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La pianta di fico
Le voci correvano, voci di testimonianze,voci per sentito dire: erano solo quelle le informazioni che giungevano fino a noi. Le voci che il vento porta via. L'unica certa, che ognuno di noi poteva ascoltare con i propri orecchi, era la voce inconfondibile del cannone. I1 fronte della guerra si stava avvicinando.
Giunse una notizia: i tedeschi in ripiegamento erano interessati alla biancheria. Frugavano nelle case e si appropriavano di lenzuola e asciugamani. Mio padre, nei suoi viaggi tanto faticosi tirando il carretto, aveva portato una cassa piena di lenzuola e 1a sua intenzione era di salvarla dalle probabili mani dei razziatori. Io ascoltavo parlare i miei genitori: le nostre finanze erano agli sgoccioli. A guerra finita, il ricavato di quella biancheria una volta venduta poteva servire per ricominciare. Vicino alle case di campagna di allora c'era sempre una pianta di fico. La sua chioma frondosa faceva ombra a noi ragazzi per giocare, alla massaia quando rammendava le toppe ai panni da lavoro o a chi si siedeva volentieri sotto una bella pianta. Le foglie, così larghe e ruvide, che due unite insieme potevano contenere tanti frutti zuccherosi, poggiati poi in tavola nel piatto verde e mangiati insieme al prosciutto salato a mano, stavano bene in una combinazione confacente con l'arguzia contadina. Per noi, purtroppo, anche quelle erano voci, non furono mai realtà toccate con mano. Avevamo appena il necessario per comprare giorno per giorno. La pianta prestò la sua ombra solo al principio dell'estate 1944, perché verso la fine riparò chi, nel buio, aveva l'anima. Fu sotto il fico che mio padre scavò la tomba provvisoria per la cassa piena delle nostre speranze. A sepoltura ultimata, livellò bene la superficie del terreno, così da non dare l'impressione che lì sotto ci fosse qualcosa. Dopo un po' di giorni arrivarono i tedeschi, equipaggiati di tutto il necessario per installare l'accampamento. Lo avrebbero fatto in un terreno pianeggiante vicino alla casa. Insieme al camion arrivò, sferragliando, anche un carro armato. Quel mostro diabolico, che fino ad allora avevamo udito solo in lontananza, eccolo lì davanti a noi in tutta la sua mole portatrice di morte. Eravamo tutti, ragazzi e adulti, a vedere avanzare il congegno macchinoso, quando mia madre, con l'intuizione di chi è costretto a stare sempre all'erta, mandò un gemito di sgomento: «Signore Iddio, ma proprio qui lo vanno a fermare!» I1 carro si era arrestato proprio sotto la pianta di fico. Era la sistemazione ideale; la chioma frondosa lo nascondeva agli occhi degli aerei e lo teneva all'ombra, per lui superflua. Quell'ombra, tanto apprezzata dagli esseri viventi, era ora rubata dal mostro, freddo e spietato strumento di morte, dalla bocca di fuoco e con il cuore di ghiaccio. Come si disperava mia madre! «Se il terreno cede che ne sarà di noi? I1 carro sprofonderà e si vedrà la biancheria». Passavano i giorni con la paura costante di sentire quel crac e inevitabilmente le conseguenze della ritorsione. Che protezione contrastante ebbe il compito di offrire l'ombra di quella pianta di fico! Sopravvivenza e morte, il bene contro il male, perseveranza o cedimento. Una fragile cassa di legno in lotta impari con un carro armato, a confrontarsi in gara fra loro e la vittoria al migliore. Ne erano capitate tante di quelle situazioni in quel periodo e tutte finite bene. Furono combinazioni o fortuna sempre a nostro favore? Chi lo sa! Anche questa volta, il destino oppure il Signore, al quale mia madre si raccomandava tanto, ci aveva aiutato: la cassa era salva. In questa circostanza, un riconoscimento particolare andava dato alla mano di mio padre che scavò e ricoprì la fossa a regola d'arte. La cassa della speranza, morta e resuscitata, è ancora viva. La tengo bene accudita e le sono riconoscente; nonostante le attenzioni, è un po' tarlata, ma sono certa che continuerà a vivere anche dopo di me. La speranza è sempre l'ultima a morire.
Il pozzo
La mattina a barluzzo il contadino e la moglie andavano a lavorare nei campi. A casa rimanevano la nonna, che veniva chiamata la massaia e quattro ragazzi: tre bambine e un maschio di età ravvicinata fra loro: di sei anni la più piccola fino ai dodici della maggiore. Era la massaia che gestiva l'andamento della famiglia: preparava il mangiare, custodiva le scorte per l'inverno, piantava nell'orto, vendeva le uova e comandava i nipoti a bacchetta. In campagna c'era sempre bisogno di braccia e anche i ragazzi avevano il loro compito. Erano tutti e quattro sani e forzuti, abituati fin dalla tenera età a faticare. La maggiore tirava su l'acqua dal pozzo, un'altra era responsabile del pollaio, chi annaffiava l'orto, chi abbeverava le bestie nella stalla: tutte faccende necessarie alla conduzione della vita in campagna. Poi finiti i lavori, i bambini, condizionati dagli adulti, un po' di tempo per lo svago l'avevano anche loro. Giocavano assieme a me, senza giocattoli; passatempi semplici perché il tempo di guerra non offriva di meglio. I1 pozzo era il centro di smistamento delle mansioni, l'acqua era preziosa, serviva per bere e a tutti i bisogni dei lavori intorno a casa. Era alimentato dall'acqua piovana e quando pioveva poco, il livello stava basso. Allora l'acqua era scarsa e costringeva la massaia a razionare bene il consumo. Voleva bene a quel pozzo come se fosse stato una sua creatura. Controllava la catena, teneva il secchio pulito e raccomandava che il mezzo coperchio ribaltabile venisse sempre chiuso dopo aver attinto l'acqua. Tutte le mattine veniva dall'accampamento un tedesco; portava una catinella di stagno sotto il braccio, uno specchietto movibile, sapone e pennello per farsi la barba. Chiedeva a gesti un asciugamano sempre pulito, ma la massaia si ostinò a non volerglielo dare mai. Apriva il mezzo coperchio, tirava su la poca acqua bastante, appoggiava tutto il necessario sull'orlo del pozzo e, senza richiuderlo, incominciava il rituale. La massaia si chiamava Verdiana; era una vecchia scorbutica, aggobbita dai lavori nei campi, sterpigna, con la pelle arrostita dalla vita vissuta sotto il sole dell'estate e le intemperie dell'inverno.
Il comportamento del tedesco le mandava via il lume dagli occhi: il suo pozzo era in pericolo. Senza la minima paura, alzava le braccia ossute e inveiva contro di lui: «Brutto porco! Leva subito la catinella dall'orlo del pozzo; se ti si arrovescia, la saponata avvelena l'acqua!».
Noi ragazzi, a quelle levate invelenite della nonna, ci divertivamo un mondo, con l'incoscienza tipica dei ragazzi, senza pensare alle probabili conseguenze. La sola che si rendeva conto del pericolo era mia madre. Si prese lei il compito di portare la salvietta pulita tutte le mattine e, impaurita, cercava di rabbonire la vecchia: «Verdiana, per l'amor del cielo state zitta; qualche giorno ci ammazzano tutti!». Ma lei, imperterrita, continuava con le sue proteste. Per tutto il tempo della permanenza dei tedeschi, la massaia si comportò nella stessa maniera; il soldato si faceva la barba tutti i giorni, senza prestare attenzione alla donna, che avrà considerato sicurarnente una gallina starnazzante. Anche mia madre, sempre più impaurita, continuò a portare l'asciugamano fino alla fine delle prediche di Verdiana. In compenso, mamma si fece furba fintanto che la faccenda continuava: porgere asciugamani da fare inzaccherare al tedesco non era certo la sua intenzione. Durante il giorno lavava quello usato e la mattina dopo ripresentava lo stesso. L'esercito non aveva fornito i soldati di biancheria, ma solo di armi.
Finì tutto bene: la catinella ebbe giudizio, non si arrovesciò mai. Se era entrato qualche schizzo di sapone nel pozzo, fu di poca importanza: l'acqua non fece male a nessuno, né a cristiani né a bestie.
La fortuna più grande che ci potesse capitare fu che il tedesco era sempre lo stesso e non capiva l'italiano.
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