|
Dovevo avere quindici anni, quindici anni solitari e disponibili a qualsiasi avventura, occupati per intero dall’incanto dell’opera, dalla verità immediata e difficile insieme del melodramma,quando ho visto per la prima volta il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, ed il suo nome da astratto si è ficcato da allora dietro ogni mio concreto almanaccare di pensieri; confuso e gestuale lo ammetto, in quell’adolescenziale, mimetica ansia di identificazioni con cui il nostro io si affaccia alla vita storica.
Doveva essere proprio il 1975, il novembre di quell’anno, e per la sua morte la televisione trasmetteva proprio il Vangelo. Tutto si confonde nella costituzione di un mito che cerco di spiegare in primo luogo a me stesso, come per illudermi di venire a capo del mio modo di entrare nella poesia: lentamente, faticosamente, per accumulo di voci, figure che quasi mai avevano a che vedere in modo diretto, circoscritto col fatto di scrivere una poesia fatta di versi riconoscibili, ma che di sicuro ne amplificano la semantica fino a comprenderne musica, pittura, teatro, nel segno di uno sguardo ‘en poète’ che però tutto coinvolgesse.
Tutto questo non lo sapevo allora; so adesso che fui folgorato in pieno, che da allora decisi di diventare ‘come lui’, ignorando quello che voleva dire tutto questo. La geniale spudoratezza con cui la madre era stata chiamata ad impersonare la madonna ai piedi della croce mescolava potenza della metafora e scandalo di una parola “diretta”, manierismo e gestualità, adesso lo posso dire guardando nella lontananza di quella mia adolescenza furiosa e chiara.
Quel film lasciava poco spazio al dubbio che inchiodato era proprio lui, che la poesia, quella cosa che non sapevo veramente cosa fosse e che fino ad allora non avevo vissuto che in forma di sterile ossequio esteriore, rimanendone sostanzialmente immune, la poesia era questo scandalo del presentarsi nuda e sontuosa insieme, folgorante e prensile, da afferrarsi con celestiale imprudenza, in quell’arruffato, impaziente farsi di una costellazione mitica che dura, mutando forme e modi, ancora oggi che tanta acqua ha visto passare sotto i ponti. Fin dall’inizio la poesia mi si presentava indossando quindi altre vesti, passava dagli occhi e dagli orecchi, con la musica di Bach, e i canti degli spiritual; non bastava a se stessa, e non si acquietava nel genere appunto.
Manca sempre qualcosa, dirà Pasolini stesso in una poesia scritta proprio negli anni del Vangelo, una poesia che voglio citare per intero, tanto mi sembra importante nel descrivere esemplarmente quell’adorazione-mancanza che ha sempre portato Pasolini a privilegiare la poesia e i suoi strumenti, vivendo modernamente lo scacco che la costituisce. L’alba meridionale da Poesia in forma di rosa: ”Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto / in ogni mio intuire. Ed è volgare, / questo non essere completo, è volgare, / mai fui così volgare come in questa ansia, / questo ‘non avere Cristo’ – una faccia / che sia strumento di un lavoro non tutto / perduto nel puro intuire in solitudine, / amore con se stessi senza altro interesse / che l’amore, lo stile, quello che confonde / il sole, il sole vero, il sole ferocemente antico / – sui dorsi d’elefante dei castelli barbarici, / sulle casupole del Meridione – col sole / della pellicola, pastoso sgranato grigio / biancore da macero, e controtipato, controtipato, / il sole sublime che sta nella memoria, / con altrettanta fisicità che nell’ora / in cui è alto, e va nel cielo, verso / interminabili tramonti di paesi miseri…”.
L’”effetto di autentico”, si potrebbe dire, che sigla ogni testo artistico, è proprio la catastrofe verso cui va a sbattere la dannazione dello Stile in Pasolini, dannazione che porta tutta la responsabilità di quel sanguinante, mostruoso monumento, di quell’emorragia di scrittura genialmente smaniosa e inquieta, chiusa una volta per tutte dalla storica edizione curata da Walter Siti nei Meridiani Mondadori di Tutte le Opere. Il senso di una tensione irresistibile all’assolutezza della Poesia ha sempre convissuto in Pasolini con la sua vocazione altrettanto violenta allo sgraffio e alla dissacrazione religiosa, testimonianza del senso di una irrequietezza espressiva che non si accontentava dell’autosufficienza di un genere in se concluso.
Quando ho cominciato a usare i versi della poesia, avevo letto già tutto il leggibile di Pasolini, avevo attraversato con ingordigia l’universo dei segni barthesianamente disposti come traccie di un percorso di piacere del testo, ma anche di una fortiniana chiusa sua insufficienza, o meglio contrasto fra esigenza di una prigione, o gabbia metricamente in sé chiusa, e quanto resta fuori.
Sentivo come l’esigenza di un rigore speso a sottolineare la mancanza continua di “sempre altro”. Tra consapevolezza acerba e lacerante di avere a che fare con la prigione di una convenzione, e desiderio di prendere parte ad un discorso “sulla realtà” dal valore anzitutto pratico; tra manieristico furor di riscrittura dei grandi capolavori del passato, ed ansia performativa che metabolizzava la parola nel puro gesto di una “dizione orale”,che per me si configurava come il reading, mi trovavo come stretto nel contrasto, ossimoro, che trovavo così vivo in Pasolini, evidente fino allo squartamento in atto nei capolavori terminali da poco venuti alla luce: gli anni novanta di Petrolio, il potente, rabbioso e disperato manierismo dell’Hobby del sonetto, più di cento componimenti dedicati all’amore finito con Ninetto, scritti durante la lavorazione dei Racconti di Canterbury in Inghilterra: “Non posso più – con la crudeltà / che chi ama non perdona a chi lo ama – / ma che il mondo comprende – obbligarvi / a scegliere: o lei o me. Infatti ormai // avete scelto. Sento un’inspiegabile pietà / per quel vostro nuovo vivere: la mia anima / forse, cieca ma astuta, rovescia le parti / e si strugge per voi, per la vostra libertà, // invece che per se stessa. E’ vero / che voi siete e vi sentite impari / a quella libertà, voi, povero uomo del cielo. // Ma ciò che vi aspetta è l’universo / a cui eravate nato: e nei vostri occhi ignari / si vede che non potete impunemente averlo perso.” (Hobby del sonetto, 44).
Forse, mi dico, viene da qui il mio perenne andirivieni da un ascetismo artigianale delle forme, traccie di un passato che continua fino a noi nel tentativo di “strappare ai tradizionalisti il monopolio della tradizione”, all’idea invece, solo apparentemente opposta, di un farsi materiale della poesia proprio nel momento in cui viene pronunciata, detta. Ecco un mio sonetto inedito:
e prego il mio cuore di compatirmi
ancora, di resistere al dolore
del mio tendere sfinito a sfinirmi,
nella ricerca dell’estremo fiore
che mi accompagna ormai; e più non dirmi
che non devo dissolvere, mio cuore,
non lasciarmi illuso del mio coprirmi
in nome ed in cognome, disonore
del tempo e dei sicari che ci restano
e camminano alle spalle, sicuri
ormai del loro ufficio, mentre affrettano
le ore i minuti i giorni i mesi scuri
a succhiarmi le goccie della vita
piano piano a fugarla – calamita
Scavavo, ripeto non sapendolo ancora, una cava o cella, situata fra calco manierista e ansia di performer, fra parola e gesto si potrebbe dire. Ora lo si può ammettere senza arrossire: D’Annunzio è molto meno lontano di quanto si creda, o si ami credere, anche in Pasolini, e non solo riguardo alle splendide campiture delle giovani poesie friulane e alle loro impostate vocalità romanze, ai languori falsettistici dell’Usignolo della chiesa cattolica, ma anche riguardo alla tensione gestuale che, soprattutto da metà anni sessanta con la pubblicazione di Poesia in forma di rosa, o alla geniale riscrittura della Nuova gioventù, segna la sua ultima stagione creativa.
A Fortini e Pasolini
“aveva torto, non avevo ragione”.
La deriva argentina del paese,
lo sperpero di napalm nelle guerre
che acciecano, dànno ragione
ai vostri torti, alle vostre non ragioni.
Là si traffica in morti, nel silenzio,
nell’oscurante ferocia dei media.
E tutto questo coro di consensi
post-mortem, a chi giova,
se non a coltivare nella giostra
della menzogna, il dire, il fare;
e tu, invisibile ormai come il vero
pietoso e duro della poesia
non avevi ragione, ma avevamo torto.
Il farsi nume del tuo nome
conservi almeno il segno delle cose,
l’eretico disegno delle rose
in forma di poesia;
sfrattato dalla storia io come te,
non cerco identificazione che non sia
la pietà di un giardino,
un buio cinema da me staccato
e vivo di sua vita,
come spaccato taglio di ferita.
Giacomo Trinci è nato a Pistoia nel 1960. Ha pubblicato le raccolte di versi Cella (Pananti, 1994), Voci dal sottosuolo (L’Obliquo, 1996), Telemachia (Marsilio, 1999), Resto di me (Aragno, 2001), Autobiografia di un burattino (Fondazione Nazionale Carlo Collodi-Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, 2004). Collabora a “Alias”, “Stilos” e “Antologia Vieusseux”. Ha tradotto Adonis, Agrippa d’Aubigné e Suor Juana de la Cruz. Ha preso parte con una serie di versioni poetiche al volume della “Biblioteca di Repubblica” Poesia Araba a cura di Francesca Corrao (2004). |