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Momenti di storia vissuta in Castelfiorentino e dintorni
Di famiglia di origine contadina, a soli nove anni, fui costretto ad abbandonare la scuola per dedicarmi al lavoro dei campi. Eravamo nell'anno 1933 in pieno regime fascista, non certo favorevole nei confronti del mondo contadino e dei lavoratori in senso generale. Per poter vivere anche i ragazzi dovevano lavorare nei campi; solo pochi fortunati potevano continuare gli studi. Prima di abbandonare, mio malgrado, la scuola, fui vittima di un brutto episodio che mi è rimasto nella mente e che non dimenticherò per tutta la mia vita. Da premettere che mio padre fu autentico antifascista; non volle mai iscriversi al partito nazionale fascista, e, di conseguenza, non volle mai che io mi iscrivessi ai giovani «Balilla». La cosa era risaputa in giro in quanto vivevamo in una piccola frazione (Petrazzi). Frequentavo la terza elementare. Un giorno la maestra ci dettò un tema dal titolo: «Cosa pensate del fascismo?». Nel tema ebbi a scrivere, fra le altre cose, che il fascismo era una dittatura, nemico dei lavoratori e che i soldi che chiedeva per iscriversi al fascio e ai giovani balilla, con l'obbligo di comprare la divisa, erano soldi rubati.
Quando la maestra riconsegnò i compiti, il mio non mi fu restituito: il
motivo e le relative conseguenze si ebbero alcuni giorni dopo.
Il mio tema fece il giro fra i gerarchi locali per decidere quali provvedimenti punitivi da prendere nei confronti di mio padre, perché era evidente che quelle frasi le avevo sentite dire in famiglia. Fortuna volle che venisse informato anche il proprietario del podere, conte Leone Guicciardini, il quale intervenne immediatamente, bloccando l'iniziativa fascista; sostenne che ai suoi contadini
avrebbe pensato lui con provvedimenti ritenuti più opportuni.
Mio padre se la cavò soltanto con un solenne rimprovero, accompagnato da un monito: essere più cauto ad esprimere i propri giudizi, perché, se la cosa si fosse ripetuta, sarebbero stati guai per lui. Io me la passai un po' peggio perché dovetti subire una sonora punizione a base di cinghiate nelle gambe, così avrei imparato la lezione di non riportare fuori le parole sentite in famiglia. Devo però anche dire che mio padre è stato un padre esemplare: ha voluto molto bene ai propri familiari, e, solo raramente, usava mezzi coercitivi di punizione; quella volta non ne poteva fare a meno. Coerente con le sue idee, nonostante il grave episodio subito, continuò il suo atteggiamento antifascista, prevedendo che con la dichiarazione di guerra il fascismo avrebbe decretato la sua fine. La caduta del fascismo mi trovò militare da alcuni giorni, ma con la proclamazione dell'armistizio, come è noto, ci fu la disfatta dell'esercito italiano. Io fui fra i fuggitivi e, a piedi, da Pistoia, me ne tornai nella mia Petrazzi, frazione di Castelfiorentino. Con la proclamazione della Repubblica Sociale cominciarono per tutti molti guai. Fui di nuovo richiamato alle armi, ma io, come tanti altri, rifiutai di presentarmi e così acquistai la qualifica di «renitente alla leva». Non ero disponibile a servire la Repubblica Sociale e, non essendo a conoscenza del formarsi del movimento partigiano, decisi di darmi alla macchia come cittadino imboscato. Spesso i repubblichini (così erano chiamati gli aderenti alla Repubblica Sociale) si recavano a casa da mia madre, minacciandola se non rivelava il nascondiglio del figlio. Naturalmente, mamma rispondeva che non aveva più notizie del proprio figlio da dopo la chiamata alle armi. In quell'epoca ho vissuto per diversi mesi nei boschi di San Vivaldo (frazione di Montaione), alimentato da una mia parente che provvedeva a portarmi il cibo. Avvicinandosi il fronte, decisi di unirmi ai miei familiari, sfollati in una valle denominata Poggio a Issi, lontana dai centri abitati e di difficile accesso ai mezzi meccanici per le pessime condizioni della viabilità. In quella valle c'erano rifugiate diverse famiglie e quindi erano presenti molte persone. A turno veniva effettuata una specie di guardia, in modo da dare l'allarme se si fossero presentate persone sconosciute. In tal caso gli uomini giovani si sarebbero nascosti in appositi nascondigli per sfuggire alla cattura e quindi alla deportazione. Per la cronaca, i nostri rifugi nascosti erano stati ricavati dentro masse di foraggi, dentro le barche di grano da trebbiare e in folte macchie presenti nelle vicinanze. Come tutti i cittadini, in quel periodo vivevamo sotto il terrore dei bombardamenti alleati e le cannonate dei due fronti. Proprio nel nostro gruppo un cittadino fu colpito a morte da una scheggia di una cannonata. Un giorno sopraggiunse da noi un prigioniero russo fuggito da un campo di concentramento tedesco. Ci fece capire di volere stare con noi; lo accontentammo, coscienti dei rischi che correvamo se fosse stato scoperto dai tedeschi. Quando si ebbe notizia che il fronte alleato aveva liberato Certaldo, di notte fu accompagnato nei pressi di Certaldo, oltrepassando in aperta campagna la linea del fronte e così fu riconsegnato alle truppe alleate.
Le guerre sono state sempre portatrici di odio, tragedie, lutti e rovine di ogni genere. La seconda guerra mondiale non ha fatto eccezione. Voglio ricordare un episodio tragico, ma al tempo stesso positivo nella sua risoluzione. Fra le tante barbarie commesse dai nazisti tedeschi, frequenti erano i rastrellamenti di uomini da inviare nei campi di concentramento. Durante una di queste azioni sviluppatasi a Castelfiorentino in località Petrazzi, un distaccamento di soldati tedeschi, installatosi nell'abitazione del parroco, radunò diversi cittadini. Tutti i sequestrati furono concentrati nella capanna di un contadino per poi, successivamente, essere deportati in Germania. Fra questi uomini vi erano Evandro Malandrini e Ugo Viti, mio suocero. Indescrivibile la disperazione delle due famiglie, ma dopo i primi attimi di smarrimento le due mogli ebbero un'idea straordinaria. La sig.ra Rosa, moglie di Evandro, radunò sette bambini di età compresa tra i tre mesi e i dodici anni, fingendo di essere la loro madre, si presentò al presidio tedesco, supplicandolo: «Come farò a sfamare tutti questi figli senza l'aiuto del loro padre?» Il comandante tedesco rimase turbato da quell'immagine e, dopo alcuni attimi di incertezza, diede l'ordine di liberare Evandro Malandrini. Poco dopo anche Gina, moglie di Ugo, al seguito di nove bambini di cui sei effettivamente suoi, seguì l'esempio della sig.ra Rosa. Supplicò, pianse disperatamente fin quando Ugo venne liberato. Il comandante tedesco, rivolgendosi al parroco disse: «Prolifiche queste sue paesane!». Il prelato annuì, fingendo di condividere l'affermazione. In effetti la vista di quei bambini aveva commosso tutto il presidio tedesco e forse aveva risvegliato in quegli uomini la nostalgia della propria casa e della propria famiglia. Per una volta i buoni sentimenti avevano prevalso sulla barbarie o forse, più semplicemente, aveva vinto il buon senso,
visto che il fronte alleato era alle porte: era l'estate del 1944.
Nel luglio del 1944, finalmente liberati dalle truppe alleate, si fece ritorno alle nostre case, fortunatamente rimaste in piedi. Allora ventenne, cominciai una nuova vita: la libertà non era più un sogno. Si prese parte alle prime manifestazioni. Un nostro concittadino (non so come) venne in posssesso di un camion americano e, con quel mezzo, dentro il cassone sempre riempito di persone, ci si spostava da una località all'altra, dove fossero riunioni o manifestazioni di vario tipo. Ricordo benissimo che una di queste, e precisamente alla inaugurazione della casa del Popolo di Cambiano, l'oratore, fra le altre cose, ebbe ad affermare che Cambiano aveva costruito una bella casa del Popolo, ma dovevamo metterci sempre in grado di difenderla, perchè la libertà non si conquista una volta per sempre, ma deve essere difesa in ogni circostanza. Per i presenti tale affermazione creò un certo stupore, ma gli avvenimenti degli anni successivi gli dettero ragione. Quante manifestazioni abbiano fatto! E quanti sfratti, purtroppo, sono stati eseguiti, sia di case del Popolo, di camere del Lavoro e sedi di sinistra! Il passaggio della guerra trovò la nostra economia in ginocchio, con tante fabbriche distrutte. Doveva ripartire la ricostruzione. In primo luogo dovevamo difendere il suolo, le nostre fabbriche e le nostre case dalle alluvioni. La disoccupazione era enorme; non disponevamo di macchine, ma una prima preoccupazione fu quella di costruire un argine al fiume Elsa e così, con pale, carriole e con le proprie braccia fu costruito per tutto il tratto del comune di Castelfiorentino un argine alto diversi metri che realmente ha difeso il nostro suolo, ad eccezione della grande alluvione del 1966 che creò disastri e morti e non solo a Castelfiorentino. Leggendario fu il grande sciopero dei braccianti agricoli per la conquista del primo contratto nazionale. Castelfiorentino dette il primo contributo, partecipando compattamente allo scioperto per la durata di ben 48 giorni. Si fu sostenuti dalla solidarietà concreta di tutti i lavoratori, compresi gli esercenti che fecero credito a tutti i braccianti per tutto il periodo dello sciopero. Alla fine, la resistenza dei proprietari terrieri fu piegata ed i braccianti ottennero il loro primo contratto nazionale di lavoro. Nella libertà riconquistata, le rivendicazioni dei lavoratori si fecero sempre più pressanti e c'era bisogno di mettersi alla loro testa. I mezzadri posero con forza la rivendicazione di nuovi patti agrari. Non potevano usare l'arma dello sciopero perché sarebbero stati loro stessi ad essere maggiormente danneggiati. Occorreva trovare altre forme di pressione verso il patronato agrario che inducesse i suoi rappresentanti al tavolo delle trattative. Una tattica assai efficace e di notevole disturbo della quiete di lorsignori fu quella di recarsi per giorni e giorni con attrezzi e bestiame presso le loro sedi, principalmente alle grandi fattorie. Questa forma di agitazione mezzadrile recava notevole fastidio al patronato agrario, che mal sopportava la presenza continua di persone e bestiame nei pressi dei suoi parchi e giardini, in molti casi ridotti a luoghi male odoranti e sporchi. D'altra parte non potevano far niente per impedirlo, si trattava del loro bestiame e i contadini erano considerati dei semplici custodi.
Come presupposto, la mezzadria era considerata una società dove una parte (il padrone) forniva il capitale, l'altra (il mezzadro) forniva la forza lavoro, ma la sete di denaro da parte del padronato non aveva limiti e per rastrellare denaro ai mezzadri introdusse il principio della comproprietà del bestiame, così che ogni qualvolta il mezzadro disponeva di un poco di denaro, gli veniva sottratto e poi convertito in capitale bestiame. da tener conto che i proprietari
o i loro agenti (fattori) erano anche amministratori dei contadini.
Ad una mossa tattica del padronato corrispondeva una nuova forma di lotta da parte dei contadini. Fu così che in occasione della vendita dei vitelli (prodotti dal bestiame), una volta lo si vendeva consegnando il denaro al padrone e la seconda lo si intascava direttamente. La cosa destava molto scalpore; i proprietari, o una parte di loro, si rivolsero alla magistratura del lavoro (appositamente costituita come sezione agraria) per dirimere le controversie agrarie. L'asprezza delle lotte contadine, la resistenza caparbia dei proprietari terrieri, il momento di contrapposizione del movimento cattolico a quello comunista indussero, in molti casi, la magistratura-sezione agraria a dare torto ai contadini, condannandoli, adducendo a motivo la mancanza di accordi tra le parti ed emettendo sentenze di sequestro dei prodotti e spesso anche dei mobili. La grande solidarietà delle popolazioni alle lotte contadine ebbe effetto anche nei tribunali e quando questi mobili o prodotti andavano all'asta, quella gara era sempre deserta; così il contadino interessato si riportava a casa la sua roba con solo pochi spiccioli. Queste lotte andarono avanti per anni ed ottennero alla fine due compromessi; il primo, definito «Lodo De Gasperi», e un accordo generale definito «Tregua mezzadrile». Questi portarono la divisione dei prodotti agricoli in favore dei mezzadri da 50% al 53% con l'obbligo dei proprietari di investire un ulteriore 4% in migliorie fondiarie. Un grande avvenimento per Castelfiorentino fu la venuta del segretario della Confederazione Generale del Lavoro (C.G.I.L.) on. Giuseppe Di Vittorio. Fu la più grande manifestazione che Castelfiorentino abbia vissuto. Non solo tutto il paese era in piazza per salutarlo, ma anche dai paesi limitrofi vennero in gran numero ad ascoltare il comizio dell'on. Di Vittorio: piazza Kennedy e strade adiacenti erano gremite di folla plaudente.
L'on. Di Vittorio fu commosso ed entusiasta per la presenza di così tante persone per una cittadina come Castelfiorentino. Nel suo discorso, non solo sostenne giustamente le rivendicazioni dei lavoratori, ma rivendicò il diritto delle donne contadine di indossare abiti decenti, nuovi, calze di tessuto fine; le consigliò di farsi belle ed attraenti come le donne dei padroni.
Come non ricordare gli scioperi così detti «a rovescio»: cioè si dichiaravano gli scioperi perché i proprietari terrieri non investivano il denaro del 4% in migliorie poderali. Invece di incrociare le braccia come in un normale sciopero, si sostituivano al padronato, facendo essi stessi migliorie, scassi di terreno, piantagioni di vite e altre migliorie sul terreno. Così facendo, sarebbe aumentata la produzione a beneficio di tutti. Da ricordare, infine, che, in occasione della grande alluvione del Polesine del 1951 che mise in ginocchio quelle popolazioni che avevano perduto tutto, Castelfiorentino ospitò per diversi mesi, gratuitamente, decine di bambini di quelle località, dimostrando così una grande solidarietà umana verso quelle popolazioni. |