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  Voci della memoria
 
Wallis Lettori
 

In guerra due episodi di pace

Inizio estate 1944. Abbiamo vent'anni e da nove mesi la nostra residenza è nei boschi della Valdelsa. Per maggior sicurezza, spesso ci trasferiamo da un bosco all'altro. Ma la nostra non è una formazione partigiana: siamo un gruppo di renitenti alla leva del 1924 perché proprio non ce la sentivamo di imbracciare il moschetto.
Siamo stanchi, sfiniti e spesso affamati anche perché da cinque giorni mangiamo solo frutta, colta qua e là tra i campi.
Potremmo avvicinarci a qualche casa colonica per chiedere un po' di pane e, sicuramente, i generosi contadini valdelsani non ce lo negherebbero. La Valdelsa, ormai è risaputo, è terra ospitale, generosa e vanta un tessuto di partecipazione democratica consolidato nel tempo. Ma abbiamo il timore che in una di quelle case si annidi un delatore sfollato, pronto a denunciare la nostra presenza nella zona.
Siamo anche sporchi nei vestiti e nel corpo. Ogni tanto troviamo un torrente e ci buttiamo dentro, ma il sapone è merce introvabile.
Il fronte è ad una ventina di chilometri e la Wehrmacht (fanteria tedesca) è in piena ritirata.
Mentre gli altri sono a riposare nelle buche, formiamo un gruppo di cinque amici: Alex contadino, Gigio meccanico ed io insegnante, tutti e tre della Valdelsa. Gli altri due, essendo sfollati da poco nella zona, hanno chiesto di aggregarsi a noi.
Pertanto, non li conosciamo né abbiamo chiesto i loro nomi: non era prudente se i tedeschi ci avessero catturato. Dopo una lunga conversazione, ci é sembrato che avessero i nostri stessi ideali e li abbiamo accolti con fiducia. I nomi di avventura li mettiamo noi, subito. Il più alto e più estroverso nel parlare si chiamerà Tom; l'altro, meno loquace e sempre arruffato come un bel gallo da combattimento sarà Ruffo. Sembrano abbastanza istruiti e coraggiosi. Il loro accento sembra lombardo. E intanto abbiamo fatto le sei del pomeriggio. Io mi alzo e dico: «Ragazzi, non si può stare fermi: siamo come aerei in volo: se non ricevono la spinta dei motori, cadono. Scendiamo a valle per vedere quanti tedeschi oggi si ritirano dal fronte. Ma attenti: camminiamo sempre dentro le fosse se non vogliamo prendere una pallottola in testa». Ci si alza, infiliamo le scarpe pesanti senza i calzini e ci incamminiamo dentro una fossa che scende a valle. Camminiamo quasi a gatto con le mani per terra, ma la posizione è infelice ed ogni centinaio di metri dobbiamo fermarci. Ci distendiamo sul fondo umido della fossa. Ed è proprio in una di queste soste forzate che, all'improvviso, mi viene da pensare in questi termini: questa vita meravigliosamente drammatica non va vissuta da spettatori distaccati, ma da attivi protagonisti, da giovani coscienti e liberi. Siamo alla fine della guerra. Non gettiamo via questa esistenza di vent'anni. Abbiamo ancora tanto da imparare e un'esperienza simile ci arricchisce perché viene da noi vissuta con coraggio e paura. Il grande romanzo della vita è quello che ognuno di noi costruisce ogni giorno. Impariamo intanto a far prevalere la ragione sullo spirito di parte. Ma che sto pensando? Mi lascio andare in termini di sociologia a buon mercato?!
Subito abbandono questi progetti e riprendo possesso della realtà. Ci rimettiamo nella solita posizione e scendiamo ancora. Intanto il sole, pur calante, continua a picchiare sulle nostre teste. E' una tipica serata valdelsana: limpida e riposante, ma c'è una leggera brezza da ovest (noi si chiama marino), che stempera un po' il caldo. Tom e Ruffo non erano mai stati in Valdelsa e, nel vedere dall'alto quel paesaggio radioso che si apre ai loro occhi, lanciano delle sonore esclamazioni. Sembrano estasiati da questo spettacolo della natura, mai visto nelle loro terre.
Gigio se ne accorge per primo ed esclama:»Ecco, vedete, questa è la nostra terra, una delle più belle valli del mondo». I due amici non riescono a distogliere lo sguardo dall'ubertosa campagna. Ora siamo a cinquanta metri dalla statale e vediamo così da molto vicino i camion carichi di soldati tedeschi che si ritirano a nord per appostarsi sulla riva destra dell'Arno a contrastare l'avanzata degli Alleati. Le gambe ci tremano. Fin qui siamo sempre stati sprezzanti del pericolo, ma ora, in questi momenti, abbiamo paura. Mille sono i pericoli e, non ultimo, lo spettro degli agguati a sorpresa che questa quotidianità tumultuosa ci può tendere. In tutti i modi dobbiamo attraversare la strada statale. Aspettiamo che la colonna dei camion sia passata, guardiamo a destra e a sinistra e ...via! Un balzo dalla fossa in fila indiana e in due secondi siamo dall'altra parte. Prendiamo la fossa più vicina ed incominciamo a salire verso la collina opposta. Ad un certo punto sentiamo dei lamenti provenire da un canneto. Ci mettiamo in guardia. Ci avviciniamo lentamente in silenzio, mentre quei lamenti si fanno più nitidi. Siamo a due passi. Ad un mio cenno, spostiamo all'improvviso le canne e che vediamo?: un giovane soldato tedesco per terra, senza giacca né elmo: sicuramente abbandonato. Ha la camicia tutta insanguinata ed anche la mano destra é ricoperta di sangue e terra. Il primo impulso animalesco è quello di farlo fuori. Subito me ne accorgo, alzo la mano e urlo:»Fermi! Vogliamo fare come Maramaldo quando a Gavinana uccise il già moribondo Francesco Ferrucci?». Il soldato, che nulla ha capito, susssurra con un filo di voce:» Non fare caput». Io rispondo:»No, non caput». Egli si muove, cerca di alzare la testa, ma non vi riesce. Ha però la forza di balbettare:»Africa, Russia, Italia...». Vuol dire altro, ma gli mancano le forze. Uno di noi si porta l'indice della mano destra al naso, come per dirgli: zitto, ora. Gli toglie la camicia. Che spettacolo! Quel torace villoso é inzuppato di sangue.
Chissà da quante ore egli si trova lì nascosto. Gigio prende dallo zaino un pacchetto di cotone idrofilo e la bottiglietta dell'alcool. Lo ripuliamo fino alla cintola e solo allora possiamo vedere le sue condizioni: una ferita d'arma da fuoco che inizia dalla mammella destra e termina su quella sinistra. Sicuramente è il percorso della pallottola sparata chissà da chi. Al momento non ci poniamo questa domanda perché comprendiamo che urge solo la nostra assistenza. Intanto l'emorragia é visibilmente diminuita. Gli applichiamo dei lunghi cerotti sterili sulla ferita e poi, con tre rotoli di garza, lo fasciamo intorno al petto. A questo punto un silenzio tombale cade su di noi. Il grande interrogativo è:» E ora che facciamo?.
Io prendo a dire: «Ma perché lo volevamo uccidere questo povero cristo? Ha lasciato la sua famiglia, la sua Germania, ha combattuto sulle roventi dune africane e nelle distese gelate russe. Poi l'hanno spedito in Italia a contrastare l'avanzata degli Alleati. Questi potrebbero essere i suoi ultimi giorni di vita. Forse, da giovanissimo, anche lui avrà applaudito Hitler, come molti di noi applaudirono Mussolini, ma quando, a 19 anni, gli dettero il fucile e gli dissero: «Vai e uccidi», probabilmente avrà pianto. Anche lui avrà ucciso, ma non per sua volontà. Ora è qui. Lo potremmo far fuori subito e fuggire, metterci al sicuro nei boschi.Ma sarebbe giusto? Che ne sarebbe poi degli abitanti della zona? Per la iniqua norma:»Dieci italiani per un tedesco», verrebbero uccisi degli innocenti. No, no, ragazzi, non ci macchiamo di un crimine così infame. Ci vergogneremo: abbiamo altri ideali: combattere con quali armi, poi?».
Tutti, ora, condividono pienamente. Io continuo: »Poiché abbiamo la fortuna che l'ospedale civile é stato trasferito poco distante da qui, in aperta campagna a causa dei bombardamenti, portiamocelo subito». Dallo sguardo dei compagni di avventura comprendo che essi la ritengono un'azione pericolosa. E allora proseguo: «Si è fatto buio. Tra un'ora sarà notte fonda. Alex ed io andremo nella loggia di quella casa lassù. Prenderemo una scala. La butteremo qui per terra, ci metteremo sopra delle canne e su quelle ce lo distenderemo. Poi, fra tutti, lungo le fosse dei campi, lo porteremo davanti al portone dell'ospedale. Busseremo forte e ce la daremo a gambe levate. Non ci dovrebbe vedere nessuno. Dopo pochi giorni riusciremo a sapere da qualche amico infermiere se si è salvato. Andiamo, svelti!» Nessuno si tira indietro, così che l'azione si svolge secondo questo piano. Intanto, il tedesco ha intuito tutto ed appena la scala tocca terra davanti al portone, allunga la mano destra e stringe quella di tutti noi, con la poca energia che gli è rimasta. Riesce però a piangere, a noi prende un groppo alla gola. Di corsa riprendiamo, soddisfatti, la via del ritorno, consapevoli della dura vita che ci attende. Dopo tre giorni sappiamo che il soldato è salvo. Va bene. Oggi, nel descrivere questo episodio, mi accorgo che i nostri pensieri sono meno istintivi e più ponderati. Per cui, a distanza di più di mezzo secolo, riconosco che quei giovani italiani contro i quali combattevamo, erano stati attratti da una realtà sfarzosa, ricca di vessilli e monture che esaltavano. Comprendo che per loro non era cosa facile condannare una quotidianità così ambiziosa e si schierarono da quella parte, credendo così di dare un senso alla loro avventura esistenziale. Noi lottavamo per la libertà e la democrazia, loro per l'uomo forte, intenzionato a lanciare l'Italia nel novero delle nazioni potenti, con una società fondata sulla logica del dominio. Vincemmo noi, però dobbiamo ancora combattere, ma con altre armi: quelle del dialogo, della convinzione, del rispetto reciproco, del valore della pace, della solidarietà e dell'amore. E non ci saranno più conflitti.
Oh! Allora sì che avremmo vinto, davvero e insieme, la guerra di tutti, la più bella del mondo!
E' il 18 luglio 1944; in questo momento siamo solo tre: Alex, Gigio ed io. I due non sono molto istruiti, ma hanno acquisito un sano senso critico ed hanno ereditato dalla famiglia una salda fermezza di sentimenti. Il loro comportamento è sempre lineare, mai ondivago, destabilizzante od irrazionale. Di loro mi posso fidare, sempre ed ovunque.
Di giorno siamo vigili perché i tedeschi sono in piena ritirata verso Empoli, dove sono pienamente convinti di fermare i nemici.
Ci siamo decisi di bussare a qualche casa di contadini, chiedendo un pezzo di pane e dell'acqua, ma, sempre, ci viene portato qualcosa di più. Anche a loro, quindi, va la nostra riconoscenza se io, ora, posso vergare questi righi con emozione.
Fa caldo, però non lo sentiamo: abbiamo un sacco di pensieri. Ma perchè questi Alleati tardano così tanto ad arrivare? Sentiamo il tuono di qualche sporadica cannonata proveniente da San Gimignano: sono gli Alleati che si stanno preparando il terreno per scendere a valle, liberare Certaldo per poi entrare a Castelfiorentino.
Propongo di incamminarci, attraverso i campi, in direzione di Certaldo per sapere più da vicino dove possono essere questi Alleati che da quindici giorni attendiamo con indicibile ansia. I due accettano. Mi accorgo che ora Gigio indossa una camicia rossa e gli dico:»Togliti codesta camicia, sennò ti vede anche il ricognitore».
Al giovane lettore debbo spiegare che il ricognitore era un picolo aereo americano, quasi sempre biposto, che volava ad una altezza di un migliaio di metri ed effettuava la ricognizione del territorio da liberare. L'ufficiale, da bordo, fotografava i punti strategici dai quali transitavano le truppe tedesche: ponti, viadotti, nodi stradali, tratti di ferrovie in dirittura ed anche insediamenti industriali. Ebbene, si poteva esser certi che, dopo qualche ora o il giorno seguente, le famose fortezze volanti sarebbero venute a bombardare quanto era stato fotografato. E Castelfiorentino fu duramente colpita da ben 19 incursioni aeree.
--- Dopo questa doverosa precisazione, riprendo a dire che Gigio si toglie la camicia e la nasconde sotto terra. Così, rimaniamo tutti e tre in canottiera che una volta era bianca, ma ora è diventata marrone per lo sporco. L'abbiamo addosso da troppe settimane.
Sono le otto e l'aria è ancora fresca. Si va verso il fronte, proseguendo ad una cinquantina di metri dalla strada statale 429, camminando dentro le fosse. Ogni volta che passa un camion carico di soldati della Wehrmacht, ci abbassiamo e teniamo il conto. In due ore ne sono passati 86. Ora eccoci su un'aia con a fianco la casa colonica. Su un muretto siede un uomo dall'aspetto distinto, quasi signorile: è sicuramente uno sfollato. Sta leggendo un libro alto come un vocabolario. Alza gli occhi, ci vede, ci viene incontro, correndo. E' alto e magro; sembra di una cinquantina di anni, portati con il piglio goliardico di un ventenne. Comprende subito chi siamo e, arrabbiato come un gigante ferito a morte, si mette ad urlare:»Ma che aspettano questi americani a liberarci?! E' un mese che siamo qui a veder passare l'esercito tedesco in fuga e quelli seguitano a sparar cannonate!».
Non aspetta neppure la nostra risposta. Sale in casa e, dopo qualche minuto, eccotelo arrivare con sei fette di pane scuro e del grasso di maiale arrostito. In un paniere, portato da un ragazzotto, ci sono due bottiglie di acqua e vino. «Mangiate-ci dice-. A quest'ora avrete certamente fame». Non ci si fa ripetere: dopo dieci minuti tutto è consumato come se fossero passati i piranha.
Ci mettiamo a parlare della situazione, gli chiediamo tutte le informazioni che ci interessano, risponde con dovizia di particolari. Poi ringraziamo e si riparte a ritroso per il nostro rifugio notturno, mentre l'uomo ci grida dietro:»Ragazzi, non vi esponete troppo. Siete giovani ed ormai siamo alla fine!».
Sono le tre quando vediamo in lontananza la zona della nostra buca. Ora ci sentiamo più al sicuro, ma siamo sfiniti, inzuppati di sudore. Ci stendiamo per terra all'ombra di una capanna. Dalla casa di fronte i contadini ci vedono e subito ci prendono dalla cantina una brocca di acqua fresca. Che sollievo! Beviamo come non mai e ci laviamo la faccia.
Poi Alex e Gigio, stanchi morti, si ritirano nel fienile a dormire. Io rimango all'ombra.
Ad un tratto, da un bosco vicino sbuca un drappello di otto soldati tedeschi. I contadini impallidiscono ed io pure. Una donna mi dice sotto voce:»Scappa, ragazzo. Ti prendono!». Ma i soldati sono ormai vicini, a poche decine di metri; non posso scappare. Ora sono vicini a noi ed io osservo che hanno le armi in pugno. I loro volti sono scarni, gli occhi scavati dalla stanchezza. Qualcuno non ha più la giacca ed allora comprendo che sono degli sbandati, ma proprio per questo fanno più paura. Mi sono vicini e mi circondano. Subito, quello che mi sembra il meno giovane mi urla in un italiano stretto e gutturale: «Tu perchè non essere alla guerra?».
Mentre sto cercando una bugia, egli si rivolge al più giovane e in tedesco (che io conosco discretamente) gli dice: «E' tuo. Noi ti aspettiamo all'ombra». E gli indica un'altra quercia ai margini del bosco, distante un centinaio di metri. I sette si allontanano.
Il giovane soldato raccoglie un fuscello e sulla terra arida disegna un rettangolo dalle dimensioni di una cassa da morto. Io guardo e piango.
Poi tira fuori dall'ampio zaino un badile ed una piccozza da campo. Me li porge e mi fa cenno di scavare. Quindi si siede sul ciglio della strada e mi guarda mentre lavoro.
I contadini, atterriti, guardano la scena. Dopo un quarto d'ora, lungo come un secolo, il soldato mi dice: «Quanti anni avere tu?».
«Venti» rispondo, tremando.
«Venti anche io», ribatte subito e mi offre una sigaretta. La prendo, me l'accende. cerco di dargli l'impressione di gustarmi quel fumo. E intanto continuo a scavare. E' passata più di mezz'ora. Mi chiede:»Come tu chiamare?».
«Filippo. E tu?».
«Io Helmut», di rimando, quasi con orgoglio.
All'improvviso mette la mano in tasca, tira fuori la pistola, l'impugna. Io seguo il suo dito indice della mano destra. Spara un colpo... per terra e mi sussurra: «Raus (fuori,via) Viva nuova Germania. Dopo guerra, pace in mondo tutto».
Si alza, si rimette lo zaino in spalla, mi guarda, fa un cenno con la mano come per dire: fuggi. Si affretta a raggiungere i compagni, mentre ora io piango di gioia per questi bagliori di speranza.