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Eravamo in guerra ed io mi trovavo in Francia, soldato di leva in fanteria. Quando gli Alleati sbarcarono in Sicilia, fui trasferito a Monopoli, in provincia di Bari. Quindi a Mesagne, grosso centro in provincia di Brindisi, agli ordini del capitano Luigi Arnaboldi, di cui io ero attendente. Il capitano era un gran bravo uomo e con lui mi trovavo veramente bene. Da lì ci si trasferì a Cassino, dove gli americani ci concessero uno spazio tutto nostro per poter meglio fronteggiare l'esercito tedesco. Infatti, lo scontro avvenne e, purtroppo, ci furono decine e decine di morti e numerosi feriti. Alcuni soldati italiani si dettero disertori e tentarono di raggiungere la loro famiglia. Chissà se ci saranno riusciti. Quindi il fronte si spostò a Roma e poi si continuò per Civitavecchia e Piombino. Sul porto si vide che gli ufficiali americani imbarcavano i soldati marocchini per la Normandia, dove urgeva rafforzare la linea del fronte. Però, in mezzo a tante rovine, la città che più mi suscitò commozione fu Firenze. Il capitano mi portò con sé per tre giorni in visita alla città. C'era passata da poco la guerra e quella bella immagine che io avevo di Firenze si era tragicamente ridotta ad un cumulo di macerie. Il centro storico non era stato né bombardato, né cannoneggiato, né minato, ma tutto intorno non si vedevano che macerie e macerie. Mi si gelò il sangue nel vedere di che cosa é capace la guerra. Scene così terrificanti erano appena impensabili anche per noi soldati. La zona intorno a Palazzo Vecchio non esisteva: si vedevano solo cumuli di macerie alti dieci metri. E se oggi, tutto è ritornato meraviglioso lo si deve all'operosità e all'ingegno costante dei fiorentini. Sconsolati, riprendemmo la via del ritorno. Dopo un po' di tempo si fu trasferiti a Castelfiorentino, per il semplice fatto che qui c'era lo stabilimento della Montecatini. Io e gli altri commilitoni non si seppe mai quali legami potevano esistere tra l'esercito e quello stabilimento: comunque, non ha grande importanza. Nella palazzina dello stabilimento fu organizzata l'infermeria militare, ma spesso venivano curati anche i civili. Uno fra questi fu Brunetto Caponi che ha gestito per tanti anni una cappelleria in «borgo». Fu guarito dal capitano medico Antonio Trombetti, che, fra l'altro, era anche specializzato in oculistica. Il Caponi aveva una ferita alla mano, ma in pochi giorni fu dichiarato guarito, dopo una piccola operazione di mezz'ora. Con gli Alleati era facile guarire di certe malattie: avevano grosse dotazioni di medicinali. Qui alla Montecatini ci si trattenne per molto tempo, tanto che vi fu insediato il comando che impartiva disposizioni e ordini ai militari dislocati nella zona. E proprio in questo paese mi cambiò la vita. Ormai la guerra era già lontana e già, si può dire, vinta. Noi facevamo parte delle lontane retrovie e proprio qui, finalmente, ci potemmo sentire come a casa nostra, trovammo il paradiso in terra. Si rimase meravigliati dalla grande ospitalità dei «castellani» (questo termine lo imparai subito, altrimenti li avrei chiamati castelfiorentinesi o castelfiorentini). Ogni sera c'era qualche famiglia che ci invitava a casa per offrirci la cena o per conversare come se fossimo stati amici da sempre. E noi si accettava molto volentieri. C'erano balli, canti, barzellette, racconti di guerra, di amori e... buon vino. In una parola, per noi Castello era diventato, come ho detto, un paradiso in terra, ma oggi, a distanza di quasi sessant'anni mi fa piacere constatare che questa prerogativa appartiene proprio ai castellani. E così, la nostra quasi villeggiatura a Castelfiorentino durò per un periodo abbastanza lungo, anche se il timore di dover riandare al fronte spesso spesso si affacciava. Intanto, ognuno di noi allargava la cerchia di amicizie. Un gruppo aveva fatto amicizia con la signora Ida, una donna di 80 anni, simpatica e ancora amante della vita come noi. In quel periodo poi era ancora più contenta per aver passato la guerra senza danno, né per lei né per la sua famiglia. Io, spesso, le dicevo che stava bene in salute e lei pronta:»Mi ci vorrebbe una sola cosa: la medicina del men'anni». Io non capivo che cosa fosse quel «men'anni» perché nel Trentino questo modo di dire non era ancora arrivato. E così, a forza di ripetere quella parola, un giorno nonna Ida mi disse: «Senti, quando vai a Firenze mi fai il piacere di comprarmi questa medicina? Qui non si trova, poi ti rendo i soldi». Io, in buona fede, ci credetti. Dopo qualche giorno mi capitò di dover andare a Firenze. Ben contento di poter essere utile a nonna Ida, entrai nella prima farmacia e, testualmente, chiesi: «la medicina di Menani». Da buon trentino, pronunciai una «n» sola e il farmacista non capì. Feci duecento metri ancora in centro e al banco di altra farmacia chiesi la stessa medicina. Il farmacista mi rispose di non conoscerla; ma mi disse di più:»Sarà un nuovo farmaco americano che ancora non è sbarcato in Italia». Io volli ancora insistere perché volevo esaudire il desiderio di quella brava nonna Ida. Mi avventurai in una stradetta ed eccoti un'altra farmacia. Chiesi la stessa medicina. Per fortuna, questa volta trovai un farmacista più attento e dall'intuito di un poliziotto, che mi disse: «Sento che lei non è toscano. Guardi che le hanno fatto uno scerzo: la parola «men'anni», se la pronuncia al suo modo, diventa Menani e il farmacista le dice subito che quella medicina non ce l'ha. Ma «men'anni» pronunciato alla fiorentina vuol dire «meno anni». E non è certo il cognome di uno scienziato o di una casa farmaceutica, come lei crede. La cosiddetta medicina di «Menanni» la invocano le persone anziane per far capire che per guarire di una determinata malattia ci vorrebbero meno anni, cioè bisognerebbe essere più giovani». Mi cascò il mondo addosso! Il soldato trentino che gira mezza Firenze per la medicina del «men'anni»! E com'era possibile che nonna Ida mi avesse giocato un così brutto scherzo? O forse glielo aveva suggerito qualcuno!? Come ci rimasi male!! Rientrato a Castello, corsi da nonna Ida e le raccontai, con un certo affanno, tutta la farsa. Conclusione: non poteva finire che in una sonora risata. Ho detto prima che Castelfiorentino si mostrò molto ospitale con noi militari ed in mezzo a questa garbata ospitalità conobbi una fanciullina: esile, piccola, dai modi gentili, dal parlare quasi raffinato, dallo sguardo ingenuo, pulito, quasi fosse lo specchio dell'anima. Il mio cuore fece un tonfo, il cervello ci ragionò sopra. E ci ragionò tanto che nei giorni seguenti la dovetti vedere: era come un richiamo impellente. Ed ora è qui. Abbiamo passato una vita insieme, in piena armonia, in questo bel Castello. Mentre mi scuso per questa nota sentimentale, riprendo il discorso. Noi militari, per contraccambiare la commovente ospitalità dei castellani, quasi ogni mattina facevamo salire sul camion quegli abitanti che avevano la necessità di recarsi a Firenze. Poi, verso le tredici, si rientrava in paese. Un altro bel ricordo che mi lega ai castellani mi fu dato per la messa di Natale nel 1944. La messa solenne fu anche cantata da Luigino Tavolari e da Caterina Ciapetti che si esibirono nell'Ave Maria di Schubert. Dopo la messa, un bel rinfresco in casa di Giovacchino Breschi, al tepore di un caminetto ben acceso. Nella primavera del 1945 finì la parentesi castellana, riaperta poi dal fatidico «Sì». A questo punto la signora Sara Baragli in Marchi, destinataria di quel «Sì», avverte la necessità di raccontare anch'ella la sua storia. Quindi, da me invitata, prende a dire: «A metà febbraio del 1944 feci un sogno meraviglioso. Mi apparve una donna, semplice, con uno scuro fazzoletto in testa. Mi si avvicinò e, con un filo di voce, mi disse:»Allontanati da questa casa». Pensai che fosse l'immagine di Santa Verdiana. Il giorno dopo sfollai nella casa dei Giani a Sindedica (Montaione). Quella casa di Castello fu bombardata e quel sogno mi aveva salvato. Ci eravamo ben sistemati nel granaio. Avevamo due stanze: camera e cucina indipendente. I contadini e gli sfollati avevano fatto un rifugio con due ingressi, ma non era tanto sicuro. Infatti, lo spostamento della terra di una bomba fece cadere sul mio braccio un pezzo di argilla. A me entrò un tremito solo al pensiero che quel rifugio ci seppellisse tutti. La ferita era stata leggera e guarì con una pomata arancione.
Ma la paura più tremenda la provai alle Case Fioretti. Mi trovavo dalla mia zia alle Case Nuove, quando una ronzante squadriglia di aerei stava per passare sulle nostre teste. Subito noi, fra cui Ara e Leonetto Tavolari, si andò per i campi. Gli aerei cominciarono a sganciare bombe che, prima di toccare terra, mandavano un fischio terribile. Leonetto gridava:»Tutti a terra, tutti giù!» Noi ci buttammo, ma accanto al nostro gruppetto cadde una bomba e l'esplosione ci ricoprì quasi per intero. Ma eravamo salvi. Spariti gli aerei, mi detti subito a una corsa sfrenata perché volevo rassicurare i miei che dalla salita del Mannello forse avevano seguito il bombardamento. Per la strada incontrai mio padre che si recava in paese con il commendator Piero Giani, suo datore di lavoro, per accertarsi dei danni provocati dal bombardamento nel centro.Ci si abbracciò in lacrime, lui proseguì in calesse verso il paese e io
continuai il cammino, naturalmente tutto a piedi fino a Sindedica.
Poi la pace e la libertà. Un solo augurio: che quella guerra sia stata l'ultima.
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