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Tra le «forme della poesia» praticate da Pasolini in maniera continuativa nel corso del suo fitto itinerario artistico e intellettuale, la prima, la più antica, è la poesia stessa. Poesia in forma di poesia, potremmo dire, precisando subito che tutti noi, non essendo in genere poeti moderni e talvolta neppure uomini moderni, siamo abituati ad attribuire persino all’ispirazione il rigido e fallace realismo di un oggetto.
Novalis, un poeta, aveva ragione: «La poesia – come ha poi scritto ed estensivamente esemplificato Friedrich – nasce da un impulso del linguaggio il quale, obbedendo a sua volta al “tono” prelinguistico, mostra la via su cui si presentano i significati».
Eccoci, modernamente appunto, alla genesi della poesia di Pasolini, al suo sonoro avantesto primario che fa scrivere poesie, che farà ricordare anni dopo, sull’onda di un’impellenza veicolata da suoni: «E scrissi subito dei versi». «In una mattinata dell’estate del 1941 – questo il resoconto retrospettivo fornito – io stavo sul poggiolo esterno di legno della casa di mia madre. Il sole dolce e forte del Friuli batteva su tutto quel caro materiale rustico. [...] Quando risuonò la parola rosada. [...] La parola “rosada” pronunciata in quella mattinata di sole, non era che una punta espressiva della sua vivacità orale. Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono. [...] E scrissi subito dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni. Cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola ROSADA. Quella prima poesia sperimentale è scomparsa: è rimasta la seconda, che ho scritto il giorno dopo: “sera imbarlumida, tal fossal / a cres l’aga”».
Siamo a Casarsa, in Friuli, nel 1941; e siamo qui, ora, a trent’anni di distanza dalla morte di Pasolini. Pasolini, oggi, è personaggio novecentesco noto, non certo da ascrivere – per troppi fatti evidentemente, compresa la pubblicazione della sua opera in vari volumi dei prestigiosi ed istituzionalmente canonizzanti «Meridiani» di Mondadori – al novero degli scrittori dimenticati: un trentennale della memoria affollato di eventi e appuntamenti su scala mondiale non si è ancora esaurito. Ciò nonostante il ricordo di Pasolini mi pare di preferenza resistere e valere secondo due accezioni contigue e convergenti, ambedue marcatamente all’insegna del grande pubblico, mass-mediologiche, quanto mai esposte alla banalizzazione, alla semplificazione di largo consumo, a tradimenti della complessità.
Le immagini che più di altre sembrano infatti assicurare un’attualità di Pasolini continuano ad essere due: quella del cineasta, il regista di film che fino a qualche tempo fa anche la tivù continuava a far passare almeno nelle ore notturne, e quella dell’intellettuale anticonformista, il pubblicista ideologizzato e imprevedibile, sempre pronto a pronunciarsi, a compromettersi, a dire la sua attraverso giornali ed altri mezzi della comunicazione. Le due immagini finiscono poi con il sovrapporsi, a favore di un «personaggio Pasolini» sufficientemente monolitico ed esplicato, etichettabile ed archiviabile all’insegna della trasgressione, della provocazione e dello scandalo, all’insegna diciamo pure di un dato biografico a tutti presente come quello della sua esibita, contraddittoria e sofferta ma ideologicamente difesa diversità sessuale, tra resistenti diffidenze e accettazione, ma con il rischio di incorrere parimenti in convenzionalità, in appiattimenti, in accezioni di conformismo quanto mai antipasoliniane.
Quello che a me interessa sottolineare è, al contrario, la poliedricità di un autore «vocato», la sua ricchezza, i talenti di eccezionale valore ed eccezionale cultura resi visibili e trasmissibili in opere alla base delle quali c’è una vocazione appunto, una appassionata e appassionante chiamata della poesia: opere a loro volta facenti capo a un’opera, ad un’unica forma della poesia.
«Rosada»: un intero, articolato itinerario rapportabile alle risposte e alle resistenze frappostesi a quest’invito pressante, continuativo, costantemente efficiente ed esigente, parte di qui. L’ambiguità di Pasolini non è che secondariamente un’ambiguità biografica, a sfondo psicologico: un’ambiguità che caso mai è servita, nella realizzazione di un ben più complesso destino, a nutrire quella ambiguità che è l’ambiguità della poesia.
L’ambiguità di Pasolini è anche frutto di ambiguità coltivate, di diversità, eccezioni, scarti dalla norma ritenuti del tutto necessari e da valorizzare in nome della verità. È così che, sul filo di un disagio provato e di un incanto intravisto, un suono come «rosada» attiva sintonie, chiede soccorso, offre e pretende assistenza, implica risarcimenti: instaura, soprattutto, un rapporto, induce ad intrattenimenti di carattere linguistico, li moltiplica.
«Io sono una forza del Passato...», diranno attraverso versi diventati sceneggiatura di film e immagini Pasolini e Orson Welles nella Ricotta. E si pensi al teatro: quel teatro destinato a glorificare come non mai la parola, «perché essa – come si dice in Affabulazione – è, insieme, scritta e pronunciata». Si pensi allo spettacolare, mortuario Prologo di Orgia, in particolare, laddove l’interrogazione poetico-drammaturgica della Diversità non si limita a verificare lo scandalo, ma lo produce e lo trasferisce, allargandolo: «Ha diritto la Diversità a restare sempre uguale a se stessa? / A non essere altro, in tal caso, che verifica di scandalo? / Non deve, piuttosto, divenire altro scandalo? / Cos’è insomma la Diversità – / quando essa non divenga diversa da sé – / se non puro termine di negazione della norma?».
In Porcile, d'altronde, Pasolini affida addirittura ad un inedito Spinoza la dichiarazione di un proprio personale programma: solo attraverso il recupero della distante alterità ci si sottrae ad un sistema che ingloba. Per contrastare i meccanismi spietatamente perfetti e acuminati del Potere si può, si deve anche abiurare a tutto, anche all'opera – per Spinoza l’Etica – cui interamente si è dedicata la vita.
«L’elemento irrazionalistico e religioso – sosterrà ancora Pasolini nel 1964, ripensando a una possibile epigrafe da apporre al suo Vangelo secondo Matteo – è un antico elemento che mi accompagna come uomo e come scrittore da quando sono nato. Si può dire sin dal 1942, l’anno in cui è uscito il mio primo libro di versi, che si chiama Poesie a Casarsa ed è scritto in dialetto friulano, il dialetto materno di mia madre e dei paesani di mia madre». La Domenica uliva, spina dorsale del libro, inscena in effetti dialoghi tra giovinetti, in realtà tra un figlio e una madre, che si profilano come una chiamata paolina, nonostante le solarità da miraggio di una mattina estiva solo in parte folgoranti, risolutive, da via per Damasco: «Cristo – parole di Pasolini – mi chiama, MA SENZA LUCE».
Certo è che da lì a poco Pasolini, già fra poesia e teatro, avrebbe sostituito alla «ricerca di mia madre», poeticamente efficiente e già disponibile a ibridazioni e metamorfosi, la «scoperta di Marx»: un componimento risolutivo della raccolta in lingua L’Usignolo della Chiesa cattolica si imbatte in un titolo spiazzante rispetto a quello originariamente testimoniato dall’autore come intenzione, come progetto di ricerca. La poesia porta dove vuole lei, va dove lei comanda di andare, e cioè ad un incontro ideologico psicologicamente complicato da varie occorrenze dolorose della biografia di Pasolini note a tutti.
Passione e ideologia per contaminazioni e diffrazioni, per incroci e proiezioni, per sublimazioni ed espiazioni. Il cuore del poeta è esigente, il grido non basta, la luce che egli ricerca affidandosi a suoni deve essere vera luce. Ed è la poesia, di nuovo, a registrare con analoga puntualità testuale, nel poemetto omonimo delle Ceneri di Gramsci, le insufficienze di ulteriori, sopravvenute conquiste, di improcrastinabili partecipazioni societarie e condivisioni presto, internamente alla poesia stessa, sottoposte a bilancio: «Ma come io possiedo la storia, / essa mi possiede; ne sono illuminato: // ma a che serve la luce?» (VI).
D’altra parte, «La poesia – secondo il Pasolini popolarmente dialogico e didattico del Caos – non è valore metastorico, perché non si fa e non si legge fuori della storia. Essa è se mai iperstorica, perché la sua carica di ambiguità non si esaurisce in alcun momento storico concreto».
La poesia che nasce e si legge nel presente guarda al futuro; la poesia guarda al passato. Passione e ideologia, ma «in poesia», pensando e operando deliberato e ispirato, poeticamente fuori e dentro la realtà, in un presente che è anelito a traguardi che sono ricongiungimenti, che è frizione, contraddizione, ambiguità. Anche un poeta come Franco Fortini – Pasolini lo segnala espressamente – «si muove, pensa e opera fuori della realtà: come i poeti...» (ancora nel Caos).
Sta di fatto che il poeta si trasforma, la poesia si trasforma. Questo avviene – esemplarmente, in maniera quasi paradigmatica per il nostro secondo Novecento – in Pasolini, nel suo percorso di instancabile artefice delle «forme della poesia», di insoddisfatto e vorace sperimentatore, di vocato scrupolosamente obbediente fino al proprio danno, all’autolesionismo, all’annientamento sacrificale, all’eccesso eretico; fino, potremmo aggiugere, a quella «sorta di immunità dalla confutazione» nell’asserire acutamente còlta in Pasolini da Fortini.
Questo non vuol dire che Pasolini è stato un poeta in tutto tranne che in poesia. È naturale invece (e in ciò dissentirei, nella valutazione specifica di Pasolini poeta, anche da troppo facili arresti storiografici a cronologie alte, laddove la poesia stessa, diciamo, è più agevolmente identificabile come tale) che la poesia diventi un’altra cosa, si faccia diversa, disposta a pagare il prezzo della sua diversità nell’affrontare ogni volta da capo il mondo e la storia, a subire le conseguenze degli scandali e delle delusioni che provoca, ad essere fraintesa, non riconosciuta, rifiutata; disposta perfino, con il coltivato candore che le è proprio, ad approfittare del suo essere dovuta diventare altro, aumentando la posta della sua scommessa, della sua storica inaccettabilità di messaggio «oltre» e «contro», della sua ambiguità.
È giocoforza, così, che neppure l’impegnativo Trasumanar e organizzar, libro pubblicato nel 1971 e caduto, a dispetto delle aspettative dell’autore, nel silenzio o quasi, si sia potuto configurare a suo tempo e dopo come le nuove Ceneri (alludo in particolare ai giudizi di Pier Vincenzo Mengaldo in Poeti italiani del Novecento, secondo i quali «con rare eccezioni, i testi successivi alle Ceneri e alla Religione non appartengono più alla storia della poesia di Pasolini, anche se contano sempre come rilevanti documenti psicologici e ideologici»).
Ma le tabelle di riferimento e i riscontri, dicevamo, dovranno di sicuro essere ampliati, e quel che conta è che la poesia non smette nell’autore di affidarsi a rinascite, a strategiche riviviscenze e adattamenti, a impreviste riesumazioni di se stessa: poesia di poesia, facendosi persino, di proposito, anti-poesia, magma contemporaneistico, controavanguardia a sfondo intellettualistico, volontaristico e diretto messaggio ideologico, enunciazione, polemica, strumento pratico di tipo politico, poesia d’occasione, poesia su commissione, intimità solitaria, autoterapia.
Sotto il segno della poesia, anche libri non in versi come la silloge di articoli Descrizioni di descrizioni o il romanzo Petrolio assumono compatto rilievo: fino a configurarsi, assieme ai versi a specchio, con testo a fronte, della Nuova gioventù, come il punto d’arrivo di un’unica ricerca singolarmente ampia ed inclusiva, ininterrotta e circolare, venuta dopo «rosada».
Non a caso Tetis ricomparrà personaggio di Petrolio depositario di un segreto «di enorme valore pubblico», «storico», da trasmettere ad altri: Polis e Tetis, Carlo di Tetis e Carlo di Polis, presenze e compresenze di un sogno visionario, ultramondano e dantesco, in cui il capire è «gioiosa cognizione del capire», dove i personaggi – ancora testualmente – pare che parlino una lingua «meravigliosa», «in versi o in musica».
Mistico lucidissimo, Pasolini non si rinnega: resta sino alla fine – del tutto impossibilitato all’abiura della poesia – un poeta. Ora, attraverso qualcosa di scritto che rimanda a qualcosa di precedentemente scritto, attraverso esponenziali descrizioni di descrizioni o un romanzo-non romanzo come Petrolio, Pasolini, più che riuscire a confessarsi senza reticenze, rinascerà: conoscerà e sarà insieme oggetto di conoscenza, in vista di una autobiograficamente matura, geneticamente efficiente e definitiva, autoespressione poetica.
Si legge nella Lettera ad Alberto Moravia di Petrolio: «Non ho più voglia di giuocare (davvero, fino in fondo, cioè applicandomi con la più totale serietà); e per questo mi sono accontentato di narrare come ho narrato. Ed ecco il consiglio che ti chiedo: ciò che ho scritto basta a dire dignitosamente e poeticamente quello che volevo dire?».
Sono toni da Tetro entusiasmo. Ma in chi elabora Petrolio – lo rileva Aurelio Roncaglia nella nota al testo – «l’impulso più profondo non è di tipo oggettivo-narrativo, bensì d’intima ricerca, dunque inclinato a un istintivo lirismo». Persino l’idea di «fare una forma» dichiarata internamente al libro appare alla fine contraddetta, sentita come «oggetto», intralcio alle esigenze sempre più complesse e incontenibili dell’io: quell’io che – pur interessato fino all’ultimo al noi, ad una rappresentatività allargata – si rivolge «al lettore in quanto io stesso, in carne e ossa», lasciando alla realtà di tragici fatti occorsi e non a crocifissioni pur sempre immaginate l’extratestuale, irrevocabile compimento di un’opera e di una vicenda.
Aveva scritto Pasolini in margine a Edipo re, riconfermando il proprio unitario destino di poeta e scandendolo in tre grandi momenti: «Che cos’è la sublimazione? È una scelta ideologica, naturalmente; una scelta incerta. In un primo momento Edipo è un poeta decadente, poi un poeta marxista, poi più nulla: qualcuno che sta per morire. E qui mi sono servito di alcuni elementi tratti da Edipo a Colono».
Pasolini – questo il significato ultimo di quanto abbiamo cercato di dire – è nei suoi «testi», nelle sue multiple, ibride e cangianti «scritture» di poeta, e non c’è modo migliore di ricordare Pasolini – credo – di «leggerlo»: leggerlo nell’accezione più propria e insieme più ampia del termine, estensivamente, organicamente, non accontentandosi di qualche vulgato passo delle Ceneri o di qualche pagina dei romanzi romani, della memoria di un suo intervento giornalistico all’insegna del dissenso, di un film casualmente rivisto o di uno spettacolo teatrale assolutamente, come oggi si abusa, da vedere.
Dedichiamo a Pasolini l’omaggio più congruo che il suo lavoro merita. Attraverso parole, attraverso trasmissibili e mobilitanti «forme della poesia», anche la nostra vita – ricordo o sogno, «magnifico velo» o «teorema» – sembrerà ricominciare. Questo insegnano i poeti.
Breve profilo biografico
Pier Paolo Pasolini (Bologna 1922 - Roma 1975) scrittore, saggista, regista cinematografico, trascorse l’infanzia in varie città al seguito del padre ufficiale dell’esercito. Il forte legame con la madre, friulana d’origine contadina, e gli studi di filologia romanza, lo spinsero a cercare nel dialetto materno un mezzo con il quale esprimere un delicato e fantastico mondo poetico. Nacquero così le Poesie a Casarsa (1942), poi raccolte con altri versi in La meglio gioventù (1954).
La guerra costrinse poi Pasolini a riparare a Casarsa nell’estate del ‘43 e qui organizzò diverse iniziative per la difesa delle lingue regionali. Nel 1947 si iscrisse al Partito Comunista Italiano iniziando un’attività di militante solo in parte riflessa nei versi barocchi di L’usignolo della Chiesa cattolica (1958) tesi a registrare la durezza del mondo e dei rapporti sociali e nel romanzo Il sogno di una cosa (1962), rievocazione delle lotte dei contadini friulani. Nel 1949, accusato di corruzione di minorenni, fu sospeso dall’insegnamento ed espulso dal partito.
Si trasferì dunque a Roma, conducendo dapprima una vita di estrema indigenza. Qui restò affascinato dal vitalismo del sottoproletariato romano di cui reinventò il linguaggio tra gergo e dialetto e l’esistenza picaresca nei due romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). Se l’originalità stilistica di queste opere lo posero al centro dell’attenzione del mondo intellettuale, i crudi contenuti gli valsero una denuncia per pornografia, codificandosi così presso l’opinione pubblica il suo ruolo di “provocatore”.
La dialettica tra ragione e passione ritorna nei versi di Le ceneri di Gramsci (1957, Premio Viareggio), forse la sua prova poetica più alta, senz’altro la più rappresentativa. Seguirono i poemetti La religione del mio tempo (1961) e Poesie in forma di rosa (1964), dove la volontà di conoscenza del reale si stempera in una rievocazione nostalgica – ma per Pasolini ideologicamente attiva e decisiva – del mondo contadino.
Negli anni Sessanta e Settanta, pur non abbandonando mai la poesia e continuando a pubblicare versi e raccolte, si dedicò intensamente al cinema, al teatro e alla scrittura saggistica e di polemista. Notevole il suo ultimo romanzo apparso postumo Petrolio, al pari delle terminali poesie in dialetto rivisitate e riscritte di La nuova gioventù e degli interventi critici di Descrizioni di descrizioni.
Nel passaggio dalla letteratura all’analisi dei fenomeni sociali e di costume Pasolini accentuò la sua vocazione a porsi come voce diversa, anticonformista, alla ricerca continua di una verità, in politica come nell’arte e nei rapporti umani. La sua tragica morte violenta nel novembre del ‘75 sanciva definitivamente la sua disappartenenza alla società del suo tempo.
Bibliografia
L’opera di P.P. Pasolini è oggi consultabile nelle edizioni dei «Meridiani» Mondadori, a cura di W. Siti e S. de Laude: Tutte le poesie, 2003; Per il cinema, 2001; Teatro, 2001; Saggi sulla letteratura e sull’arte, 1999; Saggi sulla politica e sulla società, 1999; Romanzi e racconti, 1998.
Si segnalano inoltre:
Poesie scelte, antologia a cura di N. Naldini e F. Zambon, Milano, TEA, 1997.
Poesie. Con CD-Audio, letture di S. Lombardi, Milano, Garzanti, 2001.
Le regole di un’illusione. I film, il cinema, a cura di L. Betti e M. Gulinucci, Roma, Associazione «Fondo Pier Paolo Pasolini», 1991.
Tra i testi critici di una bibliografia sterminata:
G. Ferretti, L’universo orrendo, Roma, Editori Riuniti, 1976.
E. Siciliano, Vita di Pasolini, Milano, Rizzoli, 1978, ora Milano, Mondadori, 2005..
M. Marchi, Descrizioni di descrizioni. Il saggismo poetico dell’ultimo Pasolini, in Palazzeschi e altri sondaggi, Firenze, Le Lettere, 1996.
E. Liccioli, La scena della parola. Teatro e poesia in Pier Paolo Pasolini, Firenze, Le Lettere, 1997.
M.A. Bazzocchi, Pier Paolo Pasolini, Milano, Bruno Mondadori, 1998.
G. Jori, Pasolini, Torino, Einaudi, 2001.
M.S. Titone, Cantiche del Novecento. Dante nell’opera di Luzi e Pasolini, introduzione di M. Marchi, Firenze, Olschki, 2001.
F. Vighi, Le ragioni dell’altro. La formazione intellettuale di Pasolini tra saggistica, letteratura e cinema, Ravenna, Longo, 2002.
G. Tuccini, Il vespasiano e l’abito da sposa. Fisionomie e compiti della poesia nell’opera di Pier Paolo Pasolini, Udine, Campanotto, 2003.
Tra i libri ultimamente usciti o pubblicati in nuova edizione:
G. D’Elia, L’eresia di Pasolini, Milano, Effigie, 2005.
E. Golino, Pasolini. Il sogno di una cosa. Pedagogia, Eros, Letteratura dal mito del popolo alla società di massa, Milano, Bompiani, 2005.
A.Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Venezia, Marsilio, 2005.
F.R. Merli, Lo specchio a colori. Pasolini trent’anni dopo, Civitella in Val di Chiana (Arezzo), Editrice Zona, 2005.
G. Zigaina, Pasolini e la morte. Un giallo puramente intellettuale, Venezia, Marsilio, 2005.
Pier Paolo Pasolini intellettuale del dissenso e sperimentatore linguistico, Atti del 43° Seminario di Studio-Letteratura, Assisi, 3-6 marzo 2005, a cura di F. Tuscano, Assisi, Cittadella Editrice, 2005.
Pasolini rilegge Pasolini, a cura di L. Fontanella, Milano, Archinto, 2005.
Meditazione orale, CD-Audio, con una nota di G. Scalia e un ricordo di S. Bardotti, Roma, Sossella, 2005.
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