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Presa nella sua intera mole e con troppo riguardo per le attività parallele, la poesia di Pasolini presenta il grave pericolo di chiamare a una scelta di campo decisa e recisa. O con lei o contro di lei: e il pericolo di questo aut aut sta nella divisione, che effettivamente si è verificata, tra ultras intransigenti (e, soprattutto, acritici) e intransigenti, nonché vagamente livorosi, tifosi della curva opposta. Non è facile perdonare a Pasolini di essere stato tutto quello che è stato. Un grande polemista? E sia; un critico splendidamente non specializzato, libero e spiazzante? Si può concedere; e si conceda che alcuni suoi film sono decisamente belli. Ma non esageriamo: già Minosse aveva decretato la sua discesa nel cerchio dei narratori mediocri: non si venga a dire che Petrolio impone con forza di riaprire il caso: ammansito il mostro in chiave di brogliaccio, di estremo esperimento, meglio non parlarne più. Che poi si pretenda che Pasolini fosse anche poeta, con tutte le cadute, i cascami retorici, gli obiettivi pratici che i suoi versi denunciano, significa mancare di senso della misura.
D’altronde, i pasoliniani duri e puri ingiungono una cautela speculare: come azzardarsi a parlare in termini di riuscite e di fallimenti a proposito di un genio? Di un Mida che ogni volta che toccava la penna ci regalava un aureo capolavoro?
Ora, di fronte a Pasolini, che così poca per fortuna ne ha usata, mi sembrerebbe ingiusto invocare cautela. Propendo semmai ad operare, come lettore, una scelta di campo radicale ma che non abbia per oggetto lo scrittore in blocco, bensì le sue singole opere. E mi riferisco soprattutto al poeta: nella mia percezione, Le ceneri di Gramsci, per citare uno dei suoi titoli più famosi, è un libro su cui il tempo ha avuto la mano pesante; ha avuto la mano pesante su quella spavalda mescidanza di ideologia e longhismo, di estetismo e intenzionalità, sulla voce spiegata e oratoria, sullo sguardo panoramico che abbraccia e ritrova un’intera Italia, con i suoi guasti e le sue belle cartoline artistiche: niente di male che sia un testo programmatico, che voglia indicare una strada precisa; il problema a mio avviso è che l’ideologia resta tale, che estetismo – e non finissimo – resta l’estetismo. È un’opera a suo modo perfetta, dove tout se tien: ma proprio la perfezione, la sistematicità di intenzione e realizzazione sono, nella scrittura di Pasolini, rischi mortali: non è un caso che il suo apice d’intelligenza critica vada collocato all’altezza di una raccolta disorganica come Descrizioni di descrizioni, e che il suo romanzo di gran lunga più potente resti l’incompiuto e caotico Petrolio.
Asor Rosa ha definito acutamente Pasolini un «illuminista carnale»: ecco, direi che l’aggettivo è necessario al poeta quanto il sostantivo. Il Pasolini che amo è quello dilacerato, disperato di sé, dedito all’ascolto dei suoi tormenti. E non alludo, con questo, a un Pasolini disimpegnato, intimista, privato. Sono, a ben vedere, distinzioni capziose, se è vero che la sua intuizione del reale e dell’umano proprio in questi frangenti si fa più profonda e la sua lezione, per chi ha desiderio di espressione propria, più proficua.
È qui infatti che Pasolini si rivela uno dei poeti più impudichi del Novecento, uno dei poeti che ha scritto di sé e della realtà con una concordia tra impulso ed espressione che ha qualcosa, appunto, di impudico; come era impudico il suo antecedente italiano più rilevante, cioè Pascoli: la psicologia vulnerata, il campo affettivo dissestato e sanguinante, sono riversati sulla pagina, in molte occasioni, senza filtri e censure. Pasolini, se non tutto, ci fa sapere di sé una quantità di notizie cui, per mole ed esplicitezza, non siamo abituati. Pascoli si preoccupava di muovere a compassione con i fatti e i pensieri della sua vita, oppure offriva una serie di segnali tanto cristallini quanto, paradossalmente, intorbidati alla fonte: non riusciva ad avere pudori, ma segretava i suoi assilli impudichi in tenui trasposizioni. Mentre non c’è, o almeno è arduo additare, un Pasolini segreto: quel che aveva da dire su di sè lo ha detto. Inutile sottolineare quale forza, quale fede, quale sacrificio (quale, ovviamente, narcisismo) occorrano per giungere a questa esposizione completa. E dunque il poeta di versi celebri come Supplica a mia madre invita a una sfiancante spietatezza verso se stessi, a un’atroce mancanza di riguardi per il galateo psicologico che ognuno di noi, in misure diverse, tende ad applicare alla propria consuetudine mentale. La nostra tradizione è colma di poesia intimistica, di confessioni in versi: ma rarissima è la dote di rinunciare a un qualche canonico camuffamento. Inutile, ancora, aggiungere che – questa di Pasolini – è una lezione di onestà quasi sabiana (Saba: un altro che di narcisismo e impudicizia, nel senso che ho cercato di suggerire, era edotto), una lezione morale che si trasferisce in una dimensione più ampia e coinvolge il rapporto con il mondo e l’ideologia. Sennonché, da un certo punto in poi, Pasolini ha avuto la consapevolezza, e diciamo pure il gusto, di recitare in pubblico: il lancinante e sottilmente compiaciuto gusto di offrirsi all’avida vista della gente. Palazzeschi, che delle nostre lettere è tra gli scrittori più irriverenti e insieme più schermati, sognava in versi di vivere in una casa di vetro, esposta agli sguardi dei passanti. Lo sognava: sognava – in termini metaforici– di essere Pasolini.
Penso alla nuda confessione, crudele e straziante del Frammento epistolare, al ragazzo Codignola: «Oltre a questa apparenza, a questa parvenza, / non ho niente altro da dirti. / Sono avaro, quel poco che possiedo / me lo tengo stretto al cuore diabolico. / E i due palmi di pelle tra zigomo e mento, sotto la bocca distorta a furia di sorrisi /di timidezza, e l’occhio che ha perso / il suo dolce, come un fico inacidito, / ti apparirebbero il ritratto / proprio di quella maturità che ti fa male, / maturità non fraterna. A che può servirti / un coetaneo – semplicemente intristito / nella magrezza che gli divora la carne? / Ciò ch’egli ha dato ha dato, il resto / è arida pietà».
Pasolini aveva una sua idea forte di poesia, ma aveva anche molte interferenze: io sono affezionato a quelle interferenze. Vuol essere poeta civile, e ha una vena raziocinante, innervata su una dialettica esposta. Eppure è un lirico, è prima di tutto un lirico. Lo dimostrano in negativo le stesse sordine e il sacrificio di sé presenti nelle poesie tarde. E’ chiara l’intenzione di distruggere e l’amarezza per la distruzione. La rappresaglia, o la ripicca, dell’amante tradito.
Ancora Asor Rosa: «quale straordinario poeta formalistico, mistico ed estetizzante sarebbe stato Pier Paolo Pasolini se non avesse incontrato ad un certo punto del suo cammino la figura prorompente e positiva della cultura progressista». È vero, io credo: ed è vero paradossalmente che contro la poetica formalistica, mistica ed estetizzante, contro, in una parola, il decadentismo e le sue ramificazioni successive Pasolini condusse una dura lotta ideologica. È una contraddizione che mi piace: e forse non questo è un altro messaggio da far proprio, il sacrificio della coerenza filosofica in favore della verità poetica?
Del resto un’altra sezione dell’opera pasoliniana, che ancor oggi mi pare deliziosamente fruibile, coincide con quella iniziale: in tanti ripetono che gli inizi dialettali sono già l’apice della sua poesia: in effetti, quegli esili versi di ventenne sono frutti già maturi e di grande suggestione; tuttavia chi li addita come i migliori il più delle volte sembra spinto da intenti strategici: esaltare il momento aurorale del percorso pasoliniano per dimostrare quanto brumoso sia stato il precoce tramonto. In realtà, il sole splende non solo sugli episodi che abbiamo implicitamente chiamato in causa sopra, ma anche su molti componimenti, per esempio, dell’Usignolo della chiesa cattolica (il Pasolini «formalistico»), dove egli si attiene a una misura melica fascinosa e tenuta con grazia tra gli estremi di una svagata leggerezza e di una gravità di motivi che già ci richiamano gli esiti successivi. Mengaldo propone, a questo riguardo, il nome di Gatto: io aggiungerei quello di Betocchi, per la cantabilità, certo, ma anche nella cifra di uno stupito cattolicesimo rurale.
In conclusione: questi sono i miei Pasolini, che altri ne escludono o comunque ridimensionano (quello politico come quello afono), e che, in prima istanza, mi sembrano testimoniare di una grandezza del Pasolini poeta. Una grandezza da antologizzare spietatamente, non reperibile cioè, se non per una felice fatalità, ad apertura casuale di pagina; eppure innegabile. Forse sembrerà poco: ma non so di quanti altri poeti del suo tempo si possa dire altrettanto.
Prima che il gallo canti
Ch’amico in terra al lungo andar nessuno
resta a colui che della terra è schivo
E quanto lontani
i custodi del tempio, i battitori
che a colpi di pennato spalancano il folto
delle notti, i salvatori
della sua patria rotta e invasa.
Lo sbandamento procede per il meglio.
Iniziarono le iene
a stringere i loro cerchi
arrochendo i mugolii e le risa.
Anche l’aria intanto
si punteggiava di sgorbi
pronti alla picchiata.
Agli alleati doleva la mano
tante firme posarono:
dichiarazioni di non belligeranza.
Tutto è apparecchiato per la mattanza.
Estremo e accasciante insulto,
la compagine delle carezze
non sa che volgendosi ripetere
che è il momento di mostrarsi adulto.
Sarà – gli dicono – quel che sarà,
o ciò che potrà essere.
Ognuno figge il suo nemico smemorando.
Ognuno assorto nella stesura del suo bando,
nella misura della propria costituzione.
Tra i primi articoli l’assoluzione
per i reati troppo frequenti e sottili,
piena comprensione per le necessità
dei vampiri, per le debolezze dei mostri.
Il cratere cresce ogni ora di raggio,
ingrossano le crepe e l’aria si scurisce;
con sornione coraggio si fanno avanti
a valutarne l’altezza i becchini.
Lui sente inchinarsi il coraggio
al cospetto di quel corteggio
di giovani e ridenti sicari.
Ma non è che un minimo cretto
in uno spazio già folto di rughe.
Si ferma, rimane, definitivamente sazio
di volti preghiere richieste… di fughe.
Infine s’inizia, fiutate e morsi
s’avvicendano da ogni lato,
colpi di frusta di spada e di coltello.
A lui sembra d’essere morbido marmo
che uno scalpello lavori con il fine
di trarne un’esile gingillo,
un oggetto inanimato e tranquillo
da tirar fuori per le feste
senza temere musi lunghi o proteste
Paolo Maccari è nato a Colle di Val d’Elsa (Siena) nel 1975. Ha esordito nel 2000 con Ospiti (prefazione di Luigi Baldacci, Manni), raccolta a cui sono stati attribuiti i premi “Bagutta Opera Prima” e “Città di Pisa”. Sue poesie sono apparse in rivista e nelle antologie Nodo sottile 2 (Cadmo, 2001), Nodo sottile 3 (Crocetti, 2002) e Parola Plurale (Sossella, 2005). Ha curato il carteggio Bilenchi-Cesarini È bene scrivere poco (Cadmo, 2003) ed è autore di una monografia su Bartolo Cattafi: Spalle al muro (SEF, 2003). Collabora a “L’indice dei libri”, “Semicerchio” e “Poesia”.
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