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Racconti di Arturo Loria
Memorie di fatti inventati. Racconti editi e inediti,
a cura di F. Celli Olivagnoli, Firenze, Ponte alle Grazie,
1989.
La scuola di ballo, a cura di R. Carbone, Palermo,
Sellerio, 1989.
Il falco, l’aquila, a cura di M. Marchi,
Siena, Edizioni di Barbablù, 1992.
Il cieco e la Bellona, a cura di L. Baldacci,
Firenze, Giunti, 1996.
Fannias Ventosca, a cura di L. Baldacci, Firenze,
Giunti, 1997.
Il compagno dormente, a cura di L. Baldacci,
Firenze, Giunti, 1998.
Studi su Arturo Loria
F. Celli Olivagnoli, Avventure personali. Biografia
di Arturo Loria attraverso gli scritti, Firenze,
Ponte alle Grazie, 1990.
Arturo Loria. Mostra di documenti, Catalogo della
mostra, Carpi 8-31 maggio 1992, a cura di M. Marchi,
con la collaborazione di S. Loria e L. Melosi, Casalecchio
di Reno (Bologna), Grafis, 1992.
L’opera di Arturo Loria, Atti del convegno,
Firenze 21-23 febbraio 1991, a cura di R. Guerricchio,
Impruneta (Firenze), Festina Lente, 1993 (interventi
di L. Baldacci, R. Guerricchio, E. Pellegrini, M. Marchi,
G. Tellini, R. Scrivano, L. Lapini, G: Gramigna, A.
Biondi, M. David, F. Celli Olivagnoli e G. Manghetti).
La zona dolente. Studi su Arturo Loria, Atti del
convegno, Carpi 8-9 maggio 1992, a cura di M. Marchi,
Firenze, Giunti, 1996. (interventi di G. Zampa, R. Barbolini,
G. Barberi Squarotti, F. Celli Olivagnoli, R. Scrivano,
M. David, S. Loria, E. Pellegrini, M. Marchi, S. Perrella
e R. Guerricchio)
E. Pellegrini, La riserva ebraica. Il mondo fantastico
di Arturo Loria, con un saggio di G. Fink, Reggio
Emilia, Diabasis, 1998.
N. Mainardi, Il caso Loria. Storia e antologia della
critica, introduzione di M. Marchi, Firenze, Giunti,
1998.
I mondi di Loria. Immagini e documenti, Catalogo
della mostra, Carpi 19 ottobre-17 novembre 2002
e Firenze 23-30 novembre 2002, a cura di M. Marchi,
Firenze, Scala, 2002.
I mondi di Loria. Studi e testimonianze, Atti della
giornata di studi, Carpi 19 ottobre 2002, con un’appendice
fiorentina a cura di M. Marchi, Pisa, Edizioni ETS,
2004 (interventi di M. Luzi, M. Marchi, F. La Cecla,
A. Prete, L. Melandri, G. Conti, S. Tomasi, D. Cancellieri,
S. Carrai, S. Loria, G. Gozzini, S, Bonsanti, L. Barile
e M. De Santis).
S. Baggio, Prezioso e dimesso. La lingua di Arturo
Loria al tempo di «Solaria», Trento,
Università di Trento, 2004.
Sei antichi giudizi critici
Dalla Secchia alla Marfisa, si fa
buon cammino verso una qualità di lunatica astrazione,
verso un gusto mescolato di sordido e di fantastico,
e verso un’estetica di stracci appesi ai raggi
della luna: quell’estetica che più arditamente
si esprime in seppie e guazzi del Tiepolo, con zingare,
mascherotti a conciliabolo, gufi appollaiati su un ramo
d’abete, e una delle sette vacche magre spersa
nel paesaggio pelato. Aggiungiamo la novella picaresca;
ma ridotta dal Loria a minor torbidità e nerezza
di sangue. Qualche eco dei cantastorie da fiera, e della
poesia de’ carcerati. Si arriverebbe così,
quasi senza accorgersene, a includere l’«ottocento»
del Longanesi.
Emilio Cecchi, 1929
Cerchi il lettore La scuola di ballo, ventitreesimo
volume della sempre giovane «Solaria», e
lo legga senza prevenzioni. Non ci troverà solo
due racconti di primissimo ordine, come La serra
e La scuola di ballo; ci troverà
un mondo umano, pietoso e insolitamente virile, pittoresco
senza folclore, robusto senza ostentazioni. Scoprirà
pure – fatto anche più strano – un
disprezzo assoluto per le formule, gli astrattismi e
le intenzioni che restano tali.
Novecentesco, Arturo Loria è per la qualità
ferma, definita, del suo patetico; ma a lui chiedereste
invano i «tics», gli annebbiamenti, le torbide
complicità. Dove cade, cade per le difficoltà
della materia o per l’indomito ardimento che gli
fa varcare il segno. Ma il cuore è sempre fermo
in lui; ed è quel cuore che ben conoscono gli
amici e che dovrà portarlo lontano.
Eugenio Montale, 1933
È difficile, oggi, formarsi un’idea di
che cosa possano aver rappresentato i racconti di Loria
a chi gli fu più o meno coetaneo, animato degli
stessi sogni e delle stesse speranze. Ma se ci attardiamo,
anche solo un istante, su quel momento, vedremo come
la situazione della nostra narrativa fosse della più
estrema indigenza. Sparito Verga, e del resto male amato,
ignoto Tozzi, gli epigoni dannunziani e i salottieri
imitatori del Bourget tenevano la piazza. Al di fuori,
l’America rappresentata da Dreyser, Joyce non
aveva ancora pubblicato Ulisse, e Gide, solo
in quel punto, Les Faux Monnayeurs. I nostri
scrittori nuovi del dopoguerra, di poco più anziani,
parevano tendere a preferenza verso una letteratura
soggettiva, che ancora mantenesse fede ad alcune esperienze
letterarie della Voce, e di esili movimenti
più recenti. Loria spalancò una porta.
Alessandro Bonsanti, 1957
Il decadentismo di Loria è tutto imperniato in
una sua riprova angosciosa dei miti stessi del decadentismo;
è appunto un decadentismo maturo e cosciente
(come sarà quello di Tennessee Williams) che
non sa più prestare una larva di bellezza ai
cenci o alle parrucche di Basiliola, ma che in ogni
simulacro della bellezza non può fare a meno
di vedere, in un ritorno di disperato e stanco dubbio
romantico, la polvere, gli abiti scenici, i cosmetici
delle eroine dannunziane; finché in un giuoco
di perenne reversibilità fra realtà e
mascheratura, quella stessa deturpazione si ricompone
in idea di bellezza.
Si è detto che nell’ultima raccolta, La
scuola di ballo, abbandonate del tutto le leggende
romantiche, c’è un senso più scoperto
della vita, con sempre tuttavia la stessa mistione di
realtà e di simbolo, e il simbolo è, dialetticamente
opposto al desiderio di amare, la larva di una vecchiezza,
un memento mori, una «stanchezza di essere»
implicita in tutte le cose.
Luigi Baldacci, 1957
Quando si raccoglieranno tutti i testimoni delle sue
conversazioni, si penetrerà meglio il segreto
del suo tacito sacrificio al tempo e all’uomo
del tempo che egli coltivava in sé, si scorgerà
il punto congruente e finale delle sue sperimentazioni
giustapposte: il prezioso gioco psicologico del settecento
goldoniano e l’afflato del neorealismo favolistico,
l’intatta memoria della città rinascimentale
fiorentina…
Oreste Macrì, 1957
Se rileggiamo l’attacco de La tromba,
la prima novella del volume Il cieco e la Bellona,
ritroviamo intatti, allo stato puro, quasi simbolici
nella loro carica proemiale, i lineamenti torpidi e
grigi di questa fantomatica pianura; nel «fango
della pianura», nelle «carreggiate acquitrinose»,
nel «tempo da ranocchi», in tante coloriture
macerate e sfatte della Bassa, cresce la plastica e
allusiva solitudine, lo scorcio mitico che partendo
da un luogo d’origine, da questa Carpi solariana,
Carpi come un’infanzia, costruisce un pezzo dopo
l’altro i fondali elementari di un mondo grottesco
e sentimentale, dove l’aria di paese torna a ristagnare
tra fumosa e vetusta, sacra insieme e soffocante.
Ancora la pianura, e ancora Carpi come un’infanzia,
la stessa città del silenzio, possiamo captare
nel dispositivo di parecchie novelle, nella Tromba
come nel Registro, nel Tesoro come
nel Racconto d’autunno. Immagini, memorie
moltiplicate di una medesima città, che seguita
a ripetersi, cinta di vecchie pareti, con le case miserevoli
e basse, il quadrilatero delle mura rossastre macchiate
di edere e capperi ricascanti, in mezzo agli spalmi
di melma, all’acqua ferma, agli incolti che fioriscono
tristi e sabbiosi sotto la cerchia. Per questo chi ha
parlato di centro locale, fantomatico eppure familiare,
di tetra fiaba e di ancestrale richiamo, ha avuto mano
felice.
Renato Bertacchini, 1960
(da Arturo Loria. Carpi, Firenze e dintorni. Fotografie
di Valerio Rebecchi, testi di Marco Marchi, Fondazione
Fossoli e Comune di Carpi, 2002; con aggiornamento bibliografico)
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