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Alle volte è dentro di noi qualcosa
(che tu sai bene, perché è la poesia)
qualcosa di buio in cui si fa luminosa
la vita: un pianto interno, una nostalgia
gonfia di asciutte, pure lacrime.
Camminando per questa poverissima via
di Casarola, destinata al buio, agli acri
crepuscoli dei cristiani inverni,
ecco farsi, in quel pianto, sacri
i più comuni, i più inutili, i più inermi
aspetti della vita: quattro case
di pietra di montagna, con gli interni
neri di sterile miseria – una frase
sola sospesa nella triste aria,
secco odore di stalla, sulla base
del gelo mai estinto – e, onoraria,
timida, l’estate: l’estate, con i corpi
sublimi dei castagni, qui fitti, là rari,
disposti sulle chine – come storpi
o giganti – dalla sola Bellezza.
(…)
La Guinea… polvere pugliese o poltiglia
Padana, riconoscibile a una fantasia
così attaccata alla terra, alla famiglia,
com’è la tua, e com’è anche la mia:
li ho visti, nel Kenia, quei colori
senza mezza tinta, senza ironia,
viola, verdi, verdazzurri, azzurri, ori,
ma non profusi, anzi, scarsi, avari,
accesi qua e là, tra vuoti e odori
inesplicabili, sopra polveri d’alveari
roventi… Il viola è una piccola sottana,
il verde è una striscia sui dorsali
neri d’una vecchia, il verdazzurro una strana
forma di frutto, sopra una cassetta,
l’azzurro, qualche foglia di savana,
intrecciata, l’oro una maglietta
di un ragazzo nero dal grembo potente.
Altro colpo di pollice ha la Bellezza:
modella altri zigomi, si risente
in altre fronti, disegna altre nuche.Ma la Bellezza è Bellezza, e non mente.
da La Guinea, in Poesia in forma di rosa)
I sogni del mattino: quando
il sole già regna,
in una maturità
che sa solo il venditore ambulante,
che da molte ore cammina per le strade
con una barba di malato
sulle grinze
della sua povera gioventù:
quando il sole regna
su reami di verdure già calde, su tende
stanche, su folle
sanno già oscuramente di miseria
– e già centinaia di tram sono andati e tornati
per le rotaie dei viali che circondano la città,
inesprimibilmente profumati,
i sogni delle dieci del mattino,
nel dormente, solo,
come un pellegrino nella sua cuccia,
uno sconosciuto cadavere
– appaiono in lucidi caratteri greci,
e, nella semplice sacralità di due tre sillabe,
piene, appunto, del biancore del sole trionfante –
divinano una realtà,
maturata nel profondo e ora già matura, come il sole,
a essere goduta, o a fare paura.
(da Le belle bandiere, in Poesia in forma di rosa)
Così mi salvo, torno a Roma con l’idea
di essere finito: ossia di aver compiuto
la mia funzione. In ogni campo
mona katèudo, e ora tocca ad altri.
(Lo dico col dolore con cui si muore.)
Destituito di autorità, autore
non più indispensabile, carico
di poesia e non più poeta
(…)
Come la condizione della giovinezza
ha distrutto se stessa, così la condizione
della poesia ha distrutto la poesia.
Michelangelo vecchio, cerco qualcosa
da cui la ricerca di stile mi ha tenuto lontano…
Reduce dai cessi di Messina, dalle casbah di Catania,
così, trascino con me la morte nella vita.
Torno, ritrovo il fenomeno della fuga
del capitale, l’epifenomeno (infimo)
dell’avanguardia. La polizia tributaria
(quasi accertamento filosofico
sugli incartamenti di un poeta),
fruga in quel fatto privato che sono i soldi,
contaminati di carità, dolenti
di inspiegabili consunzioni, e pieni
di senso di colpa, come il corpo da ragazzi:
però con mia gongolante leggerezza perché qua,
non c’è da accertare nulla, se non la mia ingenuità.
Torno, e trovo milioni di uomini occupati
soltanto a vivere come barbari discesi
da poco su una terra felice, estranei
ad essa, e suoi possessori, Così nella vigilia
della preistoria che a tutto ciò darà senso,
riprendo a Roma le mie abitudini
di bestia ferita, che guarda negli occhi,
godendo del morire, i suoi feritori…
Torno… e una sera il mondo è nuovo,
una sera in cui non accade nulla – solo
corro in macchina – e guardo in fondo
all’azzurro le case del Prenestino –
le guardo, non me ne accorgo, e invece
quest’immagine di case popolari
dentro l’azzurro della sera, deve
restarmi come un’immagine del mondo
(davvero chiedono gli uomini altro che vivere?)
case qui piccole, muffite, di crosta bianca,
là alte, quasi palazzi, isole color terra,
nel fumo galleggianti che le fa stupende,
sopra vuoti di strade infossate, non finite,
nel fango, sterri abbandonati, e resti
d’orti con le loro siepi – tutto tacendo
come per notturna pace, nel giorno. E gli uomini
che vivono in quest’ora al Prenestino
sono affogati anch’essi in quelle strie
sognanti di celeste con sognanti lumi
– quasi in un crepuscolo che mai
si debba fare notte – quasi consci,
in attesa di un tram, alle finestre,
che l’ora vera dell’uomo è l’agonia –
e lieti, quasi, di ciò, coi loro piccoli.
i loro guai, la loro eterna sera –
ah, grazia esistenziale degli uomini,
vita che si svolge, solo, come vera,
in un paesaggio dove ogni corpo è solo
una realtà lontana, un povero innocente.
(da L’alba meridionale, in Poesia in forma di rosa)
Egli, che prende tutte le sue decisioni
talvolta non distinguendosi da me talvolta sì,
e che io interrogo direttamente per fare ciò ch’egli vuole
e se non l’interrogo vuol dire che l’obbedisco senza interrogarlo
ha forse stabilito che come un neonato
capace di uccidere io per natura innocente,
e così, col cuore separato di un bambino,
di questo mondo, di questa storia vivo lo strettamente necessario,
e in questo da lui mi distinguo che pare
non sapere cosa significa fine,
essendo così lontane le fonti dei calcoli
che determinano le sue decisioni; preesistendomi, dunque,
e destinato a sopravvivermi
mi lascia come obolo da pagare questo contorcermi
agli scossoni che a intervalli regolari,
come mestruazioni, mi gettano a terra,
e mi fa pagare l’obolo di fisicità reale
l’innocenza che oppongo, per natura, per diritto,
alle notizie che si preparano per me
in quella zona della realtà
da cui egli trae origine e vita,
e da cui incombono inevitabili, quasi liberazioni,
le notizie false che la radio dirama,
per esempio suicidi inventati, tragedie già avvenute
che lasciano impotenti e curiosi, pensando
alla salvezza che verrà dopo (pensando
che ci saranno altre Novità) ma egli ha tutto predisposto
perché ogni scotto sia pagato, e vere o false che siano le notizie
vadano vissute fino alla fine,
perché l’innocente sia sorpreso dalla sua colpa,
l’imprevidenza dalla sua preveggenza,
e le cose mostrino il dolore
che è nella schiena della bestia che fugge.
(Appunto per uno sproloquio, in Trasumanar e organizzar)
La sequenza fa parte del testo scenico di Marco Marchi “E scrissi subito dei versi” (I prati bianchi). |