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Inferno in quattro soliloqui
Uno
«Inferno perché la nostra morte è già avvenuta, ci guardiamo nel fermo immagine definitivo, ai tavoli di cucina a benedirci le inquietudini, il bisogno di contatti e di calore, di parole che speriamo sotto il cumulo nascondano un bagliore di vero, se ancora esistiamo».
Due
«Inferno perché
il dialogo non viene, non ricordo
cosa dire nel caso del dolore,
forse non ho proprio
presente il dolore, la carne
non brucia, la pelle si distende
sul volto come un velo».
Tre
«Inferno perché
neppure le grida dei venditori
ambulanti riescono a impedire
che dopo si riformi un silenzio,
magari di notte, oppure dentro
la coscienza di ognuno, o il simulacro
che ne resta».
Quattro
«Inferno perché
da qualche tempo mi sveglio e mi ricordo
soltanto di un volto: lo guardo
allo specchio, lo lavo, lo aggiusto -
lo porto a passeggio
placidamente nel buio del bosco».
a Francesca S.
Fuori dal finestrino del treno
c'è quel fiume - non sappiamo
quale fiume, io e Francesca:
ci chiediamo cautamente
se è il Po che scorre
sotto il ponte di ferro nei pressi di Fidenza,
più o meno, in direzione di Cremona -
"È il fiume più grande d'Italia,
è il Po", trasale un'attenta
compagna di viaggio:
mi piace come ride Francesca
di rimando - ha l'aria
di averlo conosciuto da sempre
quel nome, di dire: "Che importa, guarda l'acqua
come fila, come scattano gli uccelli
annidati fra le canne al passaggio
dei vagoni, come tutto procede
in una sola direzione: il Po verso il mare,
tu verso il nord, io qui di fronte
verso te, verso il vento".
(da: Il mare a destra , Edizioni Atelier 2004)
Nella terra si leggono moltissime vicende, mi accorgo mentre faccio un sentiero di campagna che non avevo più percorso: i tronchi segati al pari del terreno resistono per secoli; qualche volta riaffiora un oggetto che pare extraterrestre, tanta è la distanza che lo separa dal presente. Un giorno per esempio ho trovato nel piccolo giardino antistante la mia casa una macchina per cucire in miniatura, ciarpame o giocattolo, nera e scrostata ma del tutto conservata, che a pulirla avrebbe dato un'eleganza demodé ad un mobile antico. Più di rado si rinvengono coriandoli di carta, a volte di giornali pornografici, altre di firme e scritture impronunciabili, slavati dalle bave o rifilati da chissà che mandibola paziente. Io so anche dire dove sono tumulati i miei due cani, bianchi e poderosi, seppelliti da mio padre dopo anni di passeggi serali e di carezze. Chissà cosa resiste, adesso, di quei corpi, se i lunghi filamenti del pelo o le zanne dei canini, oppure se è come se non fossero affatto transitati in quella terra, stinti del tutto, divorati da insetti che magari avrò schiacciato senza troppa attenzione, non capendo che nel cric di quegli scheletri echeggiava il guaito familiare dei miei cani, la saliva che lasciava minuscoli globi più scuri sul cemento, brevi costellazioni evaporate in un secondo, subito sparite in altre forme anche loro.
(inedita - Premio Spallicci 2004)
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