietro Orlandini, da tutti conosciuto, fece amicizia durante la guerra con il curato australiano in missione alla propositura di Castelfiorentino; degna persona e anche lui convinto antifascista. Pietro aveva allora il negozio di parrucchiere in via Testaferrata. Il curato andava da lui una o due volte al giorno, quando c'erano pochi clienti. Ma il motivo era quello di parlare dell'andamento della guerra. Lui ascoltava sempre radio Londra e per questo era aggiornato più di noi. Il mio marito faceva finta di ritoccargli un po' i capelli oppure di fargli la barba. Ma che rasoio adoprava? Prendeva uno di quei rasoi di legno (manico e lama) che gli servivano per insegnare il mestiere ai giovani apprendisti. Prima lo insaponava bene bene e poi glielo passava sul viso. Intanto, mentre faceva questa operazione, parlavano di come andava la guerra. ne parlavano così sottovoce che nessun cliente si accorse mai di nulla.
Il curato era una persona che dimostrava di non occuparsi della guerra, di essere estraneo ai fatti politici e per questo nessuno pensava a quelle conversazioni. Questi incontri durarono per molto tempo. Poi il curato fu rimandato in Australia che era la sua nazione. Corse voce, ma non ci fu nessuna conferma, che la nave dove era imbarcato fu bombardata e lui annegò. Speriamo che non sia stato vero.
Nella nostra famiglia abbiamo sempre voluto bene a quest'uomo semplice, disponibile verso tutti e particolarmente verso i poveri, vero missionario e vero uomo. I castellani gli volevano bene e fu un peccato che sia rimasto qui per un periodo troppo breve.

Secondo episodio

Come dimenticare Fiorino Falai? Aveva la macelleria nella via centrale che ora si chiama corso Matteotti, accanto al cinema Puccini, proprio dove c'è ancora una macelleria. Quello era un uomo di una bontà eccezionale. Sentite che cosa faceva. Allora anche la carne era a tessera e noi eravamo suoi clienti. Lui sapeva bene che la nostra famiglia, come tante e tante altre, non aveva molti soldi per poter comprare il pollame dai contadini. Allora, quando pesava la carne a diversi clienti benestanti, cercava di darne qualche grammo, ripeto qualche grammo, di meno a ciascuno di loro. In fondo alla giornata gli avanzava un mezzo chilo di carne e lui la distribuiva alle famiglie che avevano poche possibilità economiche.
Fiorino era considerato un apolitico, ma chi lo conosceva come noi, sapeva bene quanto valeva quell'uomo. Vedeva ogni giorno la sofferenza e la fame di tanta gente e faceva quello che poteva senza danneggiare nessuno. Anche a lui va la nostra riconoscenza. Io avevo due ragazzi che troppo spesso avevano ancora fame.

Terzo episodio

Questo fu l'episodio più doloroso. Tutto cominciò da una cena che sette antifascisti fecero in casa di Ferdinando Viti, in via Terino o, per intenderci, in Guazza Borrana.
Un fascista che stava accanto di casa andò a denunciare il fatto ai fascisti, dicendo che in quella casa si svolgeva un complotto antifascista.
Verso le due di notte i carabinieri salirono in quella casa e lasciarono sulla strada alcuni agenti in borghese. Entrarono e trovarono il mio Pietro e gli altri sei che stavano chiacchierando e dissero che quella era una cena tra amici. I militi non ci credettero, specialmente quando trovarono in tasca di Pietro uno scritto contro il fascismo.
Allora li presero e li portarono in caserma, accusandoli di esere dei sovversivi. Da lì furono portati alle Murate di Firenze. Ci rimasero pochi giorni e poi furono trasferiti al carcere «Regina Coeli» di Roma per essere processati per direttissima dal Tribunale Speciale per la difesa dello Stato.
In prima istanza gli furono dati dieci anni di carcere per ciascuno dei sei. Il settimo era minorenne e fu rimandato a casa. Immediatamente dopo, Pietro fu condannato a quattro anni e sei mesi di reclusione e a 5.000 lire di multa.
Anche gli altri furono condannati da tre a quattro anni di carcere.

Quarto episodio

Ormai era già cominciato il calvario per tutta la famiglia. A Castelfiorentino tutti i giorni si parlava di questo: nei bar, per le strade, nelle case. Il paese rimase sconvolto: quattro anni di prigione per una cena tra amici che non avrebbero ammazzato una mosca; tutte persone profondamente buone che lavoravano onestamente, volevano bene a tutti e anche tutti li rispettavano.
Noi, come mogli dei detenuti, avevamo avuto il permesso di andarli a trovare una volta ogni quindici giorni.. Si portava tutti i panni puliti e qualcosa da mangiare, fra cui pane e paste dolci che poi loro distribuivano anche ai compagni di cella. Fra i dolci c'era la cosidetta «sportellina» fatta in casa, che i secondini tagliavano a fettine prima di consegnarla, per paura che dentro ci fossero delle lime, punteruoli od altro.
Noi ci eravamo accorte che, specialmente fra i detenuti politici, c'era un grande spirito di solidarietà. Durante l'ora di aria nel cortile potevano scambiarsi pareri sull'andamento del fronte.
In parlatorio si poteva parlare liberamente perché non c'era il secondino ad ascoltare i nostri discorsi. Si cercava di fargli coraggio, ma erano sempre loro a fare coraggio a noi.
E che tragedia quando si doveva prendere il treno per Roma! La città era stata dichiarata «città aperta», ma le bombe degli aerei americani davano nella periferia. E ci cadevano quasi tutti i giorni.
Si scendeva non alla stazione centrale, ma alla Triburtina e poi si faceva tutta la strada a piedi fino a Regina Coeli. Si sentivano in lontananza i bombardamenti nella periferia, ma noi si continuava a camminare: non c'era tempo da perdere. I treni avevano un gran ritardo. Si partiva da Castello col primo treno e con l'ultimo bisognava essere a casa.
Molto tempo si perdeva nella portineria del carcere. I secondini ci chiedevano subito i documenti, ci perquisivano e poi bisognava fargli vedere quello che si era portato ai nostri mariti. Se per caso ci si fosse dimenticati del permesso scritto che le autorità ci avevano rilasciato, non si poteva entrare.
In parlatorio si aveva più voglia di piangere che di parlare. Ma ci si poteva stare solo mezz'ora e non si aveva nemmeno il tempo di sfogarci un po' con i mariti. Se devo essere sincera, qualche buon secondino ci concedeva del tempo in più e per questo ci faceva un grande piacere. I nostri uomini ci raccontavano che tra i detenuti politici circolavano dei volantini, ma se glieli avessero trovati, sarebbero stati dei guai ancora più seri.
Poi, sempre a piedi, si faceva la strada per tornare alla Triburtina, con la speranza che il treno non avesse delle ore di ritardo. Ma quante volte, avvicinandoci alla periferia, si trovavano strade piene di macerie a causa dei bombardamenti! E allora il percorso si faceva ancora più lungo.
Passando da una via appena bombardata, ricordo come ora che da una casa diroccata si vedeva metà camera da notte con un letto matrimoniale in ferro battuto che si trovava in bilico sul pavimento. Accanto c'era una specchiera e più in là un attaccapanni. Su questo attaccapanni c'era appeso un panciotto e da una tasca ciondolava un orologio a cipolla per mezzo di una catena a maglie grosse. La corrente d'aria lo faceva dondolare. Era uno spettacolo da fotografare. Dopo quasi 60 anni non riesco a capire perché questa visione mi è rimasta così viva nella mente. E ogni volta si parla delle rovine di Castello, mi vedo sempre quel grosso orologio che dondolava di continuo.
Passarono i mesi e dopo la caduta di Mussolini i sei castellani furono liberati e tutti li accolsero come dei veri eroi, ma non avevano commesso nulla di eccezionale quando furono arrestati. Il vero dolore e i grandi sacrifici arrivarono, come ho detto, durante la reclusione. Se quel periodo fosse durato parecchio, non si sa come sarebbe andata a finire. A Castelfiorentino la gente ci fermava per la strada e voleva sapere tante cose. Questo fu il più grande regalo che i castellani ci abbiano fatto.

Quinto episodio

Non sto a dilungarmi sull'ultimo periodo della guerra e sul passaggio del fronte. Tutti gli anziani di oggi, giovani di allora, lo passarono e lo subirono. Non sarei neanche capace di descrivere per intero quel periodo. Perciò, lascio ad altre persone più istruite il compito di raccontarlo. Una cosa però mi interessa raccontare di queste persone democratiche.
Dopo la costituzione della Repubblica di Salò, i repubblichini in divisa vennero a ricercare il mio marito e gli altri per arrestarli di nuovo. Ma una cara persona ci avvertì che da Firenze era già partito un gruppetto di militi per arrestarli. Subito i sei scapparono nei boschi. I militi vennero alle nostre case, ma loro ormai erano uccelli di bosco.E finalmente, ecco il giorno tanto desiderato! Il giorno della libertà: 23 luglio 1944. Ci sembrava di sognare, anche se Castello era distrutto. Tutti si ebbe voglia di ricominciare. C'erano case sventrate e macerie da ogni parte. Via Tilli, dove noi si abitava già da allora, non esisteva più. Per averne un'idea, dirò un solo particolare: per entrare in casa, bisognò passare dalla finestra che è alta cinque metri da terra. Davanti alla nostra casa erano cadute le bombe su quel palazzo dove prima del regime c'erano le Stanze Operaie e oggi c'è il parcheggio.
Pietro tornò a fare il barbiere: guadagnava poco, ma ci sembrava tanto, pensando a quello che si era passato.
A questo punto voglio mandare un sentito grazie a tutti i contadini della zona che ci accolsero nelle loro case durante il periodo dello sfollamento e ci aiutarono, dandoci anche una buona parte dei raccolti della terra: bastava per non morire di fame. La nostra più grande riconoscenza va alla famiglia di Gino Montagnani che ci ospitò con altre famiglie nella sua casa alla «Granocchiaia». Si ebbe un grande aiuto in tutti i sensi da quella famiglia che divideva con gli ospiti il raccolto della terra.
Io mi iscrissi all'UDI (Unione Donne Italiane). Non ho mai accettato cariche perché già la famiglia mi impegnava molto tempo prezioso.
Vidi con piacere che i giovani ritornarono al divertimento, anche se di soldi in tasca ne avevano pochi. Ma la gente cominciò a sentirsi libera, a riunirsi nelle assemblee, a iscriversi a un partito o a un sindacato oppure preferiva non prendere nessuna tessera.
Si videro i primi scioperi e si andava anche a votare, uomini e donne.
Io, senza riscuotere una lira, preparavo la refezione agli alunni della scuola di Santa Verdiana. Poi si aprirono le colonie per i ragazzi e andai lì a cucinare. Portavo a casa gli avanzi del pranzo e li davo alle famiglie più povere. Non facevo nulla di eroico, ma mi sentivo soddisfatta.
Ricordo che il primo inverno dopo la liberazione, spesso a scuola si restava senza carbone per il riscaldamento delle aule. C'era un freddo cane. Allora qualcuno di noi andava dal sindaco Eletto Fontanelli. Lui subito partiva per la fabbrica dell'olio, diventata poi S.I.O. Lo diceva al padrone che ordinava agli operai di portare il carbone a scuola.
Ora termino, ma mi sento soddisfatta per avere scritto quello che sentivo dentro.