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Anno 2007
  Enzo Fileno Carabba
 
Un soffio di ottimismo
 

Enzo Fileno Carabba
1. Le principesse prigioniere

Lo spirito di Camilla aleggiava sulle stanze. E anche quello di Giulia, se è per questo.
Non che fossero Dio - una specie di Dio a due teste, eventualmente. Ma erano rinchiuse là dentro da così gran tempo che la realtà esterna si era indebolita. Uscivano solo per andare in taxi agli incontri culturali del giovedì, dove peraltro la maggior parte della gente dormiva.
Erano due donne splendide, delicate, riccamente vestite. Due signore di antica bellezza. Principesse prigioniere del tempo.
Il tempo stinge, scherzava sempre Camilla con quel sorrisetto. E in effetti la loro pelle con gli anni si era fatta grigia. Ma c’è grigio e grigio, e il loro era un grigio perla.
Vivevano nel lussuoso appartamento al primo piano, dominato dalla mente di Camilla, che determinava un ordine perfetto.
Dentro, a parte alcuni divani coperti dai lenzuoli per non fargli prendere la polvere, era tutto molto bello e armonioso, lasciava pensare a una vita degna di essere vissuta, o perlomeno ne suscitava il ricordo.
Fuori, le porte e le finestre erano blindate, sembravano attrezzate per respingere un attacco dei narcotrafficanti colombiani. Tutta quella corazza di sbarre e allarmi regalava un tocco di modernità.
Al piano di sotto invece divampava il caos, e quello era il regno di Giulia.
Anche se, dopo tanto tempo insieme, a volte le due personalità si confondevano.
Può anche darsi che non fossero poi così vecchie, ma anni di clausura in due non passano invano.
Non rispondevano mai al telefono, per nessuna ragione. A meno che non si trattasse delle telefonate di Piero, che erano annunciate da un segnale concordato.
Erano andate avanti così per molto tempo. Chiuse là dentro, a parte i giovedì, giorno in cui per due ore sognavano altrove.
Ora però era successo qualcosa che poteva ucciderle o stanarle: Piero era morto.
Sì.
Per quanto fosse più giovane di loro. Ed era su di lui che avevano sempre contato per i rifornimenti di pozione magica e quindi una serena vecchiaia.
E invece no.
Stavano lì, nel salotto, annichilite. Le sbarre alla finestra facevano passare il sole pulviscolare di fine gennaio come luce tra gli alberi.
Sono sempre i migliori che se ne vanno, disse Camilla, ma dove vanno?
Non poteva fare a meno di scherzare. Ma non è che si divertisse più di tanto, erano solo le vestigia di un’antica civiltà che uscivano dalla sua bocca, balzando via dal rossetto leggero, una civiltà a volte giocosa a volte cinica. Giulia vide che la sua amica di sempre stava quasi per piangere. D’altra parte, anche Giulia stava quasi per piangere.
Con Piero, se ne andava l’ultimo pezzo della vita di un tempo.
Giulia guardò la crepa nella carta da parati.
Recitò a memoria:
“Chi fabbrica una fortezza
attorno a sé s’illude
come ogni notte chi chiude
a doppia mandata la porta” .
Con tutto quello che abbiamo speso per l’allarme! rispose Camilla.
A parte queste loro tipiche schermaglie, in cui una faceva finta di scherzare e l’altra citava poesie, c’era una cosa che sapevano tutte e due: più che altro la dipartita di Piero poneva dei problemi pratici.
Dopo una decina di minuti di silenzio Camilla osò affrontare la questione:
Come facciamo a trovare un sostituto?
Dobbiamo andare fuori a cercare, sparò Giulia. E appena ebbe pronunciato queste parole le mancò il respiro: si rese conto dell’enormità di quello che aveva detto.
Perché ormai da anni la verità che non osavano confessare era semplice: avevano paura di uscire.
Al massimo ogni tanto facevano capolino in cortile.
Il cortile era così piccolo che era un po’ impegnativo chiamarlo cortile, più che altro era una specie di pozzo. Vi si accedeva da due porticine nell’appartamento al piano terra.
E poi una cosa era prendere un taxi il giovedì sera per sedersi tra coetanei addormentati. Un altro avventurarsi nella città selvaggia, ormai irriconoscibile, sconosciuta, alla ricerca di un sostituto di Piero.
Ma cosa dici, sei impazzita? disse Camilla, scandalizzata. Come puoi pretendere che due signore facciano una cosa simile? Andare in giro come ragazzine!
Eppure Giulia colse un bagliore negli occhi di Camilla, dietro il velo di lacrime. Un bagliore che conosceva bene, e rivedeva dopo tanto tempo. Volle credere che fosse la stessa eccitazione che sentiva lei, dietro il dolore e la paura. Il desiderio di azione.
Non abbiamo scelta: dobbiamo uscire.
Prima che il gioco resti, commentò Camilla.
Dopo una vita insieme, Giulia non era ancora riuscita a decifrare del tutto il senso delle cosiddette frasi fiorentine di Camilla, a volte le usava in un modo tutto suo. Ma quello doveva essere un sì.
Un’onda di emozione le attraversò. Non avrebbero saputo dire se era speranza o sgomento. Stava iniziando una nuova avventura.

2. L’orco


Suonò il campanello, era il suono prepotente di Emiliano.
Insisteva, come se fossero sorde.
E’ l’ora del pranzo, disse Camilla con un velo di debolezza nella voce. Ormai non c’era verso: Emiliano veniva quando gli pareva, a orari diversi, spesso assurdi, imponeva lui l’ora del pranzo.
Si parlava tanto delle giovani dell’Est schiave del racket della prostituzione, ma, a parte che quelle erano comunque assolutamente puttane, non si parlava mai delle mature nobildonne schiave dei rosticcieri.
Aprirono il portone corazzato.
La testa rossa dell’orco emerse dalla scale, sul pianerottolo, come un fungo malefico dal sottobosco, esibiva perfino delle macchie bianche che mutavano con l’umidità. Poi spuntarono quegli occhi dall’iride gigantesca, il naso che dilagava sulla faccia, gli orecchi troppo piccoli. La bocca brutale. Nell’insieme un bell’uomo.
Portava un sacchetto di plastica pieno di cibo a carissimo prezzo. Erano cose di lusso: gamberoni e roba del genere. Alimenti deliziosi, una settimana prima. Ora facevano schifo. Però il prezzo non era avariato.
L’orco spennava le principesse senza pietà, e le due non se ne rendevano conto, o non avevano scelta.
I primi tempi, quando Camilla era rimasta vedova e Giulia era andata a vivere da lei, le due principesse si curavano molto di più. E’ vero che avevano dovuto licenziare i domestici, perché non potevano più permetterseli, avendo calcolato almeno altri dieci lustri di vita. Però non se la passavano male. Erano donne vitali, e Giulia cucinava molto bene.
Andavano a fare la spesa personalmente, un’esperienza nuova che le esaltava. E esaltava anche i negozianti. Il fruttivendolo, dopo qualche anno, con le zucchine vendute alle principesse si era comprato una villa ai Caraibi, così aveva sentito dire Camilla da un’ex domestica. Ma almeno era roba sana.
Ma a poco a poco, mentre gli amici se ne andavano o perdevano di interesse, loro si erano ritirate sempre di più tra le ombre dell’appartamento, molto più vive e stimolanti: c’erano ricordi infrangibili, assolutamente veri nel presente. Giulia passava gran tempo nel caos dell’appartamento di sotto, al piano terra. Avevano cominciato a farsi portare la roba a casa. E era andata a finire che il rosticciere era diventato il loro unico fornitore di alimenti.
Il fatto che nonostante ciò si fossero mantenute in buona salute dimostra di quale tempra fossero fatte.
Una tempra d’altri tempi, cara, diceva Giulia.
Il morto è sulla bara, diceva Camilla. Voleva dire che la cosa era chiarissima.
Tenete, dolci signore, disse l’orco mimando un inchino grottesco e porgendo la busta di plastica a Giulia, visto che considerava Camilla la padrona di casa e Giulia una specie di domestica, o un’amica di passaggio.
Le due lesbiche, le chiamava, anche se non era vero.
Emiliano sorrise e uno schizzo di saliva piovve nell’occhio di Giulia: Emiliano riusciva a sputare anche quando sorrideva.
Grazie, disse Giulia con assurdo entusiasmo, cercava di ingraziarselo e subito dopo se ne pentiva, perché sapeva che era inutile, anzi mostrare debolezza peggiorava la situazione.
L’altro giorno il fritto non era granché, osò dire Camilla, con il portamento altero di sempre.
Emiliano si rabbuiò all’istante. Quando si arrabbiava succedeva una cosa strana, unica nel suo genere: il naso, che di solito stava spiaccicato su tutto la faccia, si contraeva, diventava una specie di ascia.
Ebbero paura. Erano inermi nei confronti di quell’omone avvezzo a truffare i turisti. Le barriere di classe che giustamente un tempo proteggevano le persone civili dai bruti non esistevano più.
Fanno trenta euro, decretò Emiliano senza rispondere con le parole alla critica sul fritto: stava già rispondendo con la faccia. Adesso il naso si dilatava e si arricciava, gli orecchi sporgevano più del solito, gli occhi si allargavano, i peli delle sopracciglia si rizzavano come zampe di ragno. Sembrava addirittura che i denti si piegassero per l’indignazione.
Trenta euro? Balbettò Giulia, era più del giorno prima. E aprì la busta di plastica bisunta vedendo che non c’era un granché.
Tra l’altro, un tempo Emiliano presentava i suoi troiai in cesti di vimini, ora invece anche la busta di plastica doveva sembrargli troppo.
Ehi signorina, vuoi mangiare o no, disse l’orco, improvvisamente di buon umore.
Poi indicando il pianoforte che si intravedeva nella penombra disse: col pianoforte non si mangia, ah ah ah. Tanto sono i quattrini che fanno girare il mondo.
Gli sembrava una battuta irresistibile, perché la ripeteva spesso.
Era brutale e confidenziale: doveva esistere un sindacato dei rosticcieri che gli permetteva di spadroneggiare.
Se ne approfitta per via dell’età, diceva sempre Camilla. Diceva anche: quando ero giovane i giovani non contavano nulla, ora che sono i vecchia i vecchi non contano nulla, c’è qualcosa che non mi torna, mi hanno imbrogliato, però una signora resta sempre una signora.
E’ che mi sembravano tanti trenta euro, disse Giulia a Emiliano, comunque gli consegnò un foglio da cinquanta euro.
Emiliano lo intascò, “col ventre obeso e le mani sudate”, come diceva Giulia, e poi rimase lì. Sembrava una statua di lardo.
Le due principesse avrebbero voluto rientrare e mangiare, perché comunque la cosa bella era che con l’età non gli era venuto meno l’appetito.
Ma quello rimaneva lì col grugno alzato, come un Benito Mussolini della gastronomia.
Lei mi ha dato un foglio da venti euro, disse, con un sibilo simile a un rutto.
Ma veramente, guardi, sono sicura che erano cinquanta, intervenne Camilla.
Forse, in quanto “padrona di casa”, il suo intervento avrebbe avuto maggiore autorevolezza.
Si illudeva ogni volta, da troppo tempo.
Venti euro, ripetè inflessibile Emiliano.
E fu così che il fritto andato a male venne a costare sessanta euro.
Dopo, erano avvilite per essersi lasciate umiliare ancora una volta.
Gli ci volle qualche ora per riprendersi. Per fortuna innaffiavano quei cibi pessimi con gli ottimi vini della cantina di Ernesto, ancora ne gliene rimanevano. Questi elisir portavano sempre una ventata di ottimismo.
Decisero che dovevano reagire alla situazione sfavorevole. Dovevano attenersi al piano stabilito.
Domani andiamo nel grande mondo esterno, disse Giulia.
Inviti la lepre a correre, disse Camilla, ostentando una sicurezza che non era sicura di provare.


3. Nella città dolente

In Piazza Santa Maria Novella gli spacciatori stranieri lavoravano con una certa supponenza, come fosse un’attività che avevano inventato loro.
Ma cosa si credono questi negri del Marocco, qua si spacciava già al tempo del Vasari, che infatti costruì il corridoio vasariano per spacciare meglio, disse Camilla.
Ma che idioti, a parte che alcuni sono negri albanesi, ti faccio notare, puntualizzò Giulia.
Così si spostarono in Piazza Santo Spirito, di cui avevano sentito dire un gran bene.
Le due impeccabili signore stavano lì sulla scalinata della chiesa e osservavano l’andirivieni delle persone. In piedi, con portamento altero.
In generale, erano un po’ erano elettrizzate e un po’ atterrite dalla novità del mondo esterno. Non sapevano neanche loro quale era la sensazione prevalente.
Firenze era del tutto trasfigurata, se la guardavi a altezza d’uomo: banche e negozi di scarpe sventravano le opere d’arte, irridevano la memoria e imbastardivano il futuro.
E’ come una bella donna con le gambe svuotate e riempite di pezzi di plastica, disse Camilla sistemandosi il cappellino leopardato.
Ma se alzi lo sguardo non è poi così cambiata, disse Giulia.
Neanche noi, se alzi lo sguardo, disse Camilla con una grande tenerezza verso se stessa.
La gente poi faceva schifo, una specie di incubo, ma divertente da guardare.
In realtà avevano parlato ancora, e lungamente, prima di decidersi a uscire davvero.
Ora che Piero è morto, il telefono non ci basta più, aveva insistito Giulia.
Forse potremmo provare a chiedere a Emiliano, aveva detto Camilla, senza crederci.
Ma sei pazza, cara? Rispose Giulia scandalizzata. Non sarà che hai paura di uscire? La provocò.
Proprio in quel momento Camilla si rese conto che quello che provava non era propriamente paura. Quella casa era un serbatoio di ricordi. A Camilla bastava alzare i lenzuoli che coprivano i divani per tornare quella che era. Bella, sfolgorante, felice. E i ricordi avevano una tale potenza, erano così veri.
Per questo le doleva allontanarsi.
Ma si rendeva conto anche lei che la casa non bastava. Ci voleva anche tutto il resto.
Ma come andremo in giro? Chiese.
Ma in taxi, come vuoi andare! Fu la risposta di Giulia.
Camilla era un po’ perplessa, vista la natura della missione.
La mole vaporosa di Santo Spirito le sovrastava.
Non me la ricordavo così bella, disse Giulia. Con quei due rigonfiamenti sembra che stia per spiccare il volo.
Adesso erano felici di esseri fuori, si sentivano rinascere. Come certi funghi dell’olmo capaci di rivivere dopo un prolungato congelamento. Respiravano bene. Sarà stata la magia del luogo, una grazie dello Spirito Santo.
Ma la gente non era altrettanto bella.
C’era una ragazzina che muoveva passi veloci e parlava fitto al telefonino, più parlava fitto più accelerava, con aria di grande importanza. Muoveva il culo asfittico come l’avesse collegato alla Telecom.
Sui muri si leggevano scritte grottesche, del tipo: I nostri cervelli non sono in vendita.
Ma chi li compra, disse Giulia.
Cent’ori, disse Camilla.
Le due principesse guardavano tutti, e non si può dire che non fossero ricambiate. Sembravano due sfolgoranti cipree tra ruvide patelle. Tutti osservavano incuriositi quelle due eleganti signore, bellissime, appena appena truccate, con dei cappellini miracolosi, impettite sulla scalinata della Chiesa. Scrutavano piene di speranza i movimenti dei loschi individui nel buio rossastro dei lampioni.
Le due erano eccitatissime. Ma dopo un po’ l’eccitazione cominciò a smorzarsi.
Non erano due persone fuori dal mondo. Erano due persone che per un lungo periodo avevano messo fuori il mondo. Prima di autorecludersi ne avevano viste di persone, avevano una vasta esperienza della vita. Nonostante le novità sopravvenute durante la reclusione, sapevano ancora giudicare chi gli stava di fronte.
Non gli davano nessuna fiducia, quei tipi che vagavano nella piazza. Erano meno tracotanti dei negri di Piazza Santa Maria Novella, ma non sembravano affidabili.
Secondo te, cara? Chiese Giulia.
Questi qua sono ottimi per rifornirci di tè, disse Camilla.
In effetti l’aria losca delle ombre che transitavano nella piazza non era credibile. Erano loschi in modo troppo curato. Erano drogati finocchi figli di papà, da grandi - appurato che i loro cervelli non se li comprava nessuno - si sarebbero dedicati a fare carriera.
Tra l’altro, questi di sicuro sono protetti dalle forze dell’ordine, altrimenti non potrebbero stare in questa piazza osservò Giulia, che era sempre la più concreta delle due. E noi alla nostra età non possiamo comprometterci, assolutamente.
Eppure io non ne posso più, disse Camilla.
Non fosse stato per la poca luce, si sarebbe visto che il suo volto cominciava a essere stravolto. Aveva bisogno della pozione magica: la classe è classe ma anche la chimica ha le sue ragioni.
Sta’ calma, le intimò Giulia con lo sguardo del grande condottiero. E recitò ispirata:
“Forse conosceremo noi la piena
felicità dell’onda”.
Con questi versi si riferiva alle sensazioni indotte dalla pozione magica.
Cara, sei tu la mia droga, disse deliziata Camilla.
Lo so, fu la risposta. Aveva parlato con tono sicuro, come sempre, per confortare l’amica di due vite. Ma anche lei segretamente vacillava. Comunque concluse: cara, per conoscere la piena felicità dell’onda dobbiamo spostarci da qualche altra parte, qui non raccattiamo pallino.
Avevano esagerato a fare le sbruffone. Era solo il timore di non sapere come comportarsi che gli aveva impedito di intavolare una contrattazione. Di solito Piero pensava a tutto, faceva arrivare tutto a casa. Un gentiluomo d’altri tempi. Solo che gli altri tempi se li portava via il Tempo, era un cannibale.
Proviamo in piazza Dalmazia, aveva detto Giulia, ne ho sentito dire un gran bene. Ma neanche lì avevano trovato piena soddisfazione, tutto fumo e poco arrosto, o era sempre il solito timore che le bloccava.
E così si erano spinte sempre più oltre, avanti avanti, nella periferia. Avanzavano a piedi nella città dolente. Casermoni che neanche sapevano esistessero.
Chi ha potuto fare questo? diceva Camilla stupefatta. C’è stata un’altra guerra e il nemico ha costruito invece di distruggere?
Dev’essere una delle famose periferie degradate, disse Giulia, le ho sentite nominare.
Io non ce la faccio. Dovremmo smettere di cercare, fece Camilla.
Chi cerca trova e chi non cerca perde, sentenziò Giulia.
E questo? chiese stupita Camilla, di solito era lei che tirava fuori frasi così.
Tipico detto fiorentino, le fece il verso Giulia.
Sarà, mai sentito.
Un’ora dopo stavano per risolvere il problema dell’approvvigionamento.
Lo stradone si srotolava come la scia di una gigantesca lumaca verso la fine del mondo.
Lo sai dove porta? Chiese Camilla.
Non hai visto il cartello?
E’ che per essere una ragazzina non ci vedo più tanto bene.
C’era una luna piena come al tempo degli etruschi.
Aspettavano un ragazzo.
Come al primo appuntamento, aveva detto Giulia.
Chissà perché gli era sembrato il tipo giusto. Intuito femminile, probabilmente.
Questo qua viene a pipa di cocco, aveva detto Camilla.
Cade a fagiolo, aveva fatto eco Giulia.
Gli era sembrato un così bravo ragazzo che, nonostante la situazione non del tutto legale, non si erano affatto peritate di dirgli la zona del centro in cui abitavano, anche per rimarcare la differenza di classe che c’era tra loro e quel periferico degradato, che comunque non aveva colto la sfumatura.
Il buon selvaggio di oltrelemura non si era mostrato stupito che due signore d’alto rango uscite da un’altra era come Veneri dal mare volessero concludere una transazione di affari con lui in quel tempio del cemento. E neanche era parso diffidente. Aveva solo detto che lui non aveva quello che cercavano e le doveva portare da un altro che ce l’aveva. Un tale Marco, in cui riponeva la massima fiducia.
Le due avevano aspettato dieci minuti sull’unica panchina di un giardinetto spelacchiato, di fronte a un antro orrendo con l’insegna luminosa Bar Eden, probabilmente autoironica.
Qui se chiedi un tè ti danno un topo morto da mettere nell’acqua calda tenendolo per la coda, al posto della bustina Twinings, aveva ipotizzato Camilla.
Guarda che secondo me te lo danno vivo, cara, aveva risposto Giulia.
Mentre Giulia guardava lo stradone, aspettandosi da un momento all’altro di veder spuntare la lumaca gigante di ritorno dalla fine del mondo, era tornato invece il ragazzo e aveva detto: il mio amico non c’è, faccio io.
La cosa non quadrava mica per niente.
Di colpo era sparita l’euforia dell’avventura ed era tornata quella consapevolezza di essere indifese.
Era terribile, chiunque poteva approfittarsi di due povere vecchie, quando venivano meno le convenzioni sociali che le proteggevano.
Il ragazzo era vago e ridacchiava a sproposito. Gli si erano gonfiati i brufoli e gli occhi, che poi erano molto simili. Era cambiato. In quei minuti doveva essersi fatto. Non era più rispettoso, per niente. Anzi. Invitava le due a seguirlo in un vicolo di cemento. Più che altro era un ordine.
Le guardava e rideva, rideva così tanto, piegato in due sulla panchina. Ma non era una risata allegra, era una risata minacciosa.
Eccoci all’acqua, disse Camilla.
Era più umiliante che con Emiliano. Questo qua era solo un ragazzetto. Che non aveva vissuto un decimo delle cose che avevano vissuto loro. Però questo non lo induceva a rispettarle, bensì a deriderle. Il mondo era in mano a persone deboli ma cattive. Almeno un tempo i cattivi erano forti.
E com’era brutto, il ragazzetto. Erano tutti più brutti, più deboli di un tempo.
Ernesto, il marito di Camilla, avrebbe potuto schiacciarlo con un mignolo, questo qua.
Giulia era in piedi accanto a lui e muoveva i piedi per il freddo e per la paura. Il ragazzetto, certo uno studente modello in qualche istituto con la didattica sperimentale, stava ancora piegato senza respiro e diceva: ora mi seguite. Stava tirando fuori un coltello. Ma con calma. Sapeva che quelle due poverette non avevano scampo, come minimo le rapinava.
Giulia ai suoi tempi era stata campionessa di nuoto e faceva ancora ginnastica quotidianamente.
D’altra parte, finché sono viva sono ancora i miei tempi, pensò.
Lo prese la nuca, e spinse in basso con tutte le sue forze.
Quello una cosa del genere mica se la aspettava. Non fece in tempo ad apprezzare il contatto con gli anelli di classe che impreziosivano la mano di Giulia, e del resto sarebbe stato comunque inadeguato. Lo spigolo della panchina entrò in rotta di collisione con bocca del ragazzetto e ci fu uno strano rumore.
Piglia e porta a casa, disse Camilla.
Sulla panchina c’era una scritta volgarissima: i piedi delle fiche sono boni.
Il ragazzetto rotolò in terra senza un lamento, improvvisamente serio, ai piedi delle due signore disgustate.
Non ride più, osservò Giulia.
Non avrai esagerato? Si preoccupò Camilla.
E’ andato, disse Giulia frugandogli in tasca.
Andiamo anche noi.

4. Il ritorno

Due principesse prigioniere hanno bisogno di incantesimi.
E’ per questo che le due amiche si drogavano.
Custodivano tutto l’armamentario in uno cofanetto prezioso, che lo zio Neri (come minimo un prozio della nonna) aveva portato dall’India all’inizio del secolo.
Non usavano mai termini come “droga”, o “siringa”, o roba del genere. Parole brutte che non rendevano l’idea.
Passami la pozione magica, diceva per esempio Camilla a Giulia, che gestiva tutte le cose – anche quella cosa - dal punto di vista pratico. In realtà avrebbe potuto farlo anche Camilla, ma c’erano dei ruoli da rispettare, era come una recita, o un rito religioso.
Piero faceva arrivare la pozione magica dal lontano Oriente. E loro fantasticavano che la pozione viaggiasse su carovane di cammelli attraverso luoghi favolosi, prima di giungere a loro, anche se sapevano benissimo che era più comodo portarla in aereo.
Certo non potevano pensare di trovare la medesima ambrosia in Piazza Santo Spirito o Piazza Dalmazia, ma per il momento erano disposte ad accontentarsi ricorrendo a sostanze magiche più comuni e meno divine.
Non che fossero delle drogate vere, di quelle che fino da giovanissime rovinano la vita a sé e agli altri. Loro no. Non avevano mai dato disturbo a nessuno. Avevano cominciato a drogarsi da pochi anni, in tarda età.
Tanto non abbiamo nulla da perdere, aveva detto Camilla. Gli uomini non ci interessano più, la bellezza e la salute ci stanno abbandonando.
Veramente staranno abbandonando te, aveva ribattuto l’amica. Ma poi si era buttata con grande entusiasmo nella nuova avventura.
Però è vero che erano belle.
Quando erano giovani c’era in loro una specie di luccichio silenzioso e questo luccichio silenzioso con gli anni si era accentuato. Se pure un po’ sepolto dentro di loro.
La morte è una siringa vuota, disse Giulia contravvenendo per la prima e l’ultima volta al tacito patto di non nominare mai la parola “siringa”. Era scossa dagli avvenimenti del giorno prima.
Riempila, cara, rispose Camilla. Un po’ tremava. Anche lei non si era del tutto ripresa.
Sei ancora giù per il ragazzo che è andato a sbattere contro la panchina? Ho avuto una certa responsabilità nell’incidente, disse Giulia. Sono cose che possono far venire l’esaurimento nervoso.
Più che altro parlava per sé. In fondo, non aveva mai ucciso un uomo, anche se poi quello era minorenne.
Neanche un po’. A volte non puoi fare la frittata senza rompere lo spacciatore, disse Camilla.
Risero.
E cominciarono il rito.
Emiliano era in grado di fare più cose insieme. Ora per esempio si puliva il naso, incartava del prosciutto e stava pensando a quali avanzi andati a male propinare alle due lesbiche, come le chiamava lui anche se non era vero. Sua moglie gli urlava nell’orecchio che lui era troppo generoso, e aveva ragione. Doveva essere meno ingenuo. Tra l’altro la sua era una famiglia di intellettuali: il figlio faceva il maestro di inglese. A parte questo, cosa portare alle vecchie? Era incerto tra le triglie rancide e un gatto in umido chiamato coniglio. Stava quasi per decidersi quando vide un ragazzino con la faccia tutta distrutta e rabberciata scendere da una macchina.
Emiliano era l’occhio del quartiere.
Dopo il ragazzino scesero una donna, e altri due ragazzi più grandi con l’aria dei delinquenti abituali o delle fiamme gialle in borghese. Si misero a fare domande al fruttivendolo.
Emiliano non li aveva mai visti prima. E’ vero che passavano continuamente fiumi di persone che non aveva mai visto prima, ma si trattava di turisti. Questi qua invece non erano turisti. E di sicuro non si informavano sul prezzo del cavolfiore.
Cosa stavano cercando?
Emiliano non uscì. Non voleva sembrare curioso. Aspettò che venissero da lui.
Perché la questione era questa: il ragazzino della panchina non era affatto morto, si era solo un po’ sfasciato la faccia.
Aveva raccontato la cosa alla mamma, la mamma se l’era presa. Ma come potevano fare una cosa del genere al suo bambino, quelle streghe? E così lo sfasciato aveva ripensato al fatto che le due vecchie troie gli avevano detto dove abitavano, più o meno.
Adesso si trattava di trovarle.
Non avevano avvertito le forze dell’ordine perché non erano quel genere di persona, avevano una formazione diversa. E poi sarebbe stata dura spiegare cosa ci faceva lo studente modello con le due signore. Le autorità avrebbero d’istinto dato ragione alle vecchie.
La questione era da chiarire in privato. E si erano portati dietro due amici di quelli che chiariscono bene le questioni. Le streghe dovevano pagare per il danno, e pagare parecchio.
Le principesse deliberarono di uscire ancora: ci stavano prendendo gusto. Erano decenni che non uscivano per due giorni consecutivi. Sentivano dentro di sé tutta l’eccitazione dell’adolescenza.
Non sapevano cosa le aspettava.
Di solito il tempo passava di nascosto, invece ora era tornato a essere una cosa solida, dava soddisfazione.
Mi sento rinascere, disse Camilla respirando con voluttà.
“O sangue mio come i mari d’estate” recitò Giulia.
Ogni tanto ritornavano sull’argomento del ragazzo della panchina, un pessimo fornitore.
Non bisogna piangere sul latte versato, diceva Giulia.
D’altra parte noi non abbiamo versato latte, diceva Camilla.
Brava cara!
Erano euforiche.
Passavano davanti ai negozianti che anni prima avevano “tradito” per Emiliano. In passato gli avevano “tolto il saluto” per qualche torto subito, tipo una mela ammaccata o una busta di cibo per pesci con uno strappo. Ora invece li salutavano affabilmente, benevole verso i sudditi, e quelli le guardavano sbigottiti, come una doppia apparizione. D’altra parte i sudditi erano rimasti in pochi. Per lo più avevano chiuso, per far posto a sempre nuove banche.
L’unica cosa immutabile era il mendicante cieco all’angolo, doveva essere immortale. Anche perché, come tutti i mendicanti ciechi, in realtà oltre a vederci benissimo era miliardario e quindi poteva permettersi cure all’avanguardia e trattamenti di mummificazione che gli conferivano quell’aria solenne.
Erano così radiose che allungarono venti euro all’immortale.
Si spinsero fino al negozio degli animali per comprare il cibo per i Lorocari, come li chiamavano. Di solito gli arrivava insieme alla pozione magica, sempre grazie a Piero.
Infatti non è che fossero perfettamente sole in casa. Avevano un acquario dove nuotavano i Lorocari: tozzi pesci voraci che le due dame trovavano irresistibili, un po’ perché erano il grande amore di Ernesto, il marito di Camilla. Ma anche perché rappresentavano una bellezza diversa rispetto a quella bellezza armoniosa nel cui culto erano state educate. Una bellezza più rude e selvatica. Passavano lunghe ore a guardare le lente evoluzioni dei Lorocari.
Dopo un po’, a forza di fissarli, forse grazie anche alla pozione magica, la testa di quei pesci diventava la testa di persone che avevano amato, tra cui Ernesto, e allora la cosa si faceva ancora più interessante.
Non era pazzia, solo amore, nostalgia e sogno.
E poi Ernesto anche da vivo era un nuotatore formidabile.
Uno dei loro argomenti preferiti era la corretta alimentazione dei Lorocari. In verità i pesciolini - sleppe da mezzo chilo l’uno - andavano pazzi per gli avanzi di Emiliano. Il che forse significava che mangiavano qualsiasi cosa. Erano pesci della taiga, capaci di sopravvivere in situazioni estreme, così aveva detto il marito di Camilla quando li aveva portati da uno dei suoi viaggi in terre lontane.
Che schifo, era stato il commento della moglie.
Ma poi, nella sua seconda vita, aveva imparato ad amarli. E in effetti negli anni i Lorocari si erano adattati a situazioni estreme: come la vita da ectoplasmi delle due principesse. I pesci avevano prosperato, dimostrando che la natura selvaggia, cioè in definitiva la vita, si trova benissimo anche tra i fantasmi, e ora anzi c’era il problema che l’acquario era troppo piccolo. E da tempo le principesse cercavano altre soluzioni per i Lorocari che nell’estasi della pozione magica assumevano le sembianze degli affetti.
Quando li contemplavano non erano né sveglie né addormentate. E superavano il tempo.
Possessione sciamanica, diceva Camilla.
“Trasumanar significar per verba
non si poria” diceva Giulia.
Ora stavano tornavano indietro, tutte giulive. Ripassarono dall’angolo presidiato dal mendicante. L’immortale probabilmente era il proprietario dell’intero palazzo e stava là seduto fuori a sorvegliare, o così per pigrizia e per vezzo. Alzò la testa, erano una decina d’anni che non lo faceva, di solito stava a capo chino. Le guardò e disse:
Attente, Senzafaccia vi cerca.
Probabilmente lo fece per riconoscenza, per via dei venti euro. Non che ne avesse bisogno, ma aveva apprezzato il gesto.
Le due si guardarono senza comprendere il senso dell’avvertimento, ma capivano che era un avvertimento.
L’immortale stava proprio sull’angolo. Sullo spigolo. Camilla sporse cauta il collo e li vide senza essere vista. Per primo riconobbe Emiliano. Ma non gli ci volle molto a capire chi era Senzafaccia.
Affrettiamoci, disse.
Si mimetizzarono nella folla dei turisti, una jungla in movimento. Intanto cercavano di capire il significato di quello che avevano visto.
- Quando vedi un morto che va in giro di solito vuol dire che è vivo, disse Camilla.
- “Per me questo burattino è già morto, ma se per caso non fosse morto vorrebbe dire che è ancora vivo” recitò Giulia.
- Vivi o morti, i giovani di oggi sono idioti.
0. Almeno quanto quelli di ieri, cara. Meno male che non dobbiamo preoccuparci delle cose di cui si preoccupano i giovani.
- Questi giovani drogati mi fanno schifo
0. Ma poi hai visto come si riducono, che aspetto trasandato? Con tutte quelle bende in disordine!
0. Ma secondo te Emiliano gli ha detto dove abitiamo?
Avevano paura a tornare a casa ma erano stremate. E poi non potevano abbandonare i Lorocari.
Emiliano non aveva resistito: era uscito casualmente e aveva intercettato i cercatori. Quando la madre premurosa di Senzafaccia gli aveva chiesto se sapeva dove abitavano le vecchie, Emiliano, stupefatto, aveva capito subito di quali vecchie parlasse. Però non gli aveva detto la verità: era rimasto sul vago, tra il sì e il no, come se stesse parlando di due nomadi.
Non capiva cosa volevano da loro e temeva che intendessero rubargli l’osso. Era lui il padrone delle due vecchie, cribbio! Se le era lavorate e aveva dei diritti, come gli diceva sempre sua moglie.
Mentì. Disse che voleva saperlo anche lui, dio santo, dove abitavano esattamente quelle, perché con tutte quelle arie snob in realtà erano delle barbone e gli dovevano un sacco di soldi. Lui era un onesto lavoratore e non era giusto che gli rubassero il pane che si sudava con la fronte.
Ma ora vedrai che le troviamo. Così disse, per prendere tempo e capire meglio.
Sul fatto che il suo pane fosse sudato aveva ragione.
Un trentenne lungo lungo, con aria scema ma furba, individuò le due vecchie nella folla. Gli si parò davanti. Raccontò una storia confusissima e penosa. La morale era: potevano le due signore anticipare dei soldi? Lui gli avrebbe lasciato una scatola, poi sarebbe tornato a riprendere la scatola e gli avrebbe reso i soldi, anzi un po’ di più, per il disturbo. Si rivolgeva a loro perché si vedeva che erano due persone per bene. Con tutti i delinquenti che c’erano in giro non si fidava di altri. E sorrise amabilissimo.
Senta giovanotto, non è aria, disse Camilla.
Ma il tipo non capiva la metafora. Allora Camilla spiegò meglio: Dovresti levarti dalle palle.
Quello realizzò e sparì. Giulia rimase a bocca aperta, affascinata dall’uscita dell’amica.
La risposta fa la signora, disse Camilla compiaciuta.
Però non potevano vagare per l’eternità. Dopo un’altra mezz’ora non ne potevano più. Decisero di rischiare, di tornare a casa e di prepararsi all’assedio, sempre che quelli non fossero già lì e le stessero aspettando. Tutto questo fu espresso con una sola parola:
Andiamo, disse Camilla.
Sì, ma prima passiamo dal fabbro, disse Giulia.

5. L’attesa


Se il primo piano era un placido lago di ricordi, il pianterreno, regno di Giulia, era un mare di ricordi in tempesta. Bisognava attraversarlo per raggiungere il minuscolo cortile.
Tutto l’appartamento girava attorno a quel cortile, a cui era possibile accedere da due porticine, una di fronte all’altra, su lati opposti. Da tempo immemorabile erano chiamate porticina numero uno e porticina numero due, non si sa perché.
I muri del cortile erano coperti di una sostanza nera e verde. Una sostanza viva, probabilmente un incrocio tra muschio e muffa.
Il fabbro era confuso. Le due pazze lo avevano trascinato a casa con l’imperio di molto tempo prima, col piglio di quando l’intero quartiere si inchinava a un loro cenno. Ma l’appartamento al pianterreno testimoniava che qualcosa era mutato. Erano passati per miracolo: quel posto era un caos indescrivibile di stanze morte, sembravano i resti di un naufragio, come se quel disordine fosse un ritratto del loro cervello.
Poi attraverso la porticina numero uno lo avevano fatto entrare in quel cortile simile a un pozzo e ora chiedevano una grata che lo coprisse come fosse un tetto.
Ma perché volete una grata simile? Il fabbro non riusciva a capacitarsi.
Ma per i ladri, rispose prontamente Giulia, è già due volte che ci entrano in casa calandosi dall’alto.
Ma perché allora volete che la grata protegga solo il pianterreno e non anche il primo piano, visto che abitate là? Fece questa domanda cercando di essere paziente, come se più che una domanda fosse una spiegazione, ma non capiva.
Le cose preziose le teniamo al pianterreno, gli disse Camilla, e gli strizzò l’occhio.
La cosa non tornava, perché il primo piano era blindato.
E’ un trucco, rispose Camilla.
Gli chiesero di rafforzare le porticine e di metterci delle guarnizioni di gomma che non facessero passare l’acqua in casa. Un passo decisivo nella loro guerra ai reumatismi.
Poi basta, finestre sul cortile tanto non ce n’erano, al piano terra.
Quei discorsi non avevano senso. Con la grata, che bisogno c’era di rafforzare le porte, e cosa importava se c’erano finestre o meno?
Poi saltarono fuori con altri dettagli che lui non capiva assolutamente.
C’era un buco da cui defluiva l’acqua, perché quando pioveva forte il cortile si allagava subito, con una velocità incredibile. Ebbene, gli chiesero di tapparlo, perché da lì arrivavano certi topi bruttissimi.
Erano richieste assurde e contraddittorie: da una parte pretendevano che l’acqua non entrasse in casa, dall’altra volevano tappare il buco che la faceva defluire. Ma il fabbro aveva una mentalità matematica: se pagavano avevano ragione loro. E nonostante il naufragio qualche soldo doveva essergli rimasto.
Potrei venire la prossima settimana, disse.
Ma noi ne abbiamo bisogno adesso.
Impossibile, ribattè pensoso carezzandosi i peli dell’orecchio con il metro. Ma quando Camilla con gesto soave tirò fuori il libretto degli assegni, il fabbro si risolse fare tutto a velocità record, come gli chiedevano. Dopo tutto era di buon cuore. E poi quelle avevano una strana determinazione negli occhi.
Chiamò i suoi figli e si sbrigarono.
La nottata passò. Senza che arrivasse nessuno.
I pesci planavano quieti. Le principesse non dormivano.
Forse ti sei sbagliata e Senzafaccia non era lo spacciatore, disse Giulia.
Eccome se era lui.
Forse non ci stanno cercando.
Coraggio a dargliene: eccome se ci stanno cercando. Ma ci troveranno pronte, stai tranquilla.
Certo cara.
Cercarono anche la pistola del nonno Ludovico, quella col manico di madreperla.
Non c’è, disse Giulia.
Sarà stata spostata con la guerra, disse Camilla. Ma non ne avremo bisogno.
Non era male la sensazione dell’attesa. Si sentivano forti.
Camilla suonava il pianoforte, Giulia guardava la carta da parati. Sia la musica che la carta da parati parlavano loro di storie lontane.
Parlavano. Ridevano. Ricordavano. Erano struggenti e sarcastiche. Pronte all’azione.
Secondo te quando arriverà? Disse Camilla.
Quando arriveranno vorrai dire, ribattè Giulia, sempre pragmatica.
No, quando arriverà. Lei, intendo.
Ah… Lei, intendi. In realtà Giulia sorvegliava sempre, perché sapeva che sarebbe arrivata da una crepa nella carta da parati.
Sì, ormai non siamo più delle ragazzine.
Ti ricordo che non lo siamo mai state, siamo sempre state delle signore, cara. E comunque, mi interessa di più capire quando arriveranno loro.
Sì ma Lei non potremo tenerla fuori con una grata.
Così dicono.
Potrebbe essere il nostro nuovo fornitore, visto che non riusciamo a trovarne uno degno della nostra classe.
Giulia si illuminò:
Potrebbe essere, sono sicura che Lei è piena di pozione magica.
Se la roba è buona, non ne faremo una questione di prezzo, osservò Camilla con dolcezza.
Così come si era progressivamente ritirate dal mondo, allo stesso modo si erano ritirate da certe zone della casa. Nella battaglia contro il tempo, concedevano territori fisici, ma ampliavano i sogni. L’appartamento al primo piano era spazioso, ma le due principesse trascorrevano gran parte del loro tempo in un’ansa del salotto dove avevano riunito le cose fondamentali: il pianoforte, l’acquario e la televisione. La carta da parati c’era già. Lo scrigno indiano dello zio Neri (come minimo un trisavolo), che custodiva gli strumenti per officiare il rito della pozione magica, era a sua volta nascosto in uno scrittoio pieno intarsi e di cassetti.
- Le buone cose di ottimo gusto, diceva Giulia.
- Non faceva “le buone cose di pessimo gusto”, la poesia di Gozzano? Chiedeva Camilla.
- Gozzano era un barbone.
- Non è vero, fossi nata prima lo avrei assunto come arredatore.
- Sarebbe stato un errore, il tuo gusto è impareggiabile.
In quel loro rifugio i divani non erano coperti dai lenzuoli.
La televisione era sempre accesa, senza audio. Un quiz condotto da Gerry Scotti dava la cultura alle masse.
Poi apparvero dei tipi con bandiere verdi: non si capiva se erano leghisti o militanti di Hamas.
Ogni tanto facevano ricorso alla pozione magica, quel poco che avevano sottratto a Senzafaccia.
Guardavano i pesci, sperimentando ancora una volta la possessione sciamanica nel centro di Firenze, uno dei posti più adatti. Vedevano i loro mariti galleggiare nel tempo e chiedere cibo.
L’ansa ombrosa che era il centro della loro vita aveva una finestra che dava sul cortile.
Ci pensi che nel Rinascimento riempivano d’acqua il cortile di palazzo Pitti e ci facevano le battaglie navali? Con vere navi. E i Medici guardavano la battaglia dalle finestre, disse Camilla.
Non era indifferente al lusso. Da bambina aveva letto queste parole in un libro di scuola: Il lusso sfrenato dei papi. Era il titolo di un capitolo. Nelle intenzioni dell’autore doveva essere una critica severa, ma nella sua mente di bambina era suonata come una cosa irresistibile.
Già, rispose Giulia, dovremmo farla anche noi la battaglia navale. Potremmo riempire d’acqua il cortile con le sistole.
Chiamavano sistole i tubi di gomma, come tutti a Firenze.
Il discorso della battaglia navale lo avevano già fatto infinite volte ma gli piaceva sempre fantasticare.
In effetti erano piene di tubi di gomma, in bagno e in cucina, Risalivano al tempo in cui il cortile era pieno di piante, e ancora da laggiù saliva un profumo tetro.
Quelli arrivano, e non useranno le buone maniere, disse Giulia. Quanto resisteremo?
Ma Camilla non la ascoltava, si era rimessa al pianoforte Suonava qualcosa di nuovo. Canticchiava, perfino.
Ma che roba è? Disse Giulia. Di solito l’amica storpiava Chopin.
Camilla senza interrompersi disse:
E’ una nenia che la mia balia mi cantava da bambina. Me l’ero scordata, mi è tornata in mente ora, dopo tutti questi anni.
Per l’esattezza, non è che i pesci della taiga semplicemente mangiassero gli avanzi di Emiliano, così, di malavoglia. I Lorocari adoravano gli avanzi di Emiliano.
Giulia guardava il modo in cui si contendevano una crocchetta bisunta.
Gli animali totemici divorano il nemico, diceva sempre Giulia.
Il morto è sulla bara, rispondeva Camilla.
L’attesa non finiva mai. Non si sentivano più così forti.
Ma arriveranno? Chiese per la ventesima volta Camilla smettendo di suonare.
Arriveranno arriveranno.
Non pensavo che ci tenessimo così tanto alla vita, alla nostra età.
Pensa per te, cara. Io sono di sei mesi più giovane.
Per cinque minuti stettero affacciate alla finestra, guardavano il cortile che pareva un pozzo.
Mi sembra tutto in regola, disse Camilla.
Ti ricordi quando era pieno di piante? Come sembrava più grande allora!
Ere geologiche fa, bambina.
Più che altro guardavano la grata, che arrivava a un metro e mezzo dalla finestra.
Che bella grata, disse Giulia come parlasse di un tramonto. Pensi che reggerà?
Vedrai di sì, prima che il gioco resti.
L’aveva appena detto che suonò il campanello.


6. Nel labirinto del tempo

C’erano stati tempi più giusti, tempi normali, in cui al suono del campanello accorreva la cameriera. Ora facevano tutto loro. Perfino le pulizie. Nonostante l’antico benessere dovevano stare attente con i soldi. Era soprattutto Giulia che teneva i conti: secondo i suoi calcoli aggiornati avevano soldi per soli altri tre lustri di vita.
Altrimenti potremmo derubare quelli che cercano di truffare le vecchiette, aveva detto una volta Camilla, nessuno ci denuncerebbe.
Era un’idea che dovevano rispolverare, se sopravvivevano.
Rita Rita, la nostra bellezza sfiorita disse Giulia con aria ispirata.
Ogni tanto diceva delle cose così, assurde, per divertimento, o per infondere coraggio a sé e all’amica nei momenti critici.
Pensa per te, e poi io mi chiamo Camilla, fu la risposta. Era concentrata sull’azione prossima ventura.
Rimise con dolce calma la copertina sulla tastiera. Era una specie di sciarpa da pianoforte, fatta dalla bisnonna. Poi chiuse il coperchio di legno.
Avevano anche indossato le perle del Mare del Diavolo. Loro le chiamavano confidenzialmente perle del diavolo. Non che non fossero sempre eleganti, ma oggi di più: aspettavano visite.
Il campanello suonò ancora. Rimbombava nella casa. Era il destino che bussa alla porta, ma un po’ più isterico rispetto a quello della quinta di Beethoven.
Dobbiamo andare, disse Giulia.
Sarà Lei o saranno loro?
Potrebbero anche essere venuti insieme, sorrise Giulia guardando la crepa nella carta da parati.
Non facciamoli attendere troppo.
Salutarono con un cenno carico di sentimento i Lorocari e andarono. Potevano anche non vederli mai più.
Emiliano cominciava a spazientirsi. Quelle non aprivano. Che avessero capito tutto? Strano, visto che non aveva capito bene neanche lui. Era chiaro che i quattro a cui si era unito non volevano portare un regalo alle due galline pazze dalle uova d’oro. A occhio volevano dei soldi. Ma lui perché era lì? In prima fila, con il sacchetto del cibo a perfezionare l’inganno. Emiliano fu preso dal dubbio di aver sbagliato. Ma poi si ricordò che li stava aiutando perché non aveva scelta. Quella era gente che non scherzava, soprattutto gli amici della madre dello sfigurato. Non aveva scelta, li aiutava e al tempo stesso li controllava, dato che le due vecchie erano roba sua. E così se c’era da arraffare avrebbe arraffato.
Invece di aprire il portone col pulsante accanto al citofono, come facevano abitualmente, scesero giù. Alla fine delle scale c’era un corridoio e in fondo il portone. Sulla destra c’era la porta dell’appartamento del pianterreno.
Signore, aprite, lo so che ci siete, risuonava la voce di Emiliano con un tono che secondo lui doveva risultare amichevole.
Non capiva perché non aprivano. Certo non potevano sapere cosa bolliva in pentola. Cominciava a provare una certa apprensione, anche per gli sguardi obliqui dei suoi compagni. Non è che davvero quei quattro volevano pestare le galline? E se poi la polizia incolpava lui? No, impossibile che arrestassero uno con una rosticceria così ben avviata.
Sentì la voce della vecchia sfiatata:
Sto arrivando, c’è il citofono rotto, arrivo arrivo.
Sentiva il rumore dei piedi che strisciavano freneticamente.
Le aveva in pugno, quelle vecchie. Era anche una rivalsa sociale. Rivolse un sorriso di trionfo alla madre del relitto, però quella rimase impassibile come i suoi due amici. Soltanto il ragazzetto sotto le bende ridacchiava tutto eccitato, come avesse sentito la parola culo durante una lezione scolastica.
Non andarono subito a aprire il portone.
Camilla dischiuse la porta dell’appartamento del pianterreno: il regno lussureggiante di Giulia. Secondo la quale non era caotico, era ricco. Un regno a più strati, c’era di tutto. Dai tappeti berberi ai gusci di tartaruga marina. Sedie che spuntavano come scogli, armadi scuri che si ergevano come montagne. Lucerne. Ciarpame. Cose preziose. Cose incomprensibili. Pile di riviste. Un numero sorprendente di letti. Piantine bonsai secche, mummificate, chissà da quanto tempo. Corni di rinoceronte dell’avo esploratore, orologi a cucù. Qualsiasi cosa. E poi, sopra tutto, le conchiglie: splendevano appoggiate un po’ ovunque, come sirene nella tempesta.
Aspetta me prima di metterti a correre, cara disse a Camilla con dito ammonitore.
Si abbracciarono brevemente nell’ora fatale, con un’intensità senza smancerie. Se una delle due sentì le lacrime salire, non lo dette a vedere.
Stai attenta, bambina, rispose Camilla.
Ormai le abbiamo in pugno, disse Emiliano quando il portone cominciò a aprirsi. La casa era la loro corazza, se ci entravi dentro erano inermi come grossi paguri.
La banda dei quattro fremeva di impazienza. Ma Emiliano sapeva essere cauto.
Vide solo la faccia della pagura Giulia, quindi la pagura Camilla doveva essere rimasta su. Bisognava essere gentili, o quella non avrebbe aperto la porta di sopra.
Oh, cara signora buon giorno ho qui degli amici che avrebbero piacere…
Ma non fece in tempo a finire la frase che Giulia si girò e schizzò via nel corridoio a una velocità insospettata. Li lasciò tutti a bocca aperta. Non sapevano che Giulia e Camilla facevano ginnastica tutti i giorni.
Però la principessa aveva fatto in tempo a vedere il volto feroce e determinato della madre di Senzafaccia. Una ferocia ordinaria, da donna del popolo.
Dagli, urlò la salariata della strada. Una specie di scimmia mascolina.
Giulia raggiunse Camilla e disse: svelta seguimi.
Si buttarono nel caos dell’appartamento del pianterreno. Scavalcarono agilmente una montagna di antichi giocattoli e si ritrovarono davanti una specie di radura, uno spiazzo di terreno libero circondata dai resti delle maree del tempo come da una foresta. Dalla radura partiva un vialetto comodissimo: chiunque sarebbe andato di là, visto che la strada era sgombra. E infatti Camilla lo imboccò.
No, le disse Giulia tirandola per un braccio, è un inganno. Vieni.
E la fece strisciare sotto un letto che avrebbe potuto ospitare un’orgia di ippopotami.
Veramente quello non era il caos. Era un labirinto. Si inoltravano nel cuore del labirinto. Giulia si muoveva con sicurezza assoluta. Giulia era come il Minotauro e Camilla come Teseo, solo che il Minotauro e Teseo si intendevano benissimo.
Camilla la seguiva piena di fiducia. Per anni aveva chiesto a Giulia di mettere ordine in quel ciarpame, e per mettere ordine intendeva buttare via, o al limite mandare i cristalli di Boemia ai bambini del Terzo Mondo. Ma ora era contenta che Giulia non l’avesse fatto.
Avevano una paura che le esaltava. Se quella era la fine, era eccitante. Se Lei era entrata con Loro, non le avrebbe trovate piagnucolanti. Anche perché tra Signore non sta bene, come diceva sempre Camilla.
Comunque intanto scappavano, non era ancora finita. Per niente.
I due solidi amici dell’impiegata dozzinale sorpassarono con una virile spallata Emiliano e entrarono per primi nell’appartamento del primo piano. Avevano un’aria temibile, sicura, e fecero subito vedere quello che sapevano fare inciampando nel tappeto persiano e battendo una boccata memorabile contro il canterano stile impero. La dentatura di uno di loro ne risultò notevolmente ridimensionata. Si vede che era un destino, perdere i denti, per Senzafaccia e i suoi amici.
Il tappeto dello Zio Ale, ridacchiò Giulia, ci inciampo sempre anch’io. Ma sono più agile nella caduta.
Più avanzavano più sembrava una giungla viva. Tutti quegli oggetti si erano imbevuti di vita, negli anni. E ora la rilasciavano lentamente, come radioattività. Per non parlare delle conchiglie, che erano l’anello di congiunzione tra la Vita e l’Arte.
Per permettere i lavori del fabbro&famiglia Giulia aveva liberato un passaggio, una specie di sentiero nella foresta amazzonica. Ma dopo che la grata del cortile era stata piazzata e la porta rinforzata e tutto il resto era stato approntato, allora Giulia aveva rimesso tutto a posto, secondo lei. Gli antichi oggetti erano tornati a essere governati dalla Natura, che per quella volta si era fatta rappresentare dalla sua mente, e quello era di nuovo un territorio selvaggio.
Ma era un territorio selvaggio in cui lei si muoveva come Tarzan, o come Dersu Uzala.
Ma come fai, continuava a ripetere Camilla che non aveva più fiato. Mi farai morire.
No, quelli ti faranno morire se non ti sbrighi.
Ora la stava facendo strisciare sotto un canterano del XVIII secolo, sgusciavano come vietcong.
I due che avevano battuto la boccata si era rialzati inferociti, più che altro per l’umiliazione pubblica, visto che anche tutti gli altri inseguitori erano ormai nell’appartamento del pianterreno. I cinque erano pieni di buona volontà. Ma non avevano metodo nell’inseguimento, non si aspettavano di dover agire in un posto simile, andavano a sbattere da tutte le parti. Anche perché gli oggetti che costituivano il labirinto avevano troppa classe per loro, troppa storia, e questo li disorientava. Erano entrati con l’irruenza e la sicurezza degli americani in Asia, e ora dovevano fronteggiare delle sorprese.
Sbong! Risuonò una botta. Qualcosa di grosso era caduto su qualcosa di vuoto. E poi l’urlo mostruoso dell’Orco: porca troia, tanto vi prendo, puttane!
La Cassis cornuta, osservò Giulia un po’ in apprensione. Speriamo non si sia rotta.
Si trattava di una conchiglia da cinque chili posizionata in equilibrio precario sullo spigolo di un armadio.
I movimenti felini delle principesse non l’avevano fatta cadere, ma si vede che l’orco aveva scosso l’armadio.
Le due si muovevano tra i resti rinascimentali come pellerossa che combattono l’uomo bianco.
Non che i resti fossero tutti rinascimentali.
Ora per esempio si erano appiattite sotto una pelle di leopardo del Bengala portata un secolo e mezzo prima dallo zio Vanni (per loro anche gli avi erano zii).
Dobbiamo stare ferme, sussurrò Giulia.
In effetti gli inseguitori si erano fatti furbi. Non si sentiva più il frastuono delle cadute e degli urti. Evidentemente volevano capire con l’udito dove fossero le due vecchie.
All’inizio forse gli inseguitori volevano solo soldi. Ma ora di sicuro intendevano uccidere.
L’orco stringeva il sacchetto del cibo, perché non conteneva solo cibo.
Ma le due principesse stavano immobili e mute sotto il leopardo.
Non è poi così facile strappare il cuore di Biancaneve.
Solo che a Camilla sembrava che il cuore di Biancaneve le stesse per balzare via dal petto.
Giulia le strinse la mano, come tra compagne d’asilo.
Non si erano mai scambiate così tanti gesti di affetto in decenni di vita insieme.
Il cortile è vicino, disse Giulia. Il cortile è vicino, ripeteva come una preghiera.
E per un attimo Camilla ripensò ancora ai fastosi cortili rinascimentali in cui si combattevano le battaglie navali e gli parve di aver sbagliato tempo, anche se perfino in questo tempo poteva prendersi la sue soddisfazioni.
Ancora rumori e imprecazioni, gente che cadeva e andava a sbattere.
Si sono separati, per avere maggiori probabilità di prenderci, disse con un filo di apprensione Camilla.
Ma ora sono anche più vulnerabili, suggerì Giulia.
Ci fu un urlo più forte degli altri, terribile, una specie di barrito: ho sbattuto la faccia ho sbattuto la faccia, piagnucolava Senzafaccia.
La voce violenta e ordinaria della madre, da un altro punto dell’appartamento, preoccupatissima, gli chiese come stava.
Giulia sorrise: andiamo, sono lontani.
Strisciarono via dalla pelle di leopardo, scavalcarono l’ottomana della trisavola Domitilla, dai disinvolti costumi.
E la porta era lì. Ancora pochi metri e avrebbero raggiunto il cortile.
E’ fatta, disse Camilla. Sei una guida fantastica, dovresti lavorare per il Touring Club.
Un’ombra obesa si parò tra loro e la porta.
Voi siete fatte, tuonò il rosticciere.
Evidentemente era più furbo di quello che sembrava. O era stato fortunato, come quando un’onda ti prende fa attraversare indenne un labirinto di scogli.
Quando si era unito al gruppo di Senzafaccia, Emiliano non aveva certo intenzione di sgozzare le galline dalle uova d’oro. Ma le cose cambiano. E la caccia nel labirinto aveva eccitato una regione selvaggia, sepolta nella sua mente.
Oddio, neanche troppo sepolta.
Ora l’orco estraeva dalla busta di plastica un coltellaccio da commerciante fiorentino.
Se almeno Giulia fosse riuscita a arrivare all’argenteria. Quei coltelli della nonna Letizia sarebbero finalmente serviti a qualcosa. Li lucidava tutte le settimana, le dovevano un po’ di riconoscenza.
La cassa era sotto l’ottomana della trisavola.
Ma l’orco intuì l’intenzione e sbarrò il passo. Poi avanzò verso di loro.
E’ la fine, bambina disse Camilla.
Addio, cara.
Poi Giulia pensò che c’era qualcosa che non tornava. Lei non poteva avere le sembianze di Emiliano: c’è un limite al cattivo gusto. E poi Lei doveva arrivare dalla crepa nella carta da parati. Era un tacito accordo tra vere signore, la cosa più solida che esista. Fu allora che vide la tibia fusus.
“Sulla riva del mare Jannawath vide le sue prime conchiglie e gli parvero fiori” sussurrò con un filo di speranza.
La tibia fusus è una leggiadra conchiglia affusolata che ha una specie di lunga coda aguzza. Di solito vive nel Pacifico Centrale. Ma al momento un esemplare di tibia fusus si trovava sul canterano della nonna Adelaide, un po’ tarlato ma sempre magnifico.
Emiliano si avvicinava sprizzando litri di sudore. Aveva un tremito, non si capiva se perché era furibondo o perché era incerto.
Giulia brandì la tibia fusus e eseguì un movimento velocissimo, come quando faceva saltare i sassi sull’acqua dell’Adriatico selvaggio, circa sessant’anni prima. Certi ricordi sono infrangibili, a differenza degli occhi. Alla fine del gesto di Giulia, Emiliano si trovò una tibia fusus ficcata nell’occhio e si mise a urlare come Polifemo.
Una conchiglia così elegante era sprecata in un corpo schifoso come il suo. Ma a volte il gioco vale la candela, come diceva sempre il confessore particolare di Camilla quando era giovinetta, un religioso che coltivava un’idea tutta sua di candela.
Ma non era quello il tempo per i dolci ricordi. Giulia si mise in tasca la perla della Tridacna che stava in equilibrio su una statuetta di Capodimonte. La perla della Tridacna non è pregiata, in compenso quella era più grossa di una palla da golf, come amava sempre dire Ernesto, prima di diventare un pesce della taiga.
Scavalcarono il bestione arenato nella risacca di antichi stoini, Giulia aprì la porticina numero uno e il cortile era là, di fronte a loro come una terra promessa La tentazione era quella di scappare tutte e due là fuori. Ma sarebbe stato il loro ultimo errore. Dovevano attenersi al piano.
Vai, disse Giulia a Camilla indicando il terrificante gorilla nero impagliato a fianco della porta. Uno zio di King Kong. Mostrava i denti e teneva perennemente alzato in gesto di minaccia il braccio sinistro, infatti la maggior parte dei primati sono mancini.
Giulia era appena uscita in cortile e Camilla aveva appena finito di nascondersi dietro il gigantesco gorilla, quando improvvisamente dalla collezione completa della Domenica del corriere emersero le teste di Senzafaccia, la donna del popolo e i due energumeni muti, certo assistenti sociali.
Dagli dagli, urlava la salariata. Non fargli chiudere la porta.
Ma non è che esci facilmente da una collezione completa della Domenica del corriere, è peggio delle sabbie mobili. Giulia ebbe il tempo di raggiungere la porticina numero due sul lato opposto del minuscolo cortile, aprirla e entrare in casa.
Ma non poteva chiuderla: non era finita. Ora veniva il momento decisivo. Sia Camilla che Giulia dovevano fare ognuna la propria parte, alla perfezione. Un assistente sociale è come una murena, può tirar fuori energie insospettabili.
La prima a raggiungere il cortile fu la madre di Senzafaccia, rivelando una certa vitalità plebea. Zoppicava, doveva aver battuto il ginocchio in qualche spigolo. Poi arrivarono gli energumeni che - inespressivi ma furibondi - quasi trascinavano Senzafaccia ormai piagnucolante e stremato.
Giulia, sulla soglia della numero due, prese la perla della Tridacna e la scagliò contro l’energumeno più vicino. Era sicura di sé. Troppo: gli sfiorò la tempia ma non lo prese bene.
Quelli ripresero a avanzare verso di lei. Il cortile era così angusto che si chiese se avrebbe fatto in tempo a chiudere la porticina numero due.
Comunque non era il momento, perché la numero uno era ancora aperta. Forse il momento non sarebbe arrivato mai, forse qualcosa era andato storto.
Ma scappare e chiudere la numero due ora, con la numero uno ancora aperta, avrebbe significato condannare a morte Camilla.
La cosa buona era che quelli non si erano accorti che Camilla era nascosta dietro il gorilla.
Giulia doveva fare qualcosa. Tra poco l’avrebbero raggiunta. Bisognava prendere tempo, non sapeva come. Doveva giocare d’astuzia.
Allora disse:
Basta, avete vinto!
Rallentarono.
Lei continuò: Sì, avete vinto vi dirò dove nascondiamo il tesoro!
Si fermarono, pietrificati dall’avidità.
La parola “tesoro” non apparteneva al loro vocabolario abituale, ma qualcosa gli suggeriva che era collegata a un sacco di soldi.
In quel momento l’orco rotolò nel cortile. Evidentemente la tibia fusus, nonostante le apparenze vistose, gli aveva inferto una ferita superficiale, oppure Polifemo aveva una resistenza formidabile.
L’orco aveva appena finito di rotolare che la prima porta si chiuse dietro di lui.
SBAM!
Camilla ce l’ha fatta, pensò Giulia con sollievo. L’amica al momento opportuno, cioè quando tutti erano nel cortile, aveva abbandonato la protezione del gorilla e aveva chiuso la porta numero uno.
Ora tocca a me, pensò.
Quelli erano ancora lì, paralizzati dalle troppe sorprese. Giulia non gli lasciò il tempo di riprendersi: chiuse la numero due.
Poi girò più volte la chiave, mentre Camilla dietro la numero uno faceva altrettanto.
Non avrebbe mai dimenticato quel momento: il suono delle due serrature era meraviglioso, sembrava il Notturno opera 148 di Schubert. Non a caso un adagio postumo.
Quelli adesso erano soli, nel minuscolo cortile, con le due porticine massicce chiuse e una grata metallica sopra di loro.
I due energumeni tirarono fuori le pistole, ma era troppo tardi.
Siamo in trappola, disse la donna del popolo atterrita.
Una frase assolutamente qualsiasi, neanche la morte in arrivo sembrava regalarle un briciolo di fantasia.


7. I fasti del rinascimento

Le due principesse si ritrovarono commosse nel corridoio e risalirono al primo piano, quello padronale. A giudicare dal rumore, gli energumeni esplodevano colpi all’impazzata. Quei brutti ceffi sembravano cacciatori toscani contemporanei all’inseguimento di un fagiano d’allevamento.
Ma a cosa sparavano? Forse alle porte, nel tentativo di aprirle. Solo che erano appena state rinforzate dal fabbro. E poi magari quei due presi dall’agitazione non riuscivano neanche a colpire la serratura. Non è che fossero dei veri tiratori. Grandi e grossi, al massimo erano buoni a colpire i drogati sulle panchine da distanza ravvicinata. Ma neanche quelli. Le pistole più che altro gli servivano per far colpo sulle aspiranti veline della periferia, che in attesa di raggiungere la maggiore età battevano irretendo i turisti.
Il marito di Camilla invece era in grado di colpire un camoscio da cinquecento metri di distanza.
Comunque quando le principesse furono nella loro stanza preferita si sentirono più tranquille.
Uff, disse Giulia parlando a Camilla ma anche ai Lorocari, è stato faticosissimo ma ce l’abbiamo fatta.
Camilla di sistemò il vestito, che si era un po’ stropicciato nella foga dell’azione, e chiese:
Ritieni che i vicini avranno sentito gli spari?
I rapporti di buon vicinato le erano sempre stati a cuore, per quanto non fosse facile mantenerli.
Ormai si fanno tutti i fatti propri, disse Giulia. E poi se li hanno sentiti meglio: possono testimoniare che siamo state aggredite. Due povere vecchie.
Erano distrutte, avevano avuto due giornate faticose. Tuttavia non potevano lasciare le cose in sospeso. Per via dei rischi, e poi una signora non lascia cose in sospeso.
Allestiamo lo spettacolo rinascimentale, cara? Disse Giulia, che pregustava il gioco come una bambina.
Inviti la lepre a correre, disse Camilla.
I prigionieri, laggiù nella gabbia, cominciavano a realizzare che per loro non si era messa tanto bene. Quando ti svapora la furia omicida, di solito emergono le preoccupazioni. Cercarono ancora di sfondare le porte. Niente. Cercarono di sfondare la grata. Niente.
Sollecitati dalla salariata, presero a sparare al lucchetto della grata.
Arrivano dopo il semaio, disse Camilla.
Infatti avevano scaricato le pistole con la sfuriata di poco prima.
Che potevano fare?
Senzafaccia si illuminò tutto: il cellulare, disse, chiamiamo rinforzi.
La ragazza madre fu fiera della genialità del figlio: anni di studio all’Istituto Tecnico non erano passati invano.
Tutti quanti frugarono nelle tasche alla ricerca dell’arma finale: i cellulari.
Secondo te Lorenzo il Magnifico usava le sistole? Disse Camilla.
Lo escluderei, ma noi siamo l’evoluzione della specie.
E l’ansa ombrosa del salotto era attraversata da tantissime sistole, come serpenti. Ogni rubinetto della casa - e in quella casa non mancavano i rubinetti - era stato collegato a una sistola, come previsto dal piano Alfa.
Bisogna che il piano Alfa funzioni, perché non disponiamo di un piano Beta, aveva detto Giulia qualche ora prima, durante il briefing.
Insomma fecero penzolare le sistole dal davanzale della finestra, come capelli grassi di una principessa trascurata. Dopodiché aprirono i rubinetti.
Quando si affacciarono per godersi lo spettacolo videro i prigionieri che armeggiavano goffamente coi cellulari.
Forza, prendine una, disse Giulia.
Brandirono una sistola a testa e giocarono a “spegni il cellulare”.
Quella contro i cellulari è una battaglia di civiltà, disse Camilla.
Poi lasciarono aperti i rubinetti del tempo.
Eccoci all’acqua, disse Camilla.
E per una volta l’espressione andava intesa alla lettera.
Meno male che Emiliano è rotolato nel cortile, prima, altrimenti non avresti potuto chiudere la numero uno, disse Giulia.
Sono io che l’ho fatto rotolare dentro, le chiarì Camilla, sono una ragazza atletica.
Hai avuto paura?
E te?
Cara, adesso non parliamo di queste cose.
Molte ore dopo, l’orco galleggiava a pancia in giù come un mammifero marino.
Tutto grasso che cola, disse Camilla.
L’acqua era alta, ma aveva tutta l’aria di voler salire ancora, niente da dire sull’acquedotto cittadino, per il momento arrivava al mento degli oranghi muti, mentre Senzafaccia e la donna del popolo si erano aggrappati alle sbarre e cercavano di respirare. Solo che le due principesse avevano ripreso una sistola a testa e giocavano a colpire il volto dei prigionieri. Per cui respirare non era facile.
Alla fine Lei è arrivata, ma non è venuta per noi, disse Camilla.
Ma certo cara, io l’ho invitata a entrare dalla carta da parati. Non si presenterà certo in un putrido cortile, quando si tratterà di noi. Ma cosa credi.
Io per primo libererei il mio Ernesto, se sei d’accordo, disse Camilla.
Giulia fece segno di sì, non c’era neanche bisogno di dirlo.
Camilla afferrò il retino, lo calò nell’acquario e prelevò con attenzione religiosa il pesce della taiga più grosso.
Vai amore mio, gli disse, e dopo averlo baciato lo buttò nella gabbia piena d’acqua.
Quello dapprima sembrò interdetto per la confusione e si rifugiò in un angolo, ma poi cominciò a nuotare a mezz’acqua, come per valutare la commestibilità di quanto gli stava intorno.
Ora sta a me, disse Giulia.
E con tutto il sentimento possibile tirò su un bel pesce, un po’ più piccolo del precedente, ma molto battagliero. Infatti anche se nella caduta andò sbattere contro un ferro della grata non si scompose e sembrò adattarsi subito alla nuova situazione.
E così, un pesce per volta, un caro a testa, liberarono nel cortile tutti i Lorocari.
Ora avranno più spazio, disse Camilla. Secondo te hanno fame?
Loro hanno sempre fame, rispose Giulia. E’ giusto che l’animale totemico mangi il nemico, si legge in tutti i libri. E poi, con tutti gli avanzi di Emiliano che hanno mangiato in questi anni, rimane solo che mangino Emiliano.
Quello che non ammazza ingrassa, chiosò Camilla. Si immaginava che, dentro, l’Orco fosse fatto tutto di gamberi fritti e altri avanzi: la sua anima. Appena fosse stato aperto dai pesci, avrebbero visto l’anima cadere sul fondo.
Camilla sorrise con affetto, vedendo i suoi cari che nuotavano, guidati da Ernesto: un condottiero e un pioniere, come sempre.
Rimasero a guardare e applaudire, dall’alto, come dame rinascimentali.
Che spettacolo, ne valeva la pena, disse Giulia.
Il lusso sfrenato dei Papi, commentò Camilla commossa.
Per festeggiare stapparono un Chateau d’Yquem. Dell’86, naturalmente.
Un soffio di ottimismo, sussurrò Camilla mentre brindavano.

(da Le città in nero, a cura di M. Vichi, Guanda 2006)

Enzo Fileno Carabba è nato nel 1966 a Firenze, dove vive. Ha pubblicato per Einaudi i romanzi Jakob Pesciolini (1992, Premio Calvino), La regola del silenzio (1994), La foresta finale (1997), Attila (Laterza, 2000), La bambina della tempesta (Adnkronos, 2001). Nel 2003 Mauvais signes è uscito in Francia, nella collana “Noir” di Gallimard, e poi in Italia col titolo Pessimi segnali (Marsilio, 2004). Suoi racconti compaiono in Tutti i denti del mostro sono perfetti (Mondadori, 1997), Quattordici colpi al cuore (ivi, 2002) e Città in nero (Guanda, 2006). Con Paola Nobili ha curato Se siete arrivati fin qua, un’antologia di racconti nati dai corsi in carcere (Le Lettere, 2005).