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La ‘Cittadella’, complesso di edifici, sede della Pro Civitate Christiana di Assisi, è stata voluta dal nostro Fondatore, don Giovanni Rossi, come luogo di incontro e di dialogo (parole oggi usurate, ma che allora – anni ’50 – suonavano come ‘eretiche’), aperto a tutti, senza distinzione di classi sociali, di ideologie, di fedi religiose.
Un luogo per quanti erano alla ricerca di senso e di speranza per la propria vita, in particolare, per quanti – come allora si diceva – erano ‘lontani’. Egli desiderava realizzare una “moderna abbazia”, ricca di arte (abbiamo una galleria con opere di pittura e di scultura di grandi artisti), di bellezza, di cultura, di preghiera, di accoglienza, dove chiunque, credente o no, potesse liberamente approdare.
In questo clima, oltre all’ospitalità di singole persone o gruppi, si organizzavano incontri per cineasti, scrittori, uomini della cultura e dell’economia, lavoratori, scienziati…
Fu così che, a fine settembre 1962, si invitò anche Pier Paolo Pasolini a un convegno per gente impegnata nel cinema: registi, produttori, attori. Egli però rifiutò di venire, scrivendo “Non posso sopportare i farisei che usano la religione per i propri interessi. Se verrò da voi, ci verrò a convegno finito”. E arrivò in Cittadella. Lascio a lui la parola.
“…Era il 2 ottobre 1962, stava per arrivare da Loreto Giovanni XXIII, il primo Papa che era uscito dal Vaticano e che veniva a pregare sulla tomba del Poverello per il destino del Concilio imminente. Ero sdraiato sul letto, mi piaceva ascoltare la città che ferveva di voci e di passi, che bolliva di curiosità e di felicità. Sentivo scalpicciare migliaia di piedi per le strade verso la grande basilica, tutte le campane stavano cominciando a suonare. Pensavo a quel dolcissimo Papa contadino che aveva aperti i cuori a una speranza che sembrava allora sempre più difficile, e al quale si erano aperte anche le porte di Regina Coeli, dove era andato a ‘guardare negli occhi’ ladri e assassini, armato solo di un’immensa e arguta pietà.
Sentii anch’io, per un momento, il desiderio di alzarmi e andargli incontro, di vederlo da vicino e di guardarlo negli occhi. Ma mentre ormai le campane rombavano anche sulla mia testa, di colpo il desiderio di vederlo svanì. Mi resi conto che sarei stato un’irritante distrazione per molta gente; mi avrebbero accusato di cercare una facile pubblicità. Non mi sentivo il figliol prodigo e per molti quel gesto sarebbe stato soltanto una sceneggiata di cattivo gusto.
D’istinto, allungai la mano al comodino, presi il libro dei Vangeli che c’era nella camera e cominciai a leggerlo dall’inizio, cioè dal primo dei quattro Vangeli, quello secondo Matteo…
L’idea di un film sui Vangeli m’era venuta anche altre volte, ma quel film nacque lì, quel giorno, in quelle ore… L’unico dunque al quale potevo dedicare quel film non poteva essere che lui, Papa Giovanni. E a quella cara ‘ombra’ l’ho dedicato. L’ombra che è la regale povertà della fede, non il suo contrario”.
Nel febbraio 1963 scrive al nostro collega dr.Lucio Caruso che quel Vangelo sul comodino fu “vostro delizioso-diabolico calcolo! L’ho riletto dopo circa 20 anni” (Pasolini non sapeva che il Vangelo c’è in tutte le nostre camere). E conferma l’idea di tradurre in linguaggio cinematografico il Vangelo secondo Matteo.
“Da voi, quel giorno, l’ho letto tutto di seguito, come un romanzo. E nella esaltazione della lettura – lei lo sa, è la più esaltante che si possa fare! – mi è venuta, tra l’altro, l’idea di farne un film. Un’idea che da principio mi è sembrata utopistica e sterile, ‘esaltata’, appunto. E invece no…
Solo dopo due o tre mesi, quando ormai l’avevo elaborata – e mi era diventata del tutto familiare – l’ho confidata al mio produttore (Alfredo Bini): ed egli ha accettato di fare questo film così difficile e rischioso per me – e per lui.
Ora ho bisogno dell’aiuto vostro: di don Giovanni, suo, dei suoi colleghi. Un appoggio tecnico, filologico, ma anche un appoggio ideale. Le chiederei insomma di aiutarmi nel lavoro di preparazione del film, prima, e poi di assistermi durante la regia.
La mia idea è questa: seguire punto per punto il ‘Vangelo secondo San Matteo’, senza farne una sceneggiatura o una riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o una aggiunta il racconto…
Ed è un’opera di poesia che io voglio fare. Non un’opera religiosa nel senso corrente del termine, né un’opera in qualche modo ideologica.
In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente – almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità. Per questo dico ‘poesia’: strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo”.
Perché si ferma sul Vangelo di Matteo? Perché sente il Cristo forte, deciso, che sceglie di stare dalla parte dei poveri. Afferma infatti “La chiave con cui ho fatto il film e che mi ha spinto è ‘Non sono venuto a portare la pace, ma la spada’”.
Si butta nel lavoro con entusiasmo, quasi con furore, direi. Dal febbraio 1963 inizia a trascorrere periodiche giornate in Cittadella, per consultare la sezione ‘Iconografica’, ricca di migliaia di riproduzioni fotografiche di opere antiche e moderne a soggetto cristologico; ad ascoltare musiche nella nostra ‘Fonoteca’, dotata di circa10.000 incisioni che spaziano dal gregoriano alla musica contemporanea. La Messa Luba, le musiche di Mozart e di Bach, i canti russi e i negro-spirituals… comporranno la colonna sonora del film. “Una specie di ecumenicità musicale” la definisce.
Ringrazia per la “dolce ospitalità” e per la “collaborazione cara, sincera, veramente cristiana” ricevuta.
Nel maggio 1963 scrive:
”Carissimo don Giovanni, sono tre o quattro giorni che quasi non esco di casa, preso dal fervore e dall’angoscia del lavoro. Ho fatto quel che ho potuto, cioè poco più che degli affrettati appunti: spero che Lei e i Suoi collaboratori possano leggere in questa lingua arida e tecnica, quello che c’è dentro, e di cui ho appena abbozzato il disegno. Intanto andrò avanti, e venerdì, ad Assisi, porterò con me la fine della sceneggiatura.
L’abbraccio affettuosamente (La vedo ancora davanti agli occhi, lassù contro la ringhiera del giardino, che mi chiama e mi saluta: immagine che mi ha seguito in tutto il lavoro di questi giorni)”.
Don Andrea Carraro, sacerdote della nostra Comunità, viene delegato – data la sua competenza biblica – a guidare, con il dr. Caruso, P.P.Pasolini per un sopralluogo in Terra Santa dal 27 giugno all’11 luglio. Con le sue sobrie spiegazioni esegetiche aiuta lo scrittore a leggere i luoghi della vita di Cristo. Il regista ammira “l’assoluto, estremo ordine della testa di don Andrea”. (Dal sopralluogo verrà fuori uno straordinario interessante documentario,‘Itinerari evangelici in Palestina’). Stringerà una forte cordiale amicizia con questo prete (gli chiederà aiuto e consulenza anche per il film ‘Uccellacci e uccellini’) tanto che quando questi morirà improvvisamente nel febbraio 1969, Pasolini interrompe la lavorazione di un film per correre a rendere omaggio alla salma del suo grande amico e fidato consulente.
La produzione del “Vangelo” parte tra grandi difficoltà economiche e resistenze ideologiche.
Don Giovanni e la Pro Civitate Christiana – consci del rischio dell’impresa in cui si sentono coinvolti per aiutare Pasolini – supportano l’impegno di verifica del testo e della sceneggiatura, avvalendosi di prestigiosi nomi del campo biblico e teologico.
L’opposizione al progetto da parte dell’ambiente cinematografico e creditizio è palese; le polemiche anche in seno alle istituzioni ecclesiastiche non sono trascurabili, le resistenze furono fortissime (del resto non si può dimenticare il clima culturale e sociale di quegli anni, e nella Chiesa non era ancora arrivato il soffio dello Spirito conciliare). E poi il marchio che bollava inesorabilmente il regista era di essere marxista, ateo e omosessuale. Anche per la nostra Comunità furono tempi duri, contrastati, perigliosi: va bene essere aperti agli atei e ai comunisti, ma a un omosessuale era troppo! Molti amici ci contestarono o ci abbandonarono; la nostra rivista ‘Rocca’ fu boicottata.
Ma, nonostante tutto, il film arriva in porto. Viene presentato al XXV Festival di Venezia e proiettato il 4 settembre 1964. Ottiene vari riconoscimenti, tra cui il prestigioso premio OCIC (Office Catholique International du Cinéma) con questa motivazione: “…per aver espresso in immagini di un’autentica dignità estetica le parti essenziali del sacro testo. L’autore – senza rinunciare alla propria ideologia – ha tradotto fedelmente, con una semplicità e una densità umana talvolta assai commoventi, il messaggio sociale del Vangelo – in particolare l’amore per i poveri e gli oppressi – rispettando sufficientemente la dimensione divina di Cristo”. Successivamente riceverà anche il ‘Grand Prix OCIC’ (assegnato al film giudicato migliore tra quelli che avevano ricevuto il premio OCIC nei vari festivals dell’anno). Recentemente, in una classifica cattolica in cui si segnalano i 10 films più religiosi del secolo XX, il “Vangelo secondo Matteo” occupa il primo posto!
Per noi della Pro Civitate Christiana, che avevamo dovuto reggere momenti, forse i più difficili della nostra vita, fu una grande gioia e soddisfazione.
Don Giovanni, sommamente felice, si congratula con Pier Paolo e arriva ad augurargli: “Gesù la ricompensi e ripeta anche a Lei con la sua divina grazia l’invito rivolto a Levi sulla porta di Cafarnao! E divenne S. Matteo, un dono di Dio”. Lui accoglie l’augurio e con humour risponde: “E’ con animo già consolato che ricevo la sua lettera, al mio posto di gabelliere…”.
Pasolini ama tornare più volte in Cittadella perché afferma: “la porta è sempre aperta a gente come me”. Scriverà un giorno all’amico Caruso: “La mia vita è il contrario della vostra, benché la vostra sia in fondo il mio ideale”.
Ricordo che a un convegno di scrittori fece una riflessione originale, che mi colpì molto. “Il Vangelo parla dei Magi che partirono e arrivarono; ma non parla di chi è partito e non è ancora arrivato”. Alludeva a se stesso ?!
Forse, il momento più bello e significativo, vissuto da Pier Paolo, fu il Natale 1964, quando venne a viverlo con noi insieme a mamma Susanna (colei che nel film impersona Maria ai piedi della Croce). Ebbe un incontro con don Giovanni prima della messa di mezzanotte, celebrata nella nostra suggestiva cappella, impreziosita di opere d’arte. Non si sa che cosa si dissero. E’ certo però che, due giorni dopo, scrisse la lettera (che per me è stupenda: commovente capolavoro letterario e spirituale), cui don Giovanni risponderà: “E’ stato il più bel regalo che tu potevi farmi”.
“Caro don Giovanni, La ringrazio tanto per le sue parole della notte di Natale: sono state il segno di una vera e profonda amicizia, non c’è nulla di più generoso che il reale interesse per un’anima altrui. Io non ho nulla da darle per ricompensarla: non ci si può sdebitare di un dono che per sua natura non richiede di essere ricambiato. Ma io ricorderò sempre il suo cuore di quella notte. Quanto ai miei peccati…
…Sono ‘bloccato’, caro don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere. La mia volontà e l’altrui sono impotenti. E questo posso dirlo solo oggettivandomi, e guardandomi dal suo punto di vista. Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita, o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio.
La ringrazio ancora, con tutto l’affetto, suo Pier Paolo Pasolini”.
Certo la morte di Pasolini arriva improvvisa, terribilmente violenta e drammatica, il 2 novembre 1975: esattamente sette giorni dopo la morte di don Giovanni.
A me piace pensare che Pier Paolo negli ultimi attimi della sua vita, quando il suo capo veniva sbattuto sulla polvere e sulle pietre del selciato, abbia rivisto nei suoi occhi quella dolce immagine di don Giovanni che “lassù, contro la ringhiera del giardino, lo chiama e lo saluta”. Lo saluta e lo chiama, questa volta, per farlo entrare finalmente e “per sempre sulla terra di Dio”, di quel Dio ricco di grazia e di misericordia che gli era stato annunciato nella notte di Natale del 1964.
Marco Marchini, novarese, è stato impegnato nelle associazioni giovanili cattoliche, divenendo Presidente cittadino della GIAC. Laureatosi in ingegneria industriale presso il Politecnico di Torino, nel luglio 1955 decise di partire per Assisi, entrando a far parte della Pro Civitate Christiana, una Associazione laicale fondata da don Giovanni Rossi che ha il suo centro culturale e dialogico nella "Cittadella", di cui è stato per anni direttore. Nel luglio 2001 è stato eletto, a unanimità, Presidente della Associazione.
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