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L'impagliatore
d'uccelli si mosse incontro al cliente che arrivava in
bottega proprio al momento di chiudere. Costui veniva
avanti a passi timidi, presentando un piccolo cesto chiuso,
come un titolo valevole per l'ingresso.
«Che desidera? In che posso servirla?».
Il nuovo venuto si guardò intorno, s'indugiò
ad ammirare la pennuta morte mummificata sul banco, dentro
gli scaffali e la vetrina, e disse:
«Ci ho qui un falco, ma vivo».
A veder la sorpresa dell'altro aggiunse subito:
«lo non so in che modo ammazzarlo: ho paura che
si sciupi. Lei, ch'è pratico, non può far
mi questo piacere? Dopo, s'intende, l'impagliatura sarà
lavoro suo, perché voglio serbarlo».
«Veramente... », stentò l'impagliatore,
«io lavoro solo su bestie morte. Un falco può
essere pericoloso... e se mi scappa?»
«Non può scappare», rispose l'uomo
dal cesto con un calmo sorriso. «VuoI vederlo? Gli
ho fatto un cappuccio», e prese a sfibbiare le cinghiette
del coperchio. «Povera bestia!», mormorò
slacciandole con improvvisa fretta. «Deve aver molto
sofferto nel viaggio, ma spero sia ancora fiero. Era così
bello. Guardi, ora, com'è ridotto!».
Alzato il coperchio mise una mano un poco esitante sopra
un corpo pennuto e grigio che occupava il cesto.
«È vivo bene: caldo caldo», disse poi,
strisciando la mano a ricomporre le penne arruffate.
S'udì un soffio, uno strido strozzato, gattesco
e orribile.
«Come l'ha conciato!», esclamò con
allegrezza l'impagliatore. «Pare una vecchia!»,
e s'incantò ad ammirare il falco che, drizzatosi
dentro il cesto, sporgeva fuori la testa strettamente
fasciata di garza sporca e sdrucita, appena schiusa a
far passare il becco adunco e come spaccato in due da
un lucido riflesso.
L'uccellaccio alzò una zampa all'altezza degli
occhi bendati, la protese a tentare il vuoto oscuro, poi,
ricalatala strinse gli artigli intorno all'orlo del cesto,
zoppo, tutto pencolato da una parte.
«lo credo che con un ago grosso...», fece
il cliente, aprendogli con un dito le penne sul petto;
e mostrava così tutta la sua voglia d'assistere
all'operazione.
L'impagliatore non dette risposta: sorrise nell'indicare
la mano protetta da un cencio, sollevò l'animale
e andò a posarlo su un trespolo da pappagalli.
«Chiuso com'è nel cappuccio non ha coraggio
di muoversi», disse invitando l'altro a osservar
la scena, e con uno scopino da spolverare spinse l'uccellaccio
che, starnazzando le ali, mantenne il suo equilibrio su
la cannetta di ferro.
«Dunque», riprese il padrone del falco e fece
atto di richiudere il cesto, «me lo ammazza lei
o no?»
«Posso anche ammazzarlo; ma non ora. Non vede che
son già vestito per uscire? Domattina, appena aperto,
ci penso io. Del resto è bene aspettare: così,
si ripulisce dentro».
«Ma dimagrerà, diventerà brutto».
L'impagliatore rise: «Ci son io a gonfiarglielo
di paglia e bambagia. Lo possiamo lasciar lì; tanto,
è timido come un pulcino», e spinto fuor
di bottega l'uomo dal cesto, calò la saracinesca,
mise i lucchetti e si avviò con quello, ch'era
rimasto ad aspettarlo sul marciapiedi per contrattare
del prezzo.
La lampada centrale, rimasta accesa per distrazione dell'impagliatore,
ardeva abbagliante nella bottega.
Il falco, atterrito dal rombo della saracinesca, si teneva
fermo, grigio e ferrigno sul trespolo, la testa nascosta
sotto un'ala.
A un tratto la liberò e la spinse in avanti. Il
suo fiuto avvertiva un acuto odore di penne e di piume,
un odore simile a quello dei nidi abbandonati, quando
per il tempo s'è fatto freddo e incorruttibile.
La lunga prigionia del cesto aveva talmente mortificato
in lui il senso della vita volatile, che a ritrovarlo
in quell'odore si credette precipitato in un cavo di pietra
sopra la montagna spelata della sua dimora abituale: solo
mancava all'intorno quel fiato lungo d'aria che solleva
le penne e le ricompone come una carezza.
Dopo il primo rombar di folgore nient'altro di terribile
giungeva al suo udito: duravano dei piccoli colpi lontani,
degli struscii e un rotolar di cielo tempestoso, ogni
tanto, ma lungi, forse su la pianura.
Rassicurato provò a sbatter le ali. Larghe, bene
aperte, le sventagliò in un'aria greve, che si
smosse destando una risuonanza troppo immediata, un tremolio
di vetri misterioso.
L'ambiente piccolo gli pesò sulle ali timidamente
placate. Con una mossa tremula ed esitante portò
l'artiglio sul cappuccio di garza, e riconosciuto che
si poteva lacerare rivolse la sua forza a liberarsene.
Più volte, menando gran colpi all'impazzata, si
ferì la testa e il collo. Col becco libero tra
i legami allentati inseguiva alla cieca le codine e gli
sfilacciamenti della garza e li strappava contorcendosi
in posizioni penose, mentre ogni tram che passava nella
via, ogni carro, era un frastuono di vento tra le rupi,
un frastuono pieno d'echi nuovi per lui, caduto senza
memoria in una caverna.
Per mantenersi in equilibrio su l’ignoto abisso
che sentiva da ogni parte, vibrava le ali freneticamente,
riempiendo di clamore e di romba la stanza.
Dall'aria così smossa veniva più forte
di prima l'odore di nido abbandonato. I lacci, nel gran
tirare, si erano ristrettiti sugli occhi. Il falco protendeva
il collo e lanciava uno strido basso in avanti, come
contro un nemico, cinque, dieci volte, poi, estenuato,
taceva e riparava il capo sotto l'ala.
Quando riprese la lotta era calmo, lento: cacciava gli
artigli fra le sue piume e la garza per sbranarla dal
di dentro, con maggior presa. Li ritraeva sanguinanti
e tre muli di sforzo, impigliati di fili e brandelli
dai quali penava a liberarsi.
Improvvisamente i legami allargati scivolarono dalla
testa sul collo. Sembrava che con quelli anche una grande
paura fosse scesa ad agghiacciare il rapace, tanto stava
immoto.
Le bende si fermarono su le prime penne irte del collo.
Allora, sussultando con piccoli colpi d'ala, il falco
si ricompose e le fece scorrere più giù.
Era libero: alzò le palpebre nere e doloranti.
Uno strido, e fulmineo fu su la colomba, una picciona
grassa e smagliante, fissata su un sostegno che imitava
un ramo secco.
Piantò gli artigli nella schiena e vibrò
il becco affamato nella gola. Dai muscoli delle ali
al suo collo si vedeva passare a onde lo sforzo di spingere
e sprofondare il becco.
Non gola calda e piena di sangue fluttuante, non un
grido, non un rattrarsi di spasimo; ma un groviglio
freddo e tenace.
Il falco ritrasse dalla ferita il becco ferocemente
serrato: ne usciva un fiotto lungo di paglia. Cieco,
pazzo, tornò ad avventarsi sul corpo straziato
della colomba, finché la sua furia non trovò
più che un pugno disfatto di paglia e di penne.
Levò gli occhi crudeli alla lampada, incredulo
del sole dopo la sorpresa, e si slanciò a raggiungere
il sostegno del trespolo.
Scarruffato e torvo s'agitava alla vista di uccellacci
smisurati ritti su piccoli piedistalli, a ogni angolo
della stanza.
Un fenicottero fiammante, un pellicano dalla gran borsa
pendente, un altro, orrendo e crestuto, lo fissavano
immoti e sicuri. Di faccia, dentro la vetrina, si appollaiavano
altri volatili dalla coda lunga, sfidavano la sua fame
un nido e una sfilata di piccoli pettirossi.
Silenzio, come quando nel bosco veniva avvistato il
suo alto volare a ruota.
Partì come una freccia: urtò gli artigli
nel vetro, e vide, precipitando, una grande ombra paurosa.
Nella caduta si era contuso un'ala: indolorita ora penava
a muoverla.
A piccoli passi entrò sotto l'ombra di un mobile
come in un rifugio. Là, stridendo e soffiando
quasi per avvertir gli altri pennuti della sua presenza,
cacciava fuori, ogni tanto, la testa e guardava all'intorno.
Erano quei pennuti ben composti, immoti e severi come
non ne aveva visti mai. Il fenicottero stava ritto su
una sola delle zampe brune e minutamente scagliose,
l'altra sollevata come a spulciarsi tra le piume del
petto; gli uccelletti colorati erano tutti in atto di
beccar qualcosa su un legno, un monticello sabbioso,
un sughero dipinto. Qualche aggruppamento, con famigliarità
sconosciuta nel bosco, stava intorno a una dònnola
scura, posava sul ramo, dove uno scoiattolo s'era fermato,
ritta la coda fioccosa. Un picchio verde aspettava dal
peso della coda la forza di ribattere il suo martelletto
nel buco ben scavato di un bastoncello; una civetta,
incantatrice impietrita, teneva fermi gli occhi gialli
nelle occhiaie a vortice di pennette grigie, noncurante
d'uccellare o far preda.
Nei loro atteggiamenti istintivi si capiva un senso
trasecolato di pace, la certezza di non mutare, come
se l'atmosfera della più bella mattina del bosco
o della palude avesse accompagnato ciascuno al suo piedistallo
o al suo scomparto dentro la vetrina. Perfino della
ristrettezza non parevano sentire i limiti, ché,
i più forti volatori avevano le ali aperte trionfalmente,
senza alcun senso di peso, e se non partivano, era per
la gioia di farsi sorprendere con vivi tutti i colori
che nell'aria si fondono e nelle dimensioni non falsate
dall'altezza.
Il falco uscito dall'ombra del mobile sembrava cercasse
nel fenicottero l'iniziazione di quell'invidiabile mistero.
Finalmente, fatti due o tre salterellini, gli volò
in groppa, e, cauto, col becco frugò tra le penne.
Sentì la buccia secca sul falso corpo vuoto di
sangue e di carne.
Come per una gaiezza improvvisa, dopo la prova, svolettò
leggiero per la stanza, senza cercare un punto di posa.
L'ombra dell’ali ruotanti nascondeva a tratti
la lampada incandescente intorno alla quale aveva finito
per girare come una farfalla.
Estenuato, con una vampa azzurra negli occhi, si lasciò
andare a terra. L'odore di nido abbandonato era divenuto
più acre; ma nessuna esperienza lo tentava più.
La fissità dei suoi occhi e illustrare ingannevole
dei vetri dilatava nella vetrina i confini entro i quali
quei silenziosi stavano immoti. Qualcuno si gonfiava
di voglia di volare esasperando l'inquietudine del falco
che pure udiva un frullo d'ali. Ma a riveder tutto fermo,
apriva lui le ali e dava due o tre colpi fragorosi.
Dal retrobottega, trovato un passaggio tra le due parti
socchiuse di una tenda, entrò a volo un'ombra
nera. Era un pipistrello chiamato dalla gran luce. Mal
sostenendosi su le membrane tremule compì alcuni
cerchi intorno al lume e andò a posarsi con uno
stridore d'unghielli sul piatto smaltato.
Il falco in allarme vedeva oscillare la lampada mentre
cercava il ricordo rivelatore di quell'ombra intravista
sul pavimento: un'ombra sfarfallante, non ferma come
la sua, quando, sotto il sole di mezzogiorno, si compiaceva
di vederla grande e lontana percorrere la terra. Di
quell'ignoto volatore indovinava appena un vellutato
sussulto all'orlo del piatto.
Impaurito, fece un faticoso sforzo per aprire le ali
e rinchiuderle ben strette come una fascia di protezione
sul corpo magro. Strideva e soffiava di continuo, basso
e roco, pel timore d'essere ad ogni momento assalito.
La presenza di un altro vivo nella stanza aveva distrutto
la sua sicurezza di vandalico padrone, scavando per
lui, escluso da quel silenzio e da quella pace, la gelata
solitudine del terrore.
Il lume oscillava appena: il nemico vi imprimeva il
suo palpito.
Tra un fragor di ferraglia passarono fuochi rossi e
azzurri sul soffitto, da una lunetta di vetro posta
sopra la saracinesca.
Fu il segno della lotta.
Il falco si librò alto, più su del lume.
La foglia nera scivolò dal piatto e impazzita
fuggì, sventando il rapace a raso dei muri. Dopo
un vano inseguimento, il falco, che non poteva mutare
con "tanta rapidità il suo gioco d'ali,
si mise fermo su la vetrina e attese il nemico. Lo vide
avanzare nel breve alone della lampada, sviare bruscamente
e proseguire più basso. Gli piombò sopra
martellando il becco; ma dette nella membrana, che s'aperse,
scucita. Il pipistrello malamente scampato a quel primo
assalto cambiò forma: pareva aver tre ali e nel
volo sprizzava una pioggia di sangue, rossa e brillante
sotto il lume.
Il falco, appostato sul banco, stava gonfio e rappreso
tra gli impagliati.
Il pipistrello ferito tentava d'aggrapparsi al muro"
bianco della volta, ostinatamente; ma non reggendolo
l'ala sbrindellata, pian piano calò più
basso ad onta del frullo frenetico di quella sana. Incontrò
la superficie del banco nella caduta e stroncò
lì l'ultima disperata forza in vani sbattiti.
Ferocemente il rapace scese giù a finirlo a colpi
di rostro. Nel tremore dell'agonia, il pipistrello pareva
sfuggirgli percorrendo sul banco uno spazio scivoloso,
allagato di sangue.
A un tratto, schifando la preda nera e sanguinolenta,
il vincitore si salvò sul trespolo.
Stanchezza o insopportabilità del lume abbagliante,
chiuse gli occhi, stentò a trovar presa con gli
artigli intorno al sostegno e dovette sbatter l'ali
per reggervisi.
Lentamente si fece corto e gonfio, il collo rientrato
quasi avesse freddo. Sussultava ogni poco e apriva il
becco fino allo strazio delle membranette per bere un'aria
ampia e libera e rocamente emetteva un grido sempre
più affannato.
Quando riapriva gli occhi, fissava dentro la vetrina
la confusa immagine dei volatili, e poi il fenicottero,
con una specie di estasi alla quale seguiva il tentativo
di volare.
La forza delle ali lo sollevava tanto appena da farlo
apparire più alto e maestoso, ma gli artigli
restavano stretti al sostegno come a un perno.
In quei momenti era fiero e terribile: pareva uno di
quei rapaci da emblema come s'ingegnano d'atteggiarli
gli impagliatori.
(da Fannias Ventosca, Buratti, 1929, ora Giunti,
1997. Il racconto è parte del testo scenico per
Iaia Forte Scene del volo immobile) |