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  Voci della memoria
 
Remo Parri
 

Le scarpe gialle

I miei ricordi decorrono dall'agosto del 1943, eravamo in piena guerra ed in quel mese persi mio padre, non per cause belliche, ma per malattia. Volevo bene al babbo, era il più bell'uomo che conoscessi e di lui ammiravo la distinzione e la bontà. Ricordo che la domenica calzava un bellissimo paio di scarpe gialle; quanto mi piacevano quelle scarpe! Ancora adesso le rivedo come se il tempo non fosse trascorso. Nella mia fantasia di fanciullo pensavo che scarpe così belle le potessero portare solo uomini speciali come il mio babbo.
Vivevamo in campagna, ma molto vicino al paese: io, la mamma, il nonno paterno e due sorelle; mio fratello era in guerra, anzi, prigioniero degli inglesi, come sentivo dire in casa.
La guerra, per me che ero piccolo, era una situazione di "normalità" in quanto non avevo ricordi di tempi diversi da quelli che vivevo; c'era la miseria, ci mancava anche l'essenziale, ma l'affetto dei miei cari mi proteggeva da quelle sofferenze che solo in seguito ho potuto misurare.
Prima dei bombardamenti di Certaldo e Castelfiorentino, uno o più aerei bombardarono il ponte della ferrovia sul torrente Pesciola ed una bomba cadde nei pressi del passaggio a livello di Pettinamiglio, località in cui abitavo, distruggendo il "casotto" dell'addetto all'apertura e chiusura dei cancelli. Ecco, quello fu il primo avvertimento che la guerra ci riguardava tutti e che il pericolo per la nostra incolumità era una realtà con cui ci saremmo dovuti confrontare.
Mia madre, donna energica, pratica e risoluta, riunì oltre noi della famiglia, anche altri componenti le famiglie vicine e suggerì di "sfollare", sostenendo che la posizione delle nostre case vicine alla ferrovia ed al paese poteva essere bersaglio di altri bombardamenti, come poi puntualmente avvenne. Aveva anche scelto la località in cui "sfollare" e come fare per sopravvivere anche lontani dalle nostre terre, che pure dovevano essere coltivate. Io non sapevo cosa voleva dire "sfollare", ma passata la paura per le bombe di alcuni giorni prima, questa nuova avventura, mi provocava una grande eccitazione.
Dopo altre riunioni e dopo avere contattato la famiglia che ci avrebbe ospitati, partimmo e con noi vennero, i Santini ed i Parri, nostri parenti e confinanti di casa e terre.
Andammo (una decina di persone di cui cinque ragazzi) a Lungagnana, località a mezza strada fra il castello di Oliveto e Montespertoli. La famiglia Simoncini che ci ospitava era imparentata alla lontana con la famiglia di origine di mia madre e ci accolse come solo le belle famiglie di contadini di un tempo sapevano fare. Mia madre, che, come detto, era pratica e risoluta, anche in quella situazione, stabilì regole e compiti che tutti avrebbero poi eseguito nel rispetto della nostra posizione di ospiti, senza pesare troppo sui nostri ospitanti. Ricordo che tutti gli abili ai lavori, prima dovevano occuparsi delle "faccende " che le terre dei Simoncini reclamavano, compreso l'accudimento delle bestie, poi gli uomini "sfollati" potevano recarsi a Pettinamiglio per coltivare le proprie.
In quel periodo, almeno noi ragazzi, mangiavamo a sazietà e la guerra era solo un susseguirsi di notizie ed avvenimenti che accadevano in luoghi che almeno io non sapevo dove fossero.
A detta di tutti quell'anno fu un anno benedetto per quanto riguardava i raccolti; mai più la terra fu così generosa e l'inverno così mite.
Quando partimmo "sfollati" ci portammo dietro solo l'essenziale, cioè quasi tutto, escluso l'arredamento delle nostre povere case, anche perché gli uomini spessissimo ritornavano a dare un'occhiata e a lavorare le terre; ma le scarpe gialle di mio padre erano rimaste insieme a tutti i suoi vestiti nell'armadio, anzi nella loro scatola bianca nell'ultima cassetta a destra dell'armadio. Per me questo era un cruccio che spesso mi angosciava, in fondo io stavo bene, anzi sarei stato benissimo se avessi potuto avere con me quelle scarpe che erano il ricordo più struggente di mio padre.
Il primo contatto che ebbi con un fatto di guerra, oltre i bombardamenti che in fondo non mi avevano impressionato più di tanto, avvenne in occasione della sosta presso la nostra casa di sfollati di un gruppo di uomini armati che trasportavano un loro compagno ferito. Erano partigiani che avevano avuto un conflitto a fuoco con una pattuglia di tedeschi presso Ortimino. Dissero che dovevano scappare e ci lasciarono il loro compagno ferito. Perdeva molto sangue da un fianco, si lamentava e chiedeva di essere riportato a casa a Certaldo. La mamma che sapeva far tutto, lavò la ferita, bendò alla meglio il malcapitato, gli fece bere del brodo ristretto e stabilì che era pericoloso per tutti noi dare rifugio al partigiano. Fu convenuto, fattosi ormai buio, di trasportarlo a Certaldo. Fu approntato un carretto con un giaciglio di foglie di granturco ed il ferito fu coperto con stracci e balle vuote. Elio Santini e Nello Parri si misero alle stanghe. Solo allora mia madre disse: «Portatevi dietro il bambino, passerete più inosservati». Iniziò un lungo viaggio nella notte, io viaggiavo in parte a piedi, nei tratti in salita, in parte seduto in un angolo del carretto, badando bene di non sfiorare il ferito, di cui avevo abbastanza paura. Non ricordo il nostro arrivo alla casa del partigiano, perché mi ero addormentato, così come per tutto il viaggio di ritorno. Con gran sollievo di tutti ritornammo a casa senza avere incontrato ostacoli durante l'intero viaggio.
La vita di sfollati continuò senza inconvenienti per molto tempo ancora e le giornate erano noiose e sempre uguali.
Una sera, all'ora di cena, la strada che dalle quattro strade conduce a Montespertoli e che distava non più di cento metri dalla nostra casa di sfollati, fu dapprima percorsa da alcune motociclette, poi da alcune auto, poi cominciarono a sfilare dei camion. Mia madre fece spegnere le luci, chiuse le imposte e consigliò agli uomini di scappare nel vicino bosco oltre il ruscello, scavalcando le finestre sul retro della casa. I tedeschi si ritiravano passando proprio da quella strada. In casa rimasero solo le donne e noi ragazzi. Le donne, ancora giovani, si tinsero faccia, mani e braccia con la fuliggine del camino per apparire vecchie e sgradevoli e così, con una tensione che si tagliava col coltello, trascorse tutta la notte e parte del mattino seguente, mentre una colonna ininterrotta di mezzi, uomini e bestie razziate, continuava a transitare.
Era quasi mezzogiorno quando un camion pieno di soldati tedeschi, deviò per immettersi nella strada poderale che conduceva alla nostra casa. Mentre il camion si avvicinava, la mamma chiuse mia sorella Vilma, che aveva allora quindici anni, in una stanzetta che serviva da deposito della legna, si coprì la testa con un fazzoletto nero e già sporcata di fuliggine, mi prese per mano e si fece incontro ai tedeschi, che nel frattempo avevano fermato il camion sotto la loggia e scesi, armi in pugno, si apprestavano a salire la scala che portava al piano superiore.
Era la prima volta che vedevo soldati armati e minacciosi e la paura fu tanta, ma l'apparente tranquillità di mia madre impedì al pianto che avevo in gola di manifestare l'angoscia di quel momento.
A gesti, un giovane ufficiale, fece capire a mia madre che avevano fame e che doveva consegnare loro tutto quanto era disponibile. Sempre a gesti, accompagnati da semplici parole, mia madre rispose che avrebbe dato loro tutto quello che era in casa, anzi si offrì di cucinare quello che loro avessero desiderato.
Intorno alla casa gironzolavano alcune vecchie galline, altre erano nel pollaio a deporre le uova o a covarle. Per alcuni minuti ci fu una caccia alla gallina che sarebbe apparsa comica se la situazione in effetti non fosse stata drammatica. In breve ogni soldato tedesco ritornò con una o più galline a cui era già stato tirato il collo o con le uova nel berretto, comprese quelle parzialmente covate. L'ufficiale, sempre con la pistola in pugno, ordinò a mia madre e alle altre donne che intanto erano scese sull'aia, di cuocere le galline e le uova e di consegnare il pane e quanto altro fosse commestibile. Le donne volevano far capire che le galline dovevano essere prima spennate e ripulite, ma i soldati non intesero ragione, alcuni salirono nella grande cucina dove nel camino, col fuoco sempre acceso, troneggiava un enorme paiolo di rame annerito, con l'acqua già calda ma non bollente. Le galline furono gettate, così come erano, nell'acqua ed il fuoco fu ravvivato con altra legna per accelerare la cottura, mentre le uova furono affrittellate in una grande padella.
La legna che era accanto al camino stava per esaurirsi, con terrore di mia madre, combattuta dall'esigenza di dover entrare nella stanza del deposito della legna dove era stata rinchiusa mia sorella, o andare a prelevarla dalla catasta, al lato dell'aia, dove erano stati nascosti prosciutti, salumi, olio ed altre derrate per noi indispensabili. La situazione stava diventando alquanto complicata, ma la mamma, ostentando la più completa disponibilità, consegnava ai tedeschi tutto il pane che si trovava nella dispensa, qualche piccolo salame già avviato, del formaggio fresco, oltre le uova ormai cotte e tutto il vino infiascato che era in cantina. In breve tutto fu letteralmente divorato, veniva chiesto altro da mangiare, le pistole riaffiorarono dalle loro fondine, gli atteggiamenti ritornarono improvvisamente minacciosi, le donne presenti non sapevano più che fare, la situazione stava per precipitare nel dramma.
All'improvviso l'ufficiale cominciò ad impartire degli ordini che, seppur in una lingua sconosciuta, dal tono, erano facilmente intuibili: rimettersi in marcia!
Era accaduto che l'ultimo camion della colonna era già transitato e non c'era tempo da perdere per i tedeschi, se volevano ricongiungersi nella ritirata.
Ci fu un trambusto infernale, l'ufficiale gridava, i soldati mettevano nelle bisacce i pochi avanzi e si avventarono sulle galline che nel frattempo bollivano ancora nel loro paiolo. Con le baionette e con i pugnali, le galline furono tutte prelevate, i soldati risalirono sul camion e mentre velocemente si allontanava, intravidi alcuni militari che stavano addentando quelle vecchie e dure galline, ancora non cotte e sanguinanti.
Il silenzio piombò improvvisamente sulla casa, nessuno osava parlare, la mamma aprì il ripostiglio dove era stata chiusa mia sorella, la strinse teneramente fra le braccia e pianse sommessamente. Era la seconda volta che vedevo piangere mia madre, la prima fu in occasione della morte di mio padre.
Il ricordo di mio padre si rifece in quel momento struggente, nella mia immaginazione, pensavo che la sua sola presenza avrebbe evitato tutte quelle sofferenze che mia madre da sola doveva affrontare. Quello che avevo vissuto con la presenza dei tedeschi, le loro azioni minacciose, quel depredarci di tutto, mi aveva gettato nell'angoscia; paventavo che altri tedeschi in ritirata, potevano essere entrati nella nostra casa di Pettinamiglio ed aver portato via le scarpe gialle che erano state di mio padre e con quelle il ricordo più vivo di un genitore che mi era venuto a mancare nel momento in cui ne avevo più bisogno.
Intanto gli uomini erano ritornati dal rifugio nel bosco, si stava facendo sera, la strada era ritornata deserta e mai come in quel momento si era respirato un clima di paura ed incertezza.
Mio nonno "Tonio" prese una decisione: sarebbe ritornato a casa per vedere quello che era successo. Si unirono a lui Elio Santini e Nello Parri. La mamma capì subito che il nonno non si sarebbe fatto convincere a rimandare la partenza e non si sarebbe mai più allontanato, per nessuna ragione al mondo, dalla sua casa di Pettinamiglio. Trascorse la notte, pochi dormirono, Dianella Santini, che era più piccola di me, piangeva in continuazione, mia madre era combattuta dal desiderio di ritornare a casa ma non voleva esporci a pericoli che ancora riteneva possibili.
A metà della mattina, in quel clima di incertezza, noi ragazzi stavamo giocando quando, sulla strada, in lontananza, apparve la sagoma di un uomo. Era una figura a noi ben nota, un individuo un po' buffo che poteva definirsi in parte eremita, in parte girovago, in parte mendicante. Vagava per le campagne e funzionava come il "giornale vivente"; sapeva tutto e raccontava quanto succedeva od era successo nel raggio di cinquanta chilometri. Si chiamava, anzi lo chiamavano "Fro-Fro".
Fro-Fro si fermò sotto la loggia, si sedette con calma, si sfilò da tracolla un vecchio ombrello di incerato verde che portava con sé in qualunque stagione, bevve un bicchiere di vino che prontamente gli venne offerto, e finalmente, incalzato dalle domande pressanti che gli venivano rivolte, recitò come fosse stata una filastrocca già ripetuta decine e decine di volte: «Certaldo e Castello sono state liberate, i tedeschi si sono attestati ad Empoli e a Firenze dove si combatte ancora, alcuni avamposti alleati stanno per occupare Castello, il fronte è passato». Io che non capivo di guerra e di alleanze e che avevo solo avuto l'esperienza della sosta dei partigiani e della breve occupazione dei tedeschi della nostra casa di sfollati, intuii che forse era venuto anche per noi il momento di ritornare nella nostra casa.
Come il mattino era trascorso nella incertezza, il pomeriggio fu animato da mille cose da fare. Mia madre aveva preso la sua decisione: saremmo ritornati a casa!
Non occorse gran tempo a riunire le poche cose, il tempo più lungo fu occorrente per i saluti con i componenti la famiglia che ci aveva ospitati, noi piccoli fummo baciati e ribaciati.
Solo in seguito ho potuto apprezzare e dare il giusto valore alla grande generosità di quella bella famiglia.
Ero eccitato e felice come tutti gli altri ed avevo una ragione in più per essere contento, pensando che presto avrei rivisto le scarpe gialle di mio padre.
Scendemmo verso Oliveto, girammo a desta al bivio delle quattro strade, passammo il ponte del torrente che alimentava il molino, percorremmo la salitella delle " Docce" e, per non seguire la strada tortuosa che ci avrebbe fatto perdere tempo, attraversammo un grande campo incolto. Dalla parte opposta al campo, nel luogo dove si sarebbe ripreso la strada, era ferma una camionetta militare i cui occupanti erano scesi e ci facevano degli ampi gesti con le mani e ci gridavano frasi, in una lingua, anch'essa incomprensibile, ma che mia madre stabilì non essere quella tedesca.
Più avanzavamo e più quelli gridavano e gesticolavano. «Ci salutano» dissero alcuni di noi, «Ci comunicano che il pericolo è passato». «No!», disse la mamma, «Ci avvertono che ci siamo cacciati in un brutto pasticcio; camminiamo in fila indiana, io vado per prima e voi venite dietro a me in silenzio». Ancora non avevo capito e solo quando tutti mettemmo piede sulla strada, venimmo a conoscenza che avevamo attraversato un campo minato. La fortuna ci aveva assistito ancora una volta.
Arrivammo finalmente a casa. Mio nonno, che non avevo mai visto così felice e sereno, lui che brontolava sempre e che era un "bastian contrario", ci accolse come se non ci avesse visto da secoli ed era passato un solo giorno.
Quella sera, al lume di candela, ci riunimmo in cucina, ero nella mia casa dopo quasi un anno. Mia madre mise in tavola un solo uovo, cotto nel tegamino, e un pezzo di pane che aveva scovato chissà in quale posto; era tutto per noi, loro (la mamma ed il nonno) dissero che non avevano fame!
Il nonno parlava con la mamma e raccontava che in casa non mancava quasi nulla eccetto che un po' di biancheria e qualche vestito di Vittorio (mio padre).
Mi venne un colpo, le scarpe gialle di babbo.
Mi precipitai nella camera che era stata dei miei genitori, aprii la cassetta di destra in basso dell'armadio, la scatola bianca era ancora al suo posto le scarpe erano scomparse.
Piansi a dirotto, piansi come credo di non aver più pianto, la mia cena si interruppe e l'uovo o quanto era rimasto di esso non fu certamente sufficiente
ad alleviare la gran fame delle mie sorelle Vilma e Liliana.
Mia madre non dette molta importanza al fatto, un pensiero più grave l'opprimeva, il pensiero di mio fratello Virgilio, prigioniero, di cui non avevamo notizie da molto tempo. Parlarono a lungo quella sera, la mamma ed il nonno, sul come fare per avere notizie di questo mio fratello che non avevo mai conosciuto; dicevano che forse presto sarebbe ritornato, che la guerra stava per finire e non immaginavano che sarebbero trascorsi oltre due anni, prima del suo ritorno.
Dopo quel benedetto giorno, 23 luglio del 44, per me le cose non cambiarono di molto, anzi. Mio nonno morì poco dopo, mia madre con tre figli piccoli, pur lavorando come più non si può, a stento riusciva a provvedere a noi, che necessitavamo di tutto.
Quando fui più grande, capii quanti sacrifici dovette fare e quanto fummo aiutati dalle famiglie vicine, con discrezione e con la solidarietà che non esiste più.
Li ricordo con affetto: le due famiglie Borghi, i Macchi, i Santini, i Mancini, i Reali, i Marini oltre i Parri, nostri parenti e confinanti.
Tutti avevano un lavoro per mia madre; non volevano fare la carità, e mia madre restituiva col sudore il doppio di quanto riceveva. I1 tempo trascorreva, eravamo liberi, ma in quel tempo ho conosciuto cosa vuol dire la miseria. Saremmo stati però felici se la mamma non fosse stata tormentata dal pensiero che aveva per mio fratello, ancora prigioniero in Egitto, ed io, per le scarpe gialle che non avevo ritrovato al nostro ritorno.
In compenso la gente era allegra, il paese, ancora presidiato dagli americani, era un brulichio di attività che riprendevano, i negozi riaprivano, la ricostruzione era in atto e il mercato del sabato aveva ripreso pian piano a funzionare
Accompagnavo sempre mia madre al mercato del sabato; mia madre portava un pollo o un coniglio per ricavarne un po' di contanti necessari per sopravvivere. Noi a quel tempo non mangiavamo mai la carne, solo verdure, patate e tanta polenta; c'era sempre polenta, a colazione, a pranzo ed a cena. Odio ancora la polenta!
Fu un sabato al mercato che rividi le scarpe gialle di mio padre. Le calzava un uomo che conoscevo di vista. Tirai la gonna a mia madre e cominciai a gridare: «Le scarpe di babbo - Le scarpe di babbo!» Ricevetti uno strattone che mi fece girare su me stesso; gelida la mamma, che le aveva riconosciute nel mio stesso momento, mi disse: «Non ha importanza, tu sei piccolo, nonno è morto e tuo fratello chissà quando ritorna, che ce ne facciamo di quelle brutte scarpe gialle?»

Sono trascorsi sessant'anni; solo ora riparlo di quelle bellissime scarpe gialle.