|

1. Le principesse prigioniere
Lo spirito di Camilla aleggiava sulle stanze. E anche
quello di Giulia, se è per questo.
Non che fossero Dio - una specie di Dio a due teste,
eventualmente. Ma erano rinchiuse là dentro da
così gran tempo che la realtà esterna
si era indebolita. Uscivano solo per andare in taxi
agli incontri culturali del giovedì, dove peraltro
la maggior parte della gente dormiva.
Erano due donne splendide, delicate, riccamente vestite.
Due signore di antica bellezza. Principesse prigioniere
del tempo.
Il tempo stinge, scherzava sempre Camilla con quel sorrisetto.
E in effetti la loro pelle con gli anni si era fatta
grigia. Ma c’è grigio e grigio, e il loro
era un grigio perla.
Vivevano nel lussuoso appartamento al primo piano, dominato
dalla mente di Camilla, che determinava un ordine perfetto.
Dentro, a parte alcuni divani coperti dai lenzuoli per
non fargli prendere la polvere, era tutto molto bello
e armonioso, lasciava pensare a una vita degna di essere
vissuta, o perlomeno ne suscitava il ricordo.
Fuori, le porte e le finestre erano blindate, sembravano
attrezzate per respingere un attacco dei narcotrafficanti
colombiani. Tutta quella corazza di sbarre e allarmi
regalava un tocco di modernità.
Al piano di sotto invece divampava il caos, e quello
era il regno di Giulia.
Anche se, dopo tanto tempo insieme, a volte le due personalità
si confondevano.
Può anche darsi che non fossero poi così
vecchie, ma anni di clausura in due non passano invano.
Non rispondevano mai al telefono, per nessuna ragione.
A meno che non si trattasse delle telefonate di Piero,
che erano annunciate da un segnale concordato.
Erano andate avanti così per molto tempo. Chiuse
là dentro, a parte i giovedì, giorno in
cui per due ore sognavano altrove.
Ora però era successo qualcosa che poteva ucciderle
o stanarle: Piero era morto.
Sì.
Per quanto fosse più giovane di loro. Ed era
su di lui che avevano sempre contato per i rifornimenti
di pozione magica e quindi una serena vecchiaia.
E invece no.
Stavano lì, nel salotto, annichilite. Le sbarre
alla finestra facevano passare il sole pulviscolare
di fine gennaio come luce tra gli alberi.
Sono sempre i migliori che se ne vanno, disse Camilla,
ma dove vanno?
Non poteva fare a meno di scherzare. Ma non è
che si divertisse più di tanto, erano solo le
vestigia di un’antica civiltà che uscivano
dalla sua bocca, balzando via dal rossetto leggero,
una civiltà a volte giocosa a volte cinica. Giulia
vide che la sua amica di sempre stava quasi per piangere.
D’altra parte, anche Giulia stava quasi per piangere.
Con Piero, se ne andava l’ultimo pezzo della vita
di un tempo.
Giulia guardò la crepa nella carta da parati.
Recitò a memoria:
“Chi fabbrica una fortezza
attorno a sé s’illude
come ogni notte chi chiude
a doppia mandata la porta” .
Con tutto quello che abbiamo speso per l’allarme!
rispose Camilla.
A parte queste loro tipiche schermaglie, in cui una
faceva finta di scherzare e l’altra citava poesie,
c’era una cosa che sapevano tutte e due: più
che altro la dipartita di Piero poneva dei problemi
pratici.
Dopo una decina di minuti di silenzio Camilla osò
affrontare la questione:
Come facciamo a trovare un sostituto?
Dobbiamo andare fuori a cercare, sparò Giulia.
E appena ebbe pronunciato queste parole le mancò
il respiro: si rese conto dell’enormità
di quello che aveva detto.
Perché ormai da anni la verità che non
osavano confessare era semplice: avevano paura di uscire.
Al massimo ogni tanto facevano capolino in cortile.
Il cortile era così piccolo che era un po’
impegnativo chiamarlo cortile, più che altro
era una specie di pozzo. Vi si accedeva da due porticine
nell’appartamento al piano terra.
E poi una cosa era prendere un taxi il giovedì
sera per sedersi tra coetanei addormentati. Un altro
avventurarsi nella città selvaggia, ormai irriconoscibile,
sconosciuta, alla ricerca di un sostituto di Piero.
Ma cosa dici, sei impazzita? disse Camilla, scandalizzata.
Come puoi pretendere che due signore facciano una cosa
simile? Andare in giro come ragazzine!
Eppure Giulia colse un bagliore negli occhi di Camilla,
dietro il velo di lacrime. Un bagliore che conosceva
bene, e rivedeva dopo tanto tempo. Volle credere che
fosse la stessa eccitazione che sentiva lei, dietro
il dolore e la paura. Il desiderio di azione.
Non abbiamo scelta: dobbiamo uscire.
Prima che il gioco resti, commentò Camilla.
Dopo una vita insieme, Giulia non era ancora riuscita
a decifrare del tutto il senso delle cosiddette frasi
fiorentine di Camilla, a volte le usava in un modo tutto
suo. Ma quello doveva essere un sì.
Un’onda di emozione le attraversò. Non
avrebbero saputo dire se era speranza o sgomento. Stava
iniziando una nuova avventura.
2. L’orco
Suonò il campanello, era il suono prepotente
di Emiliano.
Insisteva, come se fossero sorde.
E’ l’ora del pranzo, disse Camilla con un
velo di debolezza nella voce. Ormai non c’era
verso: Emiliano veniva quando gli pareva, a orari diversi,
spesso assurdi, imponeva lui l’ora del pranzo.
Si parlava tanto delle giovani dell’Est schiave
del racket della prostituzione, ma, a parte che quelle
erano comunque assolutamente puttane, non si parlava
mai delle mature nobildonne schiave dei rosticcieri.
Aprirono il portone corazzato.
La testa rossa dell’orco emerse dalla scale, sul
pianerottolo, come un fungo malefico dal sottobosco,
esibiva perfino delle macchie bianche che mutavano con
l’umidità. Poi spuntarono quegli occhi
dall’iride gigantesca, il naso che dilagava sulla
faccia, gli orecchi troppo piccoli. La bocca brutale.
Nell’insieme un bell’uomo.
Portava un sacchetto di plastica pieno di cibo a carissimo
prezzo. Erano cose di lusso: gamberoni e roba del genere.
Alimenti deliziosi, una settimana prima. Ora facevano
schifo. Però il prezzo non era avariato.
L’orco spennava le principesse senza pietà,
e le due non se ne rendevano conto, o non avevano scelta.
I primi tempi, quando Camilla era rimasta vedova e Giulia
era andata a vivere da lei, le due principesse si curavano
molto di più. E’ vero che avevano dovuto
licenziare i domestici, perché non potevano più
permetterseli, avendo calcolato almeno altri dieci lustri
di vita. Però non se la passavano male. Erano
donne vitali, e Giulia cucinava molto bene.
Andavano a fare la spesa personalmente, un’esperienza
nuova che le esaltava. E esaltava anche i negozianti.
Il fruttivendolo, dopo qualche anno, con le zucchine
vendute alle principesse si era comprato una villa ai
Caraibi, così aveva sentito dire Camilla da un’ex
domestica. Ma almeno era roba sana.
Ma a poco a poco, mentre gli amici se ne andavano o
perdevano di interesse, loro si erano ritirate sempre
di più tra le ombre dell’appartamento,
molto più vive e stimolanti: c’erano ricordi
infrangibili, assolutamente veri nel presente. Giulia
passava gran tempo nel caos dell’appartamento
di sotto, al piano terra. Avevano cominciato a farsi
portare la roba a casa. E era andata a finire che il
rosticciere era diventato il loro unico fornitore di
alimenti.
Il fatto che nonostante ciò si fossero mantenute
in buona salute dimostra di quale tempra fossero fatte.
Una tempra d’altri tempi, cara, diceva Giulia.
Il morto è sulla bara, diceva Camilla. Voleva
dire che la cosa era chiarissima.
Tenete, dolci signore, disse l’orco mimando un
inchino grottesco e porgendo la busta di plastica a
Giulia, visto che considerava Camilla la padrona di
casa e Giulia una specie di domestica, o un’amica
di passaggio.
Le due lesbiche, le chiamava, anche se non era vero.
Emiliano sorrise e uno schizzo di saliva piovve nell’occhio
di Giulia: Emiliano riusciva a sputare anche quando
sorrideva.
Grazie, disse Giulia con assurdo entusiasmo, cercava
di ingraziarselo e subito dopo se ne pentiva, perché
sapeva che era inutile, anzi mostrare debolezza peggiorava
la situazione.
L’altro giorno il fritto non era granché,
osò dire Camilla, con il portamento altero di
sempre.
Emiliano si rabbuiò all’istante. Quando
si arrabbiava succedeva una cosa strana, unica nel suo
genere: il naso, che di solito stava spiaccicato su
tutto la faccia, si contraeva, diventava una specie
di ascia.
Ebbero paura. Erano inermi nei confronti di quell’omone
avvezzo a truffare i turisti. Le barriere di classe
che giustamente un tempo proteggevano le persone civili
dai bruti non esistevano più.
Fanno trenta euro, decretò Emiliano senza rispondere
con le parole alla critica sul fritto: stava già
rispondendo con la faccia. Adesso il naso si dilatava
e si arricciava, gli orecchi sporgevano più del
solito, gli occhi si allargavano, i peli delle sopracciglia
si rizzavano come zampe di ragno. Sembrava addirittura
che i denti si piegassero per l’indignazione.
Trenta euro? Balbettò Giulia, era più
del giorno prima. E aprì la busta di plastica
bisunta vedendo che non c’era un granché.
Tra l’altro, un tempo Emiliano presentava i suoi
troiai in cesti di vimini, ora invece anche la busta
di plastica doveva sembrargli troppo.
Ehi signorina, vuoi mangiare o no, disse l’orco,
improvvisamente di buon umore.
Poi indicando il pianoforte che si intravedeva nella
penombra disse: col pianoforte non si mangia, ah ah
ah. Tanto sono i quattrini che fanno girare il mondo.
Gli sembrava una battuta irresistibile, perché
la ripeteva spesso.
Era brutale e confidenziale: doveva esistere un sindacato
dei rosticcieri che gli permetteva di spadroneggiare.
Se ne approfitta per via dell’età, diceva
sempre Camilla. Diceva anche: quando ero giovane i giovani
non contavano nulla, ora che sono i vecchia i vecchi
non contano nulla, c’è qualcosa che non
mi torna, mi hanno imbrogliato, però una signora
resta sempre una signora.
E’ che mi sembravano tanti trenta euro, disse
Giulia a Emiliano, comunque gli consegnò un foglio
da cinquanta euro.
Emiliano lo intascò, “col ventre obeso
e le mani sudate”, come diceva Giulia, e poi rimase
lì. Sembrava una statua di lardo.
Le due principesse avrebbero voluto rientrare e mangiare,
perché comunque la cosa bella era che con l’età
non gli era venuto meno l’appetito.
Ma quello rimaneva lì col grugno alzato, come
un Benito Mussolini della gastronomia.
Lei mi ha dato un foglio da venti euro, disse, con un
sibilo simile a un rutto.
Ma veramente, guardi, sono sicura che erano cinquanta,
intervenne Camilla.
Forse, in quanto “padrona di casa”, il suo
intervento avrebbe avuto maggiore autorevolezza.
Si illudeva ogni volta, da troppo tempo.
Venti euro, ripetè inflessibile Emiliano.
E fu così che il fritto andato a male venne a
costare sessanta euro.
Dopo, erano avvilite per essersi lasciate umiliare ancora
una volta.
Gli ci volle qualche ora per riprendersi. Per fortuna
innaffiavano quei cibi pessimi con gli ottimi vini della
cantina di Ernesto, ancora ne gliene rimanevano. Questi
elisir portavano sempre una ventata di ottimismo.
Decisero che dovevano reagire alla situazione sfavorevole.
Dovevano attenersi al piano stabilito.
Domani andiamo nel grande mondo esterno, disse Giulia.
Inviti la lepre a correre, disse Camilla, ostentando
una sicurezza che non era sicura di provare.
3. Nella città dolente
In Piazza Santa Maria Novella gli spacciatori
stranieri lavoravano con una certa supponenza, come
fosse un’attività che avevano inventato
loro.
Ma cosa si credono questi negri del Marocco, qua si
spacciava già al tempo del Vasari, che infatti
costruì il corridoio vasariano per spacciare
meglio, disse Camilla.
Ma che idioti, a parte che alcuni sono negri albanesi,
ti faccio notare, puntualizzò Giulia.
Così si spostarono in Piazza Santo Spirito, di
cui avevano sentito dire un gran bene.
Le due impeccabili signore stavano lì sulla scalinata
della chiesa e osservavano l’andirivieni delle
persone. In piedi, con portamento altero.
In generale, erano un po’ erano elettrizzate e
un po’ atterrite dalla novità del mondo
esterno. Non sapevano neanche loro quale era la sensazione
prevalente.
Firenze era del tutto trasfigurata, se la guardavi a
altezza d’uomo: banche e negozi di scarpe sventravano
le opere d’arte, irridevano la memoria e imbastardivano
il futuro.
E’ come una bella donna con le gambe svuotate
e riempite di pezzi di plastica, disse Camilla sistemandosi
il cappellino leopardato.
Ma se alzi lo sguardo non è poi così cambiata,
disse Giulia.
Neanche noi, se alzi lo sguardo, disse Camilla con una
grande tenerezza verso se stessa.
La gente poi faceva schifo, una specie di incubo, ma
divertente da guardare.
In realtà avevano parlato ancora, e lungamente,
prima di decidersi a uscire davvero.
Ora che Piero è morto, il telefono non ci basta
più, aveva insistito Giulia.
Forse potremmo provare a chiedere a Emiliano, aveva
detto Camilla, senza crederci.
Ma sei pazza, cara? Rispose Giulia scandalizzata. Non
sarà che hai paura di uscire? La provocò.
Proprio in quel momento Camilla si rese conto che quello
che provava non era propriamente paura. Quella casa
era un serbatoio di ricordi. A Camilla bastava alzare
i lenzuoli che coprivano i divani per tornare quella
che era. Bella, sfolgorante, felice. E i ricordi avevano
una tale potenza, erano così veri.
Per questo le doleva allontanarsi.
Ma si rendeva conto anche lei che la casa non bastava.
Ci voleva anche tutto il resto.
Ma come andremo in giro? Chiese.
Ma in taxi, come vuoi andare! Fu la risposta di Giulia.
Camilla era un po’ perplessa, vista la natura
della missione.
La mole vaporosa di Santo Spirito le sovrastava.
Non me la ricordavo così bella, disse Giulia.
Con quei due rigonfiamenti sembra che stia per spiccare
il volo.
Adesso erano felici di esseri fuori, si sentivano rinascere.
Come certi funghi dell’olmo capaci di rivivere
dopo un prolungato congelamento. Respiravano bene. Sarà
stata la magia del luogo, una grazie dello Spirito Santo.
Ma la gente non era altrettanto bella.
C’era una ragazzina che muoveva passi veloci e
parlava fitto al telefonino, più parlava fitto
più accelerava, con aria di grande importanza.
Muoveva il culo asfittico come l’avesse collegato
alla Telecom.
Sui muri si leggevano scritte grottesche, del tipo:
I nostri cervelli non sono in vendita.
Ma chi li compra, disse Giulia.
Cent’ori, disse Camilla.
Le due principesse guardavano tutti, e non si può
dire che non fossero ricambiate. Sembravano due sfolgoranti
cipree tra ruvide patelle. Tutti osservavano incuriositi
quelle due eleganti signore, bellissime, appena appena
truccate, con dei cappellini miracolosi, impettite sulla
scalinata della Chiesa. Scrutavano piene di speranza
i movimenti dei loschi individui nel buio rossastro
dei lampioni.
Le due erano eccitatissime. Ma dopo un po’ l’eccitazione
cominciò a smorzarsi.
Non erano due persone fuori dal mondo. Erano due persone
che per un lungo periodo avevano messo fuori il mondo.
Prima di autorecludersi ne avevano viste di persone,
avevano una vasta esperienza della vita. Nonostante
le novità sopravvenute durante la reclusione,
sapevano ancora giudicare chi gli stava di fronte.
Non gli davano nessuna fiducia, quei tipi che vagavano
nella piazza. Erano meno tracotanti dei negri di Piazza
Santa Maria Novella, ma non sembravano affidabili.
Secondo te, cara? Chiese Giulia.
Questi qua sono ottimi per rifornirci di tè,
disse Camilla.
In effetti l’aria losca delle ombre che transitavano
nella piazza non era credibile. Erano loschi in modo
troppo curato. Erano drogati finocchi figli di papà,
da grandi - appurato che i loro cervelli non se li comprava
nessuno - si sarebbero dedicati a fare carriera.
Tra l’altro, questi di sicuro sono protetti dalle
forze dell’ordine, altrimenti non potrebbero stare
in questa piazza osservò Giulia, che era sempre
la più concreta delle due. E noi alla nostra
età non possiamo comprometterci, assolutamente.
Eppure io non ne posso più, disse Camilla.
Non fosse stato per la poca luce, si sarebbe visto che
il suo volto cominciava a essere stravolto. Aveva bisogno
della pozione magica: la classe è classe ma anche
la chimica ha le sue ragioni.
Sta’ calma, le intimò Giulia con lo sguardo
del grande condottiero. E recitò ispirata:
“Forse conosceremo noi la piena
felicità dell’onda”.
Con questi versi si riferiva alle sensazioni indotte
dalla pozione magica.
Cara, sei tu la mia droga, disse deliziata Camilla.
Lo so, fu la risposta. Aveva parlato con tono sicuro,
come sempre, per confortare l’amica di due vite.
Ma anche lei segretamente vacillava. Comunque concluse:
cara, per conoscere la piena felicità dell’onda
dobbiamo spostarci da qualche altra parte, qui non raccattiamo
pallino.
Avevano esagerato a fare le sbruffone. Era solo il timore
di non sapere come comportarsi che gli aveva impedito
di intavolare una contrattazione. Di solito Piero pensava
a tutto, faceva arrivare tutto a casa. Un gentiluomo
d’altri tempi. Solo che gli altri tempi se li
portava via il Tempo, era un cannibale.
Proviamo in piazza Dalmazia, aveva detto Giulia, ne
ho sentito dire un gran bene. Ma neanche lì avevano
trovato piena soddisfazione, tutto fumo e poco arrosto,
o era sempre il solito timore che le bloccava.
E così si erano spinte sempre più oltre,
avanti avanti, nella periferia. Avanzavano a piedi nella
città dolente. Casermoni che neanche sapevano
esistessero.
Chi ha potuto fare questo? diceva Camilla stupefatta.
C’è stata un’altra guerra e il nemico
ha costruito invece di distruggere?
Dev’essere una delle famose periferie degradate,
disse Giulia, le ho sentite nominare.
Io non ce la faccio. Dovremmo smettere di cercare, fece
Camilla.
Chi cerca trova e chi non cerca perde, sentenziò
Giulia.
E questo? chiese stupita Camilla, di solito era lei
che tirava fuori frasi così.
Tipico detto fiorentino, le fece il verso Giulia.
Sarà, mai sentito.
Un’ora dopo stavano per risolvere il problema
dell’approvvigionamento.
Lo stradone si srotolava come la scia di una gigantesca
lumaca verso la fine del mondo.
Lo sai dove porta? Chiese Camilla.
Non hai visto il cartello?
E’ che per essere una ragazzina non ci vedo più
tanto bene.
C’era una luna piena come al tempo degli etruschi.
Aspettavano un ragazzo.
Come al primo appuntamento, aveva detto Giulia.
Chissà perché gli era sembrato il tipo
giusto. Intuito femminile, probabilmente.
Questo qua viene a pipa di cocco, aveva detto Camilla.
Cade a fagiolo, aveva fatto eco Giulia.
Gli era sembrato un così bravo ragazzo che, nonostante
la situazione non del tutto legale, non si erano affatto
peritate di dirgli la zona del centro in cui abitavano,
anche per rimarcare la differenza di classe che c’era
tra loro e quel periferico degradato, che comunque non
aveva colto la sfumatura.
Il buon selvaggio di oltrelemura non si era mostrato
stupito che due signore d’alto rango uscite da
un’altra era come Veneri dal mare volessero concludere
una transazione di affari con lui in quel tempio del
cemento. E neanche era parso diffidente. Aveva solo
detto che lui non aveva quello che cercavano e le doveva
portare da un altro che ce l’aveva. Un tale Marco,
in cui riponeva la massima fiducia.
Le due avevano aspettato dieci minuti sull’unica
panchina di un giardinetto spelacchiato, di fronte a
un antro orrendo con l’insegna luminosa Bar Eden,
probabilmente autoironica.
Qui se chiedi un tè ti danno un topo morto da
mettere nell’acqua calda tenendolo per la coda,
al posto della bustina Twinings, aveva ipotizzato Camilla.
Guarda che secondo me te lo danno vivo, cara, aveva
risposto Giulia.
Mentre Giulia guardava lo stradone, aspettandosi da
un momento all’altro di veder spuntare la lumaca
gigante di ritorno dalla fine del mondo, era tornato
invece il ragazzo e aveva detto: il mio amico non c’è,
faccio io.
La cosa non quadrava mica per niente.
Di colpo era sparita l’euforia dell’avventura
ed era tornata quella consapevolezza di essere indifese.
Era terribile, chiunque poteva approfittarsi di due
povere vecchie, quando venivano meno le convenzioni
sociali che le proteggevano.
Il ragazzo era vago e ridacchiava a sproposito. Gli
si erano gonfiati i brufoli e gli occhi, che poi erano
molto simili. Era cambiato. In quei minuti doveva essersi
fatto. Non era più rispettoso, per niente. Anzi.
Invitava le due a seguirlo in un vicolo di cemento.
Più che altro era un ordine.
Le guardava e rideva, rideva così tanto, piegato
in due sulla panchina. Ma non era una risata allegra,
era una risata minacciosa.
Eccoci all’acqua, disse Camilla.
Era più umiliante che con Emiliano. Questo qua
era solo un ragazzetto. Che non aveva vissuto un decimo
delle cose che avevano vissuto loro. Però questo
non lo induceva a rispettarle, bensì a deriderle.
Il mondo era in mano a persone deboli ma cattive. Almeno
un tempo i cattivi erano forti.
E com’era brutto, il ragazzetto. Erano tutti più
brutti, più deboli di un tempo.
Ernesto, il marito di Camilla, avrebbe potuto schiacciarlo
con un mignolo, questo qua.
Giulia era in piedi accanto a lui e muoveva i piedi
per il freddo e per la paura. Il ragazzetto, certo uno
studente modello in qualche istituto con la didattica
sperimentale, stava ancora piegato senza respiro e diceva:
ora mi seguite. Stava tirando fuori un coltello. Ma
con calma. Sapeva che quelle due poverette non avevano
scampo, come minimo le rapinava.
Giulia ai suoi tempi era stata campionessa di nuoto
e faceva ancora ginnastica quotidianamente.
D’altra parte, finché sono viva sono ancora
i miei tempi, pensò.
Lo prese la nuca, e spinse in basso con tutte le sue
forze.
Quello una cosa del genere mica se la aspettava. Non
fece in tempo ad apprezzare il contatto con gli anelli
di classe che impreziosivano la mano di Giulia, e del
resto sarebbe stato comunque inadeguato. Lo spigolo
della panchina entrò in rotta di collisione con
bocca del ragazzetto e ci fu uno strano rumore.
Piglia e porta a casa, disse Camilla.
Sulla panchina c’era una scritta volgarissima:
i piedi delle fiche sono boni.
Il ragazzetto rotolò in terra senza un lamento,
improvvisamente serio, ai piedi delle due signore disgustate.
Non ride più, osservò Giulia.
Non avrai esagerato? Si preoccupò Camilla.
E’ andato, disse Giulia frugandogli in tasca.
Andiamo anche noi.
4. Il ritorno
Due principesse prigioniere hanno bisogno
di incantesimi.
E’ per questo che le due amiche si drogavano.
Custodivano tutto l’armamentario in uno cofanetto
prezioso, che lo zio Neri (come minimo un prozio della
nonna) aveva portato dall’India all’inizio
del secolo.
Non usavano mai termini come “droga”, o
“siringa”, o roba del genere. Parole brutte
che non rendevano l’idea.
Passami la pozione magica, diceva per esempio Camilla
a Giulia, che gestiva tutte le cose – anche quella
cosa - dal punto di vista pratico. In realtà
avrebbe potuto farlo anche Camilla, ma c’erano
dei ruoli da rispettare, era come una recita, o un rito
religioso.
Piero faceva arrivare la pozione magica dal lontano
Oriente. E loro fantasticavano che la pozione viaggiasse
su carovane di cammelli attraverso luoghi favolosi,
prima di giungere a loro, anche se sapevano benissimo
che era più comodo portarla in aereo.
Certo non potevano pensare di trovare la medesima ambrosia
in Piazza Santo Spirito o Piazza Dalmazia, ma per il
momento erano disposte ad accontentarsi ricorrendo a
sostanze magiche più comuni e meno divine.
Non che fossero delle drogate vere, di quelle che fino
da giovanissime rovinano la vita a sé e agli
altri. Loro no. Non avevano mai dato disturbo a nessuno.
Avevano cominciato a drogarsi da pochi anni, in tarda
età.
Tanto non abbiamo nulla da perdere, aveva detto Camilla.
Gli uomini non ci interessano più, la bellezza
e la salute ci stanno abbandonando.
Veramente staranno abbandonando te, aveva ribattuto
l’amica. Ma poi si era buttata con grande entusiasmo
nella nuova avventura.
Però è vero che erano belle.
Quando erano giovani c’era in loro una specie
di luccichio silenzioso e questo luccichio silenzioso
con gli anni si era accentuato. Se pure un po’
sepolto dentro di loro.
La morte è una siringa vuota, disse Giulia contravvenendo
per la prima e l’ultima volta al tacito patto
di non nominare mai la parola “siringa”.
Era scossa dagli avvenimenti del giorno prima.
Riempila, cara, rispose Camilla. Un po’ tremava.
Anche lei non si era del tutto ripresa.
Sei ancora giù per il ragazzo che è andato
a sbattere contro la panchina? Ho avuto una certa responsabilità
nell’incidente, disse Giulia. Sono cose che possono
far venire l’esaurimento nervoso.
Più che altro parlava per sé. In fondo,
non aveva mai ucciso un uomo, anche se poi quello era
minorenne.
Neanche un po’. A volte non puoi fare la frittata
senza rompere lo spacciatore, disse Camilla.
Risero.
E cominciarono il rito.
Emiliano era in grado di fare più cose insieme.
Ora per esempio si puliva il naso, incartava del prosciutto
e stava pensando a quali avanzi andati a male propinare
alle due lesbiche, come le chiamava lui anche se non
era vero. Sua moglie gli urlava nell’orecchio
che lui era troppo generoso, e aveva ragione. Doveva
essere meno ingenuo. Tra l’altro la sua era una
famiglia di intellettuali: il figlio faceva il maestro
di inglese. A parte questo, cosa portare alle vecchie?
Era incerto tra le triglie rancide e un gatto in umido
chiamato coniglio. Stava quasi per decidersi quando
vide un ragazzino con la faccia tutta distrutta e rabberciata
scendere da una macchina.
Emiliano era l’occhio del quartiere.
Dopo il ragazzino scesero una donna, e altri due ragazzi
più grandi con l’aria dei delinquenti abituali
o delle fiamme gialle in borghese. Si misero a fare
domande al fruttivendolo.
Emiliano non li aveva mai visti prima. E’ vero
che passavano continuamente fiumi di persone che non
aveva mai visto prima, ma si trattava di turisti. Questi
qua invece non erano turisti. E di sicuro non si informavano
sul prezzo del cavolfiore.
Cosa stavano cercando?
Emiliano non uscì. Non voleva sembrare curioso.
Aspettò che venissero da lui.
Perché la questione era questa: il ragazzino
della panchina non era affatto morto, si era solo un
po’ sfasciato la faccia.
Aveva raccontato la cosa alla mamma, la mamma se l’era
presa. Ma come potevano fare una cosa del genere al
suo bambino, quelle streghe? E così lo sfasciato
aveva ripensato al fatto che le due vecchie troie gli
avevano detto dove abitavano, più o meno.
Adesso si trattava di trovarle.
Non avevano avvertito le forze dell’ordine perché
non erano quel genere di persona, avevano una formazione
diversa. E poi sarebbe stata dura spiegare cosa ci faceva
lo studente modello con le due signore. Le autorità
avrebbero d’istinto dato ragione alle vecchie.
La questione era da chiarire in privato. E si erano
portati dietro due amici di quelli che chiariscono bene
le questioni. Le streghe dovevano pagare per il danno,
e pagare parecchio.
Le principesse deliberarono di uscire ancora: ci stavano
prendendo gusto. Erano decenni che non uscivano per
due giorni consecutivi. Sentivano dentro di sé
tutta l’eccitazione dell’adolescenza.
Non sapevano cosa le aspettava.
Di solito il tempo passava di nascosto, invece ora era
tornato a essere una cosa solida, dava soddisfazione.
Mi sento rinascere, disse Camilla respirando con voluttà.
“O sangue mio come i mari d’estate”
recitò Giulia.
Ogni tanto ritornavano sull’argomento del ragazzo
della panchina, un pessimo fornitore.
Non bisogna piangere sul latte versato, diceva Giulia.
D’altra parte noi non abbiamo versato latte, diceva
Camilla.
Brava cara!
Erano euforiche.
Passavano davanti ai negozianti che anni prima avevano
“tradito” per Emiliano. In passato gli avevano
“tolto il saluto” per qualche torto subito,
tipo una mela ammaccata o una busta di cibo per pesci
con uno strappo. Ora invece li salutavano affabilmente,
benevole verso i sudditi, e quelli le guardavano sbigottiti,
come una doppia apparizione. D’altra parte i sudditi
erano rimasti in pochi. Per lo più avevano chiuso,
per far posto a sempre nuove banche.
L’unica cosa immutabile era il mendicante cieco
all’angolo, doveva essere immortale. Anche perché,
come tutti i mendicanti ciechi, in realtà oltre
a vederci benissimo era miliardario e quindi poteva
permettersi cure all’avanguardia e trattamenti
di mummificazione che gli conferivano quell’aria
solenne.
Erano così radiose che allungarono venti euro
all’immortale.
Si spinsero fino al negozio degli animali per comprare
il cibo per i Lorocari, come li chiamavano. Di solito
gli arrivava insieme alla pozione magica, sempre grazie
a Piero.
Infatti non è che fossero perfettamente sole
in casa. Avevano un acquario dove nuotavano i Lorocari:
tozzi pesci voraci che le due dame trovavano irresistibili,
un po’ perché erano il grande amore di
Ernesto, il marito di Camilla. Ma anche perché
rappresentavano una bellezza diversa rispetto a quella
bellezza armoniosa nel cui culto erano state educate.
Una bellezza più rude e selvatica. Passavano
lunghe ore a guardare le lente evoluzioni dei Lorocari.
Dopo un po’, a forza di fissarli, forse grazie
anche alla pozione magica, la testa di quei pesci diventava
la testa di persone che avevano amato, tra cui Ernesto,
e allora la cosa si faceva ancora più interessante.
Non era pazzia, solo amore, nostalgia e sogno.
E poi Ernesto anche da vivo era un nuotatore formidabile.
Uno dei loro argomenti preferiti era la corretta alimentazione
dei Lorocari. In verità i pesciolini - sleppe
da mezzo chilo l’uno - andavano pazzi per gli
avanzi di Emiliano. Il che forse significava che mangiavano
qualsiasi cosa. Erano pesci della taiga, capaci di sopravvivere
in situazioni estreme, così aveva detto il marito
di Camilla quando li aveva portati da uno dei suoi viaggi
in terre lontane.
Che schifo, era stato il commento della moglie.
Ma poi, nella sua seconda vita, aveva imparato ad amarli.
E in effetti negli anni i Lorocari si erano adattati
a situazioni estreme: come la vita da ectoplasmi delle
due principesse. I pesci avevano prosperato, dimostrando
che la natura selvaggia, cioè in definitiva la
vita, si trova benissimo anche tra i fantasmi, e ora
anzi c’era il problema che l’acquario era
troppo piccolo. E da tempo le principesse cercavano
altre soluzioni per i Lorocari che nell’estasi
della pozione magica assumevano le sembianze degli affetti.
Quando li contemplavano non erano né sveglie
né addormentate. E superavano il tempo.
Possessione sciamanica, diceva Camilla.
“Trasumanar significar per verba
non si poria” diceva Giulia.
Ora stavano tornavano indietro, tutte giulive. Ripassarono
dall’angolo presidiato dal mendicante. L’immortale
probabilmente era il proprietario dell’intero
palazzo e stava là seduto fuori a sorvegliare,
o così per pigrizia e per vezzo. Alzò
la testa, erano una decina d’anni che non lo faceva,
di solito stava a capo chino. Le guardò e disse:
Attente, Senzafaccia vi cerca.
Probabilmente lo fece per riconoscenza, per via dei
venti euro. Non che ne avesse bisogno, ma aveva apprezzato
il gesto.
Le due si guardarono senza comprendere il senso dell’avvertimento,
ma capivano che era un avvertimento.
L’immortale stava proprio sull’angolo. Sullo
spigolo. Camilla sporse cauta il collo e li vide senza
essere vista. Per primo riconobbe Emiliano. Ma non gli
ci volle molto a capire chi era Senzafaccia.
Affrettiamoci, disse.
Si mimetizzarono nella folla dei turisti, una jungla
in movimento. Intanto cercavano di capire il significato
di quello che avevano visto.
- Quando vedi un morto che va in giro di solito vuol
dire che è vivo, disse Camilla.
- “Per me questo burattino è già
morto, ma se per caso non fosse morto vorrebbe dire
che è ancora vivo” recitò Giulia.
- Vivi o morti, i giovani di oggi sono idioti.
0. Almeno quanto quelli di ieri, cara. Meno male che
non dobbiamo preoccuparci delle cose di cui si preoccupano
i giovani.
- Questi giovani drogati mi fanno schifo
0. Ma poi hai visto come si riducono, che aspetto trasandato?
Con tutte quelle bende in disordine!
0. Ma secondo te Emiliano gli ha detto dove abitiamo?
Avevano paura a tornare a casa ma erano stremate. E
poi non potevano abbandonare i Lorocari.
Emiliano non aveva resistito: era uscito casualmente
e aveva intercettato i cercatori. Quando la madre premurosa
di Senzafaccia gli aveva chiesto se sapeva dove abitavano
le vecchie, Emiliano, stupefatto, aveva capito subito
di quali vecchie parlasse. Però non gli aveva
detto la verità: era rimasto sul vago, tra il
sì e il no, come se stesse parlando di due nomadi.
Non capiva cosa volevano da loro e temeva che intendessero
rubargli l’osso. Era lui il padrone delle due
vecchie, cribbio! Se le era lavorate e aveva dei diritti,
come gli diceva sempre sua moglie.
Mentì. Disse che voleva saperlo anche lui, dio
santo, dove abitavano esattamente quelle, perché
con tutte quelle arie snob in realtà erano delle
barbone e gli dovevano un sacco di soldi. Lui era un
onesto lavoratore e non era giusto che gli rubassero
il pane che si sudava con la fronte.
Ma ora vedrai che le troviamo. Così disse, per
prendere tempo e capire meglio.
Sul fatto che il suo pane fosse sudato aveva ragione.
Un trentenne lungo lungo, con aria scema ma furba, individuò
le due vecchie nella folla. Gli si parò davanti.
Raccontò una storia confusissima e penosa. La
morale era: potevano le due signore anticipare dei soldi?
Lui gli avrebbe lasciato una scatola, poi sarebbe tornato
a riprendere la scatola e gli avrebbe reso i soldi,
anzi un po’ di più, per il disturbo. Si
rivolgeva a loro perché si vedeva che erano due
persone per bene. Con tutti i delinquenti che c’erano
in giro non si fidava di altri. E sorrise amabilissimo.
Senta giovanotto, non è aria, disse Camilla.
Ma il tipo non capiva la metafora. Allora Camilla spiegò
meglio: Dovresti levarti dalle palle.
Quello realizzò e sparì. Giulia rimase
a bocca aperta, affascinata dall’uscita dell’amica.
La risposta fa la signora, disse Camilla compiaciuta.
Però non potevano vagare per l’eternità.
Dopo un’altra mezz’ora non ne potevano più.
Decisero di rischiare, di tornare a casa e di prepararsi
all’assedio, sempre che quelli non fossero già
lì e le stessero aspettando. Tutto questo fu
espresso con una sola parola:
Andiamo, disse Camilla.
Sì, ma prima passiamo dal fabbro, disse Giulia.
5. L’attesa
Se il primo piano era un placido lago di ricordi, il
pianterreno, regno di Giulia, era un mare di ricordi
in tempesta. Bisognava attraversarlo per raggiungere
il minuscolo cortile.
Tutto l’appartamento girava attorno a quel cortile,
a cui era possibile accedere da due porticine, una di
fronte all’altra, su lati opposti. Da tempo immemorabile
erano chiamate porticina numero uno e porticina numero
due, non si sa perché.
I muri del cortile erano coperti di una sostanza nera
e verde. Una sostanza viva, probabilmente un incrocio
tra muschio e muffa.
Il fabbro era confuso. Le due pazze lo avevano trascinato
a casa con l’imperio di molto tempo prima, col
piglio di quando l’intero quartiere si inchinava
a un loro cenno. Ma l’appartamento al pianterreno
testimoniava che qualcosa era mutato. Erano passati
per miracolo: quel posto era un caos indescrivibile
di stanze morte, sembravano i resti di un naufragio,
come se quel disordine fosse un ritratto del loro cervello.
Poi attraverso la porticina numero uno lo avevano fatto
entrare in quel cortile simile a un pozzo e ora chiedevano
una grata che lo coprisse come fosse un tetto.
Ma perché volete una grata simile? Il fabbro
non riusciva a capacitarsi.
Ma per i ladri, rispose prontamente Giulia, è
già due volte che ci entrano in casa calandosi
dall’alto.
Ma perché allora volete che la grata protegga
solo il pianterreno e non anche il primo piano, visto
che abitate là? Fece questa domanda cercando
di essere paziente, come se più che una domanda
fosse una spiegazione, ma non capiva.
Le cose preziose le teniamo al pianterreno, gli disse
Camilla, e gli strizzò l’occhio.
La cosa non tornava, perché il primo piano era
blindato.
E’ un trucco, rispose Camilla.
Gli chiesero di rafforzare le porticine e di metterci
delle guarnizioni di gomma che non facessero passare
l’acqua in casa. Un passo decisivo nella loro
guerra ai reumatismi.
Poi basta, finestre sul cortile tanto non ce n’erano,
al piano terra.
Quei discorsi non avevano senso. Con la grata, che bisogno
c’era di rafforzare le porte, e cosa importava
se c’erano finestre o meno?
Poi saltarono fuori con altri dettagli che lui non capiva
assolutamente.
C’era un buco da cui defluiva l’acqua, perché
quando pioveva forte il cortile si allagava subito,
con una velocità incredibile. Ebbene, gli chiesero
di tapparlo, perché da lì arrivavano certi
topi bruttissimi.
Erano richieste assurde e contraddittorie: da una parte
pretendevano che l’acqua non entrasse in casa,
dall’altra volevano tappare il buco che la faceva
defluire. Ma il fabbro aveva una mentalità matematica:
se pagavano avevano ragione loro. E nonostante il naufragio
qualche soldo doveva essergli rimasto.
Potrei venire la prossima settimana, disse.
Ma noi ne abbiamo bisogno adesso.
Impossibile, ribattè pensoso carezzandosi i peli
dell’orecchio con il metro. Ma quando Camilla
con gesto soave tirò fuori il libretto degli
assegni, il fabbro si risolse fare tutto a velocità
record, come gli chiedevano. Dopo tutto era di buon
cuore. E poi quelle avevano una strana determinazione
negli occhi.
Chiamò i suoi figli e si sbrigarono.
La nottata passò. Senza che arrivasse nessuno.
I pesci planavano quieti. Le principesse non dormivano.
Forse ti sei sbagliata e Senzafaccia non era lo spacciatore,
disse Giulia.
Eccome se era lui.
Forse non ci stanno cercando.
Coraggio a dargliene: eccome se ci stanno cercando.
Ma ci troveranno pronte, stai tranquilla.
Certo cara.
Cercarono anche la pistola del nonno Ludovico, quella
col manico di madreperla.
Non c’è, disse Giulia.
Sarà stata spostata con la guerra, disse Camilla.
Ma non ne avremo bisogno.
Non era male la sensazione dell’attesa. Si sentivano
forti.
Camilla suonava il pianoforte, Giulia guardava la carta
da parati. Sia la musica che la carta da parati parlavano
loro di storie lontane.
Parlavano. Ridevano. Ricordavano. Erano struggenti e
sarcastiche. Pronte all’azione.
Secondo te quando arriverà? Disse Camilla.
Quando arriveranno vorrai dire, ribattè Giulia,
sempre pragmatica.
No, quando arriverà. Lei, intendo.
Ah… Lei, intendi. In realtà Giulia sorvegliava
sempre, perché sapeva che sarebbe arrivata da
una crepa nella carta da parati.
Sì, ormai non siamo più delle ragazzine.
Ti ricordo che non lo siamo mai state, siamo sempre
state delle signore, cara. E comunque, mi interessa
di più capire quando arriveranno loro.
Sì ma Lei non potremo tenerla fuori con una grata.
Così dicono.
Potrebbe essere il nostro nuovo fornitore, visto che
non riusciamo a trovarne uno degno della nostra classe.
Giulia si illuminò:
Potrebbe essere, sono sicura che Lei è piena
di pozione magica.
Se la roba è buona, non ne faremo una questione
di prezzo, osservò Camilla con dolcezza.
Così come si era progressivamente ritirate dal
mondo, allo stesso modo si erano ritirate da certe zone
della casa. Nella battaglia contro il tempo, concedevano
territori fisici, ma ampliavano i sogni. L’appartamento
al primo piano era spazioso, ma le due principesse trascorrevano
gran parte del loro tempo in un’ansa del salotto
dove avevano riunito le cose fondamentali: il pianoforte,
l’acquario e la televisione. La carta da parati
c’era già. Lo scrigno indiano dello zio
Neri (come minimo un trisavolo), che custodiva gli strumenti
per officiare il rito della pozione magica, era a sua
volta nascosto in uno scrittoio pieno intarsi e di cassetti.
- Le buone cose di ottimo gusto, diceva Giulia.
- Non faceva “le buone cose di pessimo gusto”,
la poesia di Gozzano? Chiedeva Camilla.
- Gozzano era un barbone.
- Non è vero, fossi nata prima lo avrei assunto
come arredatore.
- Sarebbe stato un errore, il tuo gusto è impareggiabile.
In quel loro rifugio i divani non erano coperti dai
lenzuoli.
La televisione era sempre accesa, senza audio. Un quiz
condotto da Gerry Scotti dava la cultura alle masse.
Poi apparvero dei tipi con bandiere verdi: non si capiva
se erano leghisti o militanti di Hamas.
Ogni tanto facevano ricorso alla pozione magica, quel
poco che avevano sottratto a Senzafaccia.
Guardavano i pesci, sperimentando ancora una volta la
possessione sciamanica nel centro di Firenze, uno dei
posti più adatti. Vedevano i loro mariti galleggiare
nel tempo e chiedere cibo.
L’ansa ombrosa che era il centro della loro vita
aveva una finestra che dava sul cortile.
Ci pensi che nel Rinascimento riempivano d’acqua
il cortile di palazzo Pitti e ci facevano le battaglie
navali? Con vere navi. E i Medici guardavano la battaglia
dalle finestre, disse Camilla.
Non era indifferente al lusso. Da bambina aveva letto
queste parole in un libro di scuola: Il lusso sfrenato
dei papi. Era il titolo di un capitolo. Nelle intenzioni
dell’autore doveva essere una critica severa,
ma nella sua mente di bambina era suonata come una cosa
irresistibile.
Già, rispose Giulia, dovremmo farla anche noi
la battaglia navale. Potremmo riempire d’acqua
il cortile con le sistole.
Chiamavano sistole i tubi di gomma, come tutti a Firenze.
Il discorso della battaglia navale lo avevano già
fatto infinite volte ma gli piaceva sempre fantasticare.
In effetti erano piene di tubi di gomma, in bagno e
in cucina, Risalivano al tempo in cui il cortile era
pieno di piante, e ancora da laggiù saliva un
profumo tetro.
Quelli arrivano, e non useranno le buone maniere, disse
Giulia. Quanto resisteremo?
Ma Camilla non la ascoltava, si era rimessa al pianoforte
Suonava qualcosa di nuovo. Canticchiava, perfino.
Ma che roba è? Disse Giulia. Di solito l’amica
storpiava Chopin.
Camilla senza interrompersi disse:
E’ una nenia che la mia balia mi cantava da bambina.
Me l’ero scordata, mi è tornata in mente
ora, dopo tutti questi anni.
Per l’esattezza, non è che i pesci della
taiga semplicemente mangiassero gli avanzi di Emiliano,
così, di malavoglia. I Lorocari adoravano gli
avanzi di Emiliano.
Giulia guardava il modo in cui si contendevano una crocchetta
bisunta.
Gli animali totemici divorano il nemico, diceva sempre
Giulia.
Il morto è sulla bara, rispondeva Camilla.
L’attesa non finiva mai. Non si sentivano più
così forti.
Ma arriveranno? Chiese per la ventesima volta Camilla
smettendo di suonare.
Arriveranno arriveranno.
Non pensavo che ci tenessimo così tanto alla
vita, alla nostra età.
Pensa per te, cara. Io sono di sei mesi più giovane.
Per cinque minuti stettero affacciate alla finestra,
guardavano il cortile che pareva un pozzo.
Mi sembra tutto in regola, disse Camilla.
Ti ricordi quando era pieno di piante? Come sembrava
più grande allora!
Ere geologiche fa, bambina.
Più che altro guardavano la grata, che arrivava
a un metro e mezzo dalla finestra.
Che bella grata, disse Giulia come parlasse di un tramonto.
Pensi che reggerà?
Vedrai di sì, prima che il gioco resti.
L’aveva appena detto che suonò il campanello.
6. Nel labirinto del tempo
C’erano stati tempi più
giusti, tempi normali, in cui al suono del campanello
accorreva la cameriera. Ora facevano tutto loro. Perfino
le pulizie. Nonostante l’antico benessere dovevano
stare attente con i soldi. Era soprattutto Giulia che
teneva i conti: secondo i suoi calcoli aggiornati avevano
soldi per soli altri tre lustri di vita.
Altrimenti potremmo derubare quelli che cercano di truffare
le vecchiette, aveva detto una volta Camilla, nessuno
ci denuncerebbe.
Era un’idea che dovevano rispolverare, se sopravvivevano.
Rita Rita, la nostra bellezza sfiorita disse Giulia
con aria ispirata.
Ogni tanto diceva delle cose così, assurde, per
divertimento, o per infondere coraggio a sé e
all’amica nei momenti critici.
Pensa per te, e poi io mi chiamo Camilla, fu la risposta.
Era concentrata sull’azione prossima ventura.
Rimise con dolce calma la copertina sulla tastiera.
Era una specie di sciarpa da pianoforte, fatta dalla
bisnonna. Poi chiuse il coperchio di legno.
Avevano anche indossato le perle del Mare del Diavolo.
Loro le chiamavano confidenzialmente perle del diavolo.
Non che non fossero sempre eleganti, ma oggi di più:
aspettavano visite.
Il campanello suonò ancora. Rimbombava nella
casa. Era il destino che bussa alla porta, ma un po’
più isterico rispetto a quello della quinta di
Beethoven.
Dobbiamo andare, disse Giulia.
Sarà Lei o saranno loro?
Potrebbero anche essere venuti insieme, sorrise Giulia
guardando la crepa nella carta da parati.
Non facciamoli attendere troppo.
Salutarono con un cenno carico di sentimento i Lorocari
e andarono. Potevano anche non vederli mai più.
Emiliano cominciava a spazientirsi. Quelle non aprivano.
Che avessero capito tutto? Strano, visto che non aveva
capito bene neanche lui. Era chiaro che i quattro a
cui si era unito non volevano portare un regalo alle
due galline pazze dalle uova d’oro. A occhio volevano
dei soldi. Ma lui perché era lì? In prima
fila, con il sacchetto del cibo a perfezionare l’inganno.
Emiliano fu preso dal dubbio di aver sbagliato. Ma poi
si ricordò che li stava aiutando perché
non aveva scelta. Quella era gente che non scherzava,
soprattutto gli amici della madre dello sfigurato. Non
aveva scelta, li aiutava e al tempo stesso li controllava,
dato che le due vecchie erano roba sua. E così
se c’era da arraffare avrebbe arraffato.
Invece di aprire il portone col pulsante accanto al
citofono, come facevano abitualmente, scesero giù.
Alla fine delle scale c’era un corridoio e in
fondo il portone. Sulla destra c’era la porta
dell’appartamento del pianterreno.
Signore, aprite, lo so che ci siete, risuonava la voce
di Emiliano con un tono che secondo lui doveva risultare
amichevole.
Non capiva perché non aprivano. Certo non potevano
sapere cosa bolliva in pentola. Cominciava a provare
una certa apprensione, anche per gli sguardi obliqui
dei suoi compagni. Non è che davvero quei quattro
volevano pestare le galline? E se poi la polizia incolpava
lui? No, impossibile che arrestassero uno con una rosticceria
così ben avviata.
Sentì la voce della vecchia sfiatata:
Sto arrivando, c’è il citofono rotto, arrivo
arrivo.
Sentiva il rumore dei piedi che strisciavano freneticamente.
Le aveva in pugno, quelle vecchie. Era anche una rivalsa
sociale. Rivolse un sorriso di trionfo alla madre del
relitto, però quella rimase impassibile come
i suoi due amici. Soltanto il ragazzetto sotto le bende
ridacchiava tutto eccitato, come avesse sentito la parola
culo durante una lezione scolastica.
Non andarono subito a aprire il portone.
Camilla dischiuse la porta dell’appartamento del
pianterreno: il regno lussureggiante di Giulia. Secondo
la quale non era caotico, era ricco. Un regno a più
strati, c’era di tutto. Dai tappeti berberi ai
gusci di tartaruga marina. Sedie che spuntavano come
scogli, armadi scuri che si ergevano come montagne.
Lucerne. Ciarpame. Cose preziose. Cose incomprensibili.
Pile di riviste. Un numero sorprendente di letti. Piantine
bonsai secche, mummificate, chissà da quanto
tempo. Corni di rinoceronte dell’avo esploratore,
orologi a cucù. Qualsiasi cosa. E poi, sopra
tutto, le conchiglie: splendevano appoggiate un po’
ovunque, come sirene nella tempesta.
Aspetta me prima di metterti a correre, cara disse a
Camilla con dito ammonitore.
Si abbracciarono brevemente nell’ora fatale, con
un’intensità senza smancerie. Se una delle
due sentì le lacrime salire, non lo dette a vedere.
Stai attenta, bambina, rispose Camilla.
Ormai le abbiamo in pugno, disse Emiliano quando il
portone cominciò a aprirsi. La casa era la loro
corazza, se ci entravi dentro erano inermi come grossi
paguri.
La banda dei quattro fremeva di impazienza. Ma Emiliano
sapeva essere cauto.
Vide solo la faccia della pagura Giulia, quindi la pagura
Camilla doveva essere rimasta su. Bisognava essere gentili,
o quella non avrebbe aperto la porta di sopra.
Oh, cara signora buon giorno ho qui degli amici che
avrebbero piacere…
Ma non fece in tempo a finire la frase che Giulia si
girò e schizzò via nel corridoio a una
velocità insospettata. Li lasciò tutti
a bocca aperta. Non sapevano che Giulia e Camilla facevano
ginnastica tutti i giorni.
Però la principessa aveva fatto in tempo a vedere
il volto feroce e determinato della madre di Senzafaccia.
Una ferocia ordinaria, da donna del popolo.
Dagli, urlò la salariata della strada. Una specie
di scimmia mascolina.
Giulia raggiunse Camilla e disse: svelta seguimi.
Si buttarono nel caos dell’appartamento del pianterreno.
Scavalcarono agilmente una montagna di antichi giocattoli
e si ritrovarono davanti una specie di radura, uno spiazzo
di terreno libero circondata dai resti delle maree del
tempo come da una foresta. Dalla radura partiva un vialetto
comodissimo: chiunque sarebbe andato di là, visto
che la strada era sgombra. E infatti Camilla lo imboccò.
No, le disse Giulia tirandola per un braccio, è
un inganno. Vieni.
E la fece strisciare sotto un letto che avrebbe potuto
ospitare un’orgia di ippopotami.
Veramente quello non era il caos. Era un labirinto.
Si inoltravano nel cuore del labirinto. Giulia si muoveva
con sicurezza assoluta. Giulia era come il Minotauro
e Camilla come Teseo, solo che il Minotauro e Teseo
si intendevano benissimo.
Camilla la seguiva piena di fiducia. Per anni aveva
chiesto a Giulia di mettere ordine in quel ciarpame,
e per mettere ordine intendeva buttare via, o al limite
mandare i cristalli di Boemia ai bambini del Terzo Mondo.
Ma ora era contenta che Giulia non l’avesse fatto.
Avevano una paura che le esaltava. Se quella era la
fine, era eccitante. Se Lei era entrata con Loro, non
le avrebbe trovate piagnucolanti. Anche perché
tra Signore non sta bene, come diceva sempre Camilla.
Comunque intanto scappavano, non era ancora finita.
Per niente.
I due solidi amici dell’impiegata dozzinale sorpassarono
con una virile spallata Emiliano e entrarono per primi
nell’appartamento del primo piano. Avevano un’aria
temibile, sicura, e fecero subito vedere quello che
sapevano fare inciampando nel tappeto persiano e battendo
una boccata memorabile contro il canterano stile impero.
La dentatura di uno di loro ne risultò notevolmente
ridimensionata. Si vede che era un destino, perdere
i denti, per Senzafaccia e i suoi amici.
Il tappeto dello Zio Ale, ridacchiò Giulia, ci
inciampo sempre anch’io. Ma sono più agile
nella caduta.
Più avanzavano più sembrava una giungla
viva. Tutti quegli oggetti si erano imbevuti di vita,
negli anni. E ora la rilasciavano lentamente, come radioattività.
Per non parlare delle conchiglie, che erano l’anello
di congiunzione tra la Vita e l’Arte.
Per permettere i lavori del fabbro&famiglia Giulia
aveva liberato un passaggio, una specie di sentiero
nella foresta amazzonica. Ma dopo che la grata del cortile
era stata piazzata e la porta rinforzata e tutto il
resto era stato approntato, allora Giulia aveva rimesso
tutto a posto, secondo lei. Gli antichi oggetti erano
tornati a essere governati dalla Natura, che per quella
volta si era fatta rappresentare dalla sua mente, e
quello era di nuovo un territorio selvaggio.
Ma era un territorio selvaggio in cui lei si muoveva
come Tarzan, o come Dersu Uzala.
Ma come fai, continuava a ripetere Camilla che non aveva
più fiato. Mi farai morire.
No, quelli ti faranno morire se non ti sbrighi.
Ora la stava facendo strisciare sotto un canterano del
XVIII secolo, sgusciavano come vietcong.
I due che avevano battuto la boccata si era rialzati
inferociti, più che altro per l’umiliazione
pubblica, visto che anche tutti gli altri inseguitori
erano ormai nell’appartamento del pianterreno.
I cinque erano pieni di buona volontà. Ma non
avevano metodo nell’inseguimento, non si aspettavano
di dover agire in un posto simile, andavano a sbattere
da tutte le parti. Anche perché gli oggetti che
costituivano il labirinto avevano troppa classe per
loro, troppa storia, e questo li disorientava. Erano
entrati con l’irruenza e la sicurezza degli americani
in Asia, e ora dovevano fronteggiare delle sorprese.
Sbong! Risuonò una botta. Qualcosa di grosso
era caduto su qualcosa di vuoto. E poi l’urlo
mostruoso dell’Orco: porca troia, tanto vi prendo,
puttane!
La Cassis cornuta, osservò Giulia un po’
in apprensione. Speriamo non si sia rotta.
Si trattava di una conchiglia da cinque chili posizionata
in equilibrio precario sullo spigolo di un armadio.
I movimenti felini delle principesse non l’avevano
fatta cadere, ma si vede che l’orco aveva scosso
l’armadio.
Le due si muovevano tra i resti rinascimentali come
pellerossa che combattono l’uomo bianco.
Non che i resti fossero tutti rinascimentali.
Ora per esempio si erano appiattite sotto una pelle
di leopardo del Bengala portata un secolo e mezzo prima
dallo zio Vanni (per loro anche gli avi erano zii).
Dobbiamo stare ferme, sussurrò Giulia.
In effetti gli inseguitori si erano fatti furbi. Non
si sentiva più il frastuono delle cadute e degli
urti. Evidentemente volevano capire con l’udito
dove fossero le due vecchie.
All’inizio forse gli inseguitori volevano solo
soldi. Ma ora di sicuro intendevano uccidere.
L’orco stringeva il sacchetto del cibo, perché
non conteneva solo cibo.
Ma le due principesse stavano immobili e mute sotto
il leopardo.
Non è poi così facile strappare il cuore
di Biancaneve.
Solo che a Camilla sembrava che il cuore di Biancaneve
le stesse per balzare via dal petto.
Giulia le strinse la mano, come tra compagne d’asilo.
Non si erano mai scambiate così tanti gesti di
affetto in decenni di vita insieme.
Il cortile è vicino, disse Giulia. Il cortile
è vicino, ripeteva come una preghiera.
E per un attimo Camilla ripensò ancora ai fastosi
cortili rinascimentali in cui si combattevano le battaglie
navali e gli parve di aver sbagliato tempo, anche se
perfino in questo tempo poteva prendersi la sue soddisfazioni.
Ancora rumori e imprecazioni, gente che cadeva e andava
a sbattere.
Si sono separati, per avere maggiori probabilità
di prenderci, disse con un filo di apprensione Camilla.
Ma ora sono anche più vulnerabili, suggerì
Giulia.
Ci fu un urlo più forte degli altri, terribile,
una specie di barrito: ho sbattuto la faccia ho sbattuto
la faccia, piagnucolava Senzafaccia.
La voce violenta e ordinaria della madre, da un altro
punto dell’appartamento, preoccupatissima, gli
chiese come stava.
Giulia sorrise: andiamo, sono lontani.
Strisciarono via dalla pelle di leopardo, scavalcarono
l’ottomana della trisavola Domitilla, dai disinvolti
costumi.
E la porta era lì. Ancora pochi metri e avrebbero
raggiunto il cortile.
E’ fatta, disse Camilla. Sei una guida fantastica,
dovresti lavorare per il Touring Club.
Un’ombra obesa si parò tra loro e la porta.
Voi siete fatte, tuonò il rosticciere.
Evidentemente era più furbo di quello che sembrava.
O era stato fortunato, come quando un’onda ti
prende fa attraversare indenne un labirinto di scogli.
Quando si era unito al gruppo di Senzafaccia, Emiliano
non aveva certo intenzione di sgozzare le galline dalle
uova d’oro. Ma le cose cambiano. E la caccia nel
labirinto aveva eccitato una regione selvaggia, sepolta
nella sua mente.
Oddio, neanche troppo sepolta.
Ora l’orco estraeva dalla busta di plastica un
coltellaccio da commerciante fiorentino.
Se almeno Giulia fosse riuscita a arrivare all’argenteria.
Quei coltelli della nonna Letizia sarebbero finalmente
serviti a qualcosa. Li lucidava tutte le settimana,
le dovevano un po’ di riconoscenza.
La cassa era sotto l’ottomana della trisavola.
Ma l’orco intuì l’intenzione e sbarrò
il passo. Poi avanzò verso di loro.
E’ la fine, bambina disse Camilla.
Addio, cara.
Poi Giulia pensò che c’era qualcosa che
non tornava. Lei non poteva avere le sembianze di Emiliano:
c’è un limite al cattivo gusto. E poi Lei
doveva arrivare dalla crepa nella carta da parati. Era
un tacito accordo tra vere signore, la cosa più
solida che esista. Fu allora che vide la tibia fusus.
“Sulla riva del mare Jannawath vide le sue prime
conchiglie e gli parvero fiori” sussurrò
con un filo di speranza.
La tibia fusus è una leggiadra conchiglia affusolata
che ha una specie di lunga coda aguzza. Di solito vive
nel Pacifico Centrale. Ma al momento un esemplare di
tibia fusus si trovava sul canterano della nonna Adelaide,
un po’ tarlato ma sempre magnifico.
Emiliano si avvicinava sprizzando litri di sudore. Aveva
un tremito, non si capiva se perché era furibondo
o perché era incerto.
Giulia brandì la tibia fusus e eseguì
un movimento velocissimo, come quando faceva saltare
i sassi sull’acqua dell’Adriatico selvaggio,
circa sessant’anni prima. Certi ricordi sono infrangibili,
a differenza degli occhi. Alla fine del gesto di Giulia,
Emiliano si trovò una tibia fusus ficcata nell’occhio
e si mise a urlare come Polifemo.
Una conchiglia così elegante era sprecata in
un corpo schifoso come il suo. Ma a volte il gioco vale
la candela, come diceva sempre il confessore particolare
di Camilla quando era giovinetta, un religioso che coltivava
un’idea tutta sua di candela.
Ma non era quello il tempo per i dolci ricordi. Giulia
si mise in tasca la perla della Tridacna che stava in
equilibrio su una statuetta di Capodimonte. La perla
della Tridacna non è pregiata, in compenso quella
era più grossa di una palla da golf, come amava
sempre dire Ernesto, prima di diventare un pesce della
taiga.
Scavalcarono il bestione arenato nella risacca di antichi
stoini, Giulia aprì la porticina numero uno e
il cortile era là, di fronte a loro come una
terra promessa La tentazione era quella di scappare
tutte e due là fuori. Ma sarebbe stato il loro
ultimo errore. Dovevano attenersi al piano.
Vai, disse Giulia a Camilla indicando il terrificante
gorilla nero impagliato a fianco della porta. Uno zio
di King Kong. Mostrava i denti e teneva perennemente
alzato in gesto di minaccia il braccio sinistro, infatti
la maggior parte dei primati sono mancini.
Giulia era appena uscita in cortile e Camilla aveva
appena finito di nascondersi dietro il gigantesco gorilla,
quando improvvisamente dalla collezione completa della
Domenica del corriere emersero le teste di Senzafaccia,
la donna del popolo e i due energumeni muti, certo assistenti
sociali.
Dagli dagli, urlava la salariata. Non fargli chiudere
la porta.
Ma non è che esci facilmente da una collezione
completa della Domenica del corriere, è peggio
delle sabbie mobili. Giulia ebbe il tempo di raggiungere
la porticina numero due sul lato opposto del minuscolo
cortile, aprirla e entrare in casa.
Ma non poteva chiuderla: non era finita. Ora veniva
il momento decisivo. Sia Camilla che Giulia dovevano
fare ognuna la propria parte, alla perfezione. Un assistente
sociale è come una murena, può tirar fuori
energie insospettabili.
La prima a raggiungere il cortile fu la madre di Senzafaccia,
rivelando una certa vitalità plebea. Zoppicava,
doveva aver battuto il ginocchio in qualche spigolo.
Poi arrivarono gli energumeni che - inespressivi ma
furibondi - quasi trascinavano Senzafaccia ormai piagnucolante
e stremato.
Giulia, sulla soglia della numero due, prese la perla
della Tridacna e la scagliò contro l’energumeno
più vicino. Era sicura di sé. Troppo:
gli sfiorò la tempia ma non lo prese bene.
Quelli ripresero a avanzare verso di lei. Il cortile
era così angusto che si chiese se avrebbe fatto
in tempo a chiudere la porticina numero due.
Comunque non era il momento, perché la numero
uno era ancora aperta. Forse il momento non sarebbe
arrivato mai, forse qualcosa era andato storto.
Ma scappare e chiudere la numero due ora, con la numero
uno ancora aperta, avrebbe significato condannare a
morte Camilla.
La cosa buona era che quelli non si erano accorti che
Camilla era nascosta dietro il gorilla.
Giulia doveva fare qualcosa. Tra poco l’avrebbero
raggiunta. Bisognava prendere tempo, non sapeva come.
Doveva giocare d’astuzia.
Allora disse:
Basta, avete vinto!
Rallentarono.
Lei continuò: Sì, avete vinto vi dirò
dove nascondiamo il tesoro!
Si fermarono, pietrificati dall’avidità.
La parola “tesoro” non apparteneva al loro
vocabolario abituale, ma qualcosa gli suggeriva che
era collegata a un sacco di soldi.
In quel momento l’orco rotolò nel cortile.
Evidentemente la tibia fusus, nonostante le apparenze
vistose, gli aveva inferto una ferita superficiale,
oppure Polifemo aveva una resistenza formidabile.
L’orco aveva appena finito di rotolare che la
prima porta si chiuse dietro di lui.
SBAM!
Camilla ce l’ha fatta, pensò Giulia con
sollievo. L’amica al momento opportuno, cioè
quando tutti erano nel cortile, aveva abbandonato la
protezione del gorilla e aveva chiuso la porta numero
uno.
Ora tocca a me, pensò.
Quelli erano ancora lì, paralizzati dalle troppe
sorprese. Giulia non gli lasciò il tempo di riprendersi:
chiuse la numero due.
Poi girò più volte la chiave, mentre Camilla
dietro la numero uno faceva altrettanto.
Non avrebbe mai dimenticato quel momento: il suono delle
due serrature era meraviglioso, sembrava il Notturno
opera 148 di Schubert. Non a caso un adagio postumo.
Quelli adesso erano soli, nel minuscolo cortile, con
le due porticine massicce chiuse e una grata metallica
sopra di loro.
I due energumeni tirarono fuori le pistole, ma era troppo
tardi.
Siamo in trappola, disse la donna del popolo atterrita.
Una frase assolutamente qualsiasi, neanche la morte
in arrivo sembrava regalarle un briciolo di fantasia.
7. I fasti del rinascimento
Le due principesse si ritrovarono
commosse nel corridoio e risalirono al primo piano,
quello padronale. A giudicare dal rumore, gli energumeni
esplodevano colpi all’impazzata. Quei brutti ceffi
sembravano cacciatori toscani contemporanei all’inseguimento
di un fagiano d’allevamento.
Ma a cosa sparavano? Forse alle porte, nel tentativo
di aprirle. Solo che erano appena state rinforzate dal
fabbro. E poi magari quei due presi dall’agitazione
non riuscivano neanche a colpire la serratura. Non è
che fossero dei veri tiratori. Grandi e grossi, al massimo
erano buoni a colpire i drogati sulle panchine da distanza
ravvicinata. Ma neanche quelli. Le pistole più
che altro gli servivano per far colpo sulle aspiranti
veline della periferia, che in attesa di raggiungere
la maggiore età battevano irretendo i turisti.
Il marito di Camilla invece era in grado di colpire
un camoscio da cinquecento metri di distanza.
Comunque quando le principesse furono nella loro stanza
preferita si sentirono più tranquille.
Uff, disse Giulia parlando a Camilla ma anche ai Lorocari,
è stato faticosissimo ma ce l’abbiamo fatta.
Camilla di sistemò il vestito, che si era un
po’ stropicciato nella foga dell’azione,
e chiese:
Ritieni che i vicini avranno sentito gli spari?
I rapporti di buon vicinato le erano sempre stati a
cuore, per quanto non fosse facile mantenerli.
Ormai si fanno tutti i fatti propri, disse Giulia. E
poi se li hanno sentiti meglio: possono testimoniare
che siamo state aggredite. Due povere vecchie.
Erano distrutte, avevano avuto due giornate faticose.
Tuttavia non potevano lasciare le cose in sospeso. Per
via dei rischi, e poi una signora non lascia cose in
sospeso.
Allestiamo lo spettacolo rinascimentale, cara? Disse
Giulia, che pregustava il gioco come una bambina.
Inviti la lepre a correre, disse Camilla.
I prigionieri, laggiù nella gabbia, cominciavano
a realizzare che per loro non si era messa tanto bene.
Quando ti svapora la furia omicida, di solito emergono
le preoccupazioni. Cercarono ancora di sfondare le porte.
Niente. Cercarono di sfondare la grata. Niente.
Sollecitati dalla salariata, presero a sparare al lucchetto
della grata.
Arrivano dopo il semaio, disse Camilla.
Infatti avevano scaricato le pistole con la sfuriata
di poco prima.
Che potevano fare?
Senzafaccia si illuminò tutto: il cellulare,
disse, chiamiamo rinforzi.
La ragazza madre fu fiera della genialità del
figlio: anni di studio all’Istituto Tecnico non
erano passati invano.
Tutti quanti frugarono nelle tasche alla ricerca dell’arma
finale: i cellulari.
Secondo te Lorenzo il Magnifico usava le sistole? Disse
Camilla.
Lo escluderei, ma noi siamo l’evoluzione della
specie.
E l’ansa ombrosa del salotto era attraversata
da tantissime sistole, come serpenti. Ogni rubinetto
della casa - e in quella casa non mancavano i rubinetti
- era stato collegato a una sistola, come previsto dal
piano Alfa.
Bisogna che il piano Alfa funzioni, perché non
disponiamo di un piano Beta, aveva detto Giulia qualche
ora prima, durante il briefing.
Insomma fecero penzolare le sistole dal davanzale della
finestra, come capelli grassi di una principessa trascurata.
Dopodiché aprirono i rubinetti.
Quando si affacciarono per godersi lo spettacolo videro
i prigionieri che armeggiavano goffamente coi cellulari.
Forza, prendine una, disse Giulia.
Brandirono una sistola a testa e giocarono a “spegni
il cellulare”.
Quella contro i cellulari è una battaglia di
civiltà, disse Camilla.
Poi lasciarono aperti i rubinetti del tempo.
Eccoci all’acqua, disse Camilla.
E per una volta l’espressione andava intesa alla
lettera.
Meno male che Emiliano è rotolato nel cortile,
prima, altrimenti non avresti potuto chiudere la numero
uno, disse Giulia.
Sono io che l’ho fatto rotolare dentro, le chiarì
Camilla, sono una ragazza atletica.
Hai avuto paura?
E te?
Cara, adesso non parliamo di queste cose.
Molte ore dopo, l’orco galleggiava a pancia in
giù come un mammifero marino.
Tutto grasso che cola, disse Camilla.
L’acqua era alta, ma aveva tutta l’aria
di voler salire ancora, niente da dire sull’acquedotto
cittadino, per il momento arrivava al mento degli oranghi
muti, mentre Senzafaccia e la donna del popolo si erano
aggrappati alle sbarre e cercavano di respirare. Solo
che le due principesse avevano ripreso una sistola a
testa e giocavano a colpire il volto dei prigionieri.
Per cui respirare non era facile.
Alla fine Lei è arrivata, ma non è venuta
per noi, disse Camilla.
Ma certo cara, io l’ho invitata a entrare dalla
carta da parati. Non si presenterà certo in un
putrido cortile, quando si tratterà di noi. Ma
cosa credi.
Io per primo libererei il mio Ernesto, se sei d’accordo,
disse Camilla.
Giulia fece segno di sì, non c’era neanche
bisogno di dirlo.
Camilla afferrò il retino, lo calò nell’acquario
e prelevò con attenzione religiosa il pesce della
taiga più grosso.
Vai amore mio, gli disse, e dopo averlo baciato lo buttò
nella gabbia piena d’acqua.
Quello dapprima sembrò interdetto per la confusione
e si rifugiò in un angolo, ma poi cominciò
a nuotare a mezz’acqua, come per valutare la commestibilità
di quanto gli stava intorno.
Ora sta a me, disse Giulia.
E con tutto il sentimento possibile tirò su un
bel pesce, un po’ più piccolo del precedente,
ma molto battagliero. Infatti anche se nella caduta
andò sbattere contro un ferro della grata non
si scompose e sembrò adattarsi subito alla nuova
situazione.
E così, un pesce per volta, un caro a testa,
liberarono nel cortile tutti i Lorocari.
Ora avranno più spazio, disse Camilla. Secondo
te hanno fame?
Loro hanno sempre fame, rispose Giulia. E’ giusto
che l’animale totemico mangi il nemico, si legge
in tutti i libri. E poi, con tutti gli avanzi di Emiliano
che hanno mangiato in questi anni, rimane solo che mangino
Emiliano.
Quello che non ammazza ingrassa, chiosò Camilla.
Si immaginava che, dentro, l’Orco fosse fatto
tutto di gamberi fritti e altri avanzi: la sua anima.
Appena fosse stato aperto dai pesci, avrebbero visto
l’anima cadere sul fondo.
Camilla sorrise con affetto, vedendo i suoi cari che
nuotavano, guidati da Ernesto: un condottiero e un pioniere,
come sempre.
Rimasero a guardare e applaudire, dall’alto, come
dame rinascimentali.
Che spettacolo, ne valeva la pena, disse Giulia.
Il lusso sfrenato dei Papi, commentò Camilla
commossa.
Per festeggiare stapparono un Chateau d’Yquem.
Dell’86, naturalmente.
Un soffio di ottimismo, sussurrò Camilla mentre
brindavano.
(da Le città in nero, a cura di M.
Vichi, Guanda 2006)
Enzo Fileno Carabba è nato
nel 1966 a Firenze, dove vive. Ha pubblicato per Einaudi
i romanzi Jakob Pesciolini (1992, Premio Calvino),
La regola del silenzio (1994), La foresta
finale (1997), Attila (Laterza, 2000),
La bambina della tempesta (Adnkronos, 2001).
Nel 2003 Mauvais signes è uscito in
Francia, nella collana “Noir” di Gallimard,
e poi in Italia col titolo Pessimi segnali
(Marsilio, 2004). Suoi racconti compaiono in Tutti
i denti del mostro sono perfetti (Mondadori, 1997),
Quattordici colpi al cuore (ivi, 2002) e Città
in nero (Guanda, 2006). Con Paola Nobili ha curato
Se siete arrivati fin qua, un’antologia
di racconti nati dai corsi in carcere (Le Lettere, 2005).
|