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Misurare i cento anni trascorsi dalla nascita di Arturo
Loria potrebbe non essere un semplice rituale e trasformarsi
in un’occasione utile. Ad esempio potremmo chiederci
che cosa resista oggi di bruciante ed attivo - direi anche
di non svelato, di intatto alla curiosità del lettore
– dentro la tessitura lavoratissima della sua scrittura,
rimasta attraverso gli anni un patrimonio ancora incorrotto.
Sgorgato in un arco di tempo in fin dei conti abbastanza
ridotto – dai primi anni Venti del Novecento fino
alla metà del decennio successivo – il nucleo
più esplosivo, più carico di energia contenuto
nella produzione di Arturo Loria si mostra fin dal primo
apparire contrassegnato da una singolare forma di anacronismo.
Le tre raccolte di racconti pubblicate in gioventù
gli diedero la solida fama di autore dotato di una vena
molto personale. Questo nuovo scrittore si dimostrava
capace di tirare fuori da un suo privato archivio di vita
non vissuta una serie di stravaganti creature. I racconti
esplodono fin dalle prime righe, tracciando visioni di
precisione cinematografica, con dettagli descrittivi sistemati
in costruzioni di allucinante nettezza. Ma le vicende
narrate nel procedere mostrano sempre uno spessore enigmatico,
una seconda natura che elude le ragioni del realismo anche
quando le storie paiono assecondare sviluppi plausibili.
Arriva ogni volta un taglio improvviso, una notazione
lasciata cadere nel cuore degli eventi, un arabesco fuori
programma ad aprire al pubblico la scena di una rappresentazione
più avanzata e rischiosa del previsto.
Dobbiamo leggere i personaggi di Loria come creature fittizie
per eccellenza. Sono figure lontane anni luce dalle reali
esperienze biografiche dell’autore: una banda di
criminali in fuga, sperduti in pianure fangose; inquieti
adolescenti – che immaginiamo cenciosi e vitali
come orgogliosi zingari – esposti al turbamento
di un desiderio violento; anziani affaticati dai fallimenti
dell’esistenza; emarginati di vario genere espulsi
dal carosello della vita attiva ed ormai condannati ad
avvertire il peso del fallimento fino al termine dei loro
giorni. Attori vaganti. Fuggiaschi. Reietti. Patetiche
donne in avventura per strade di città. Sarebbe
un errore farsi ingannare da tutta questa frenetica attività.
Si tratta di falsi movimenti. I destini di tutti i protagonisti
sono già segnati, le traiettorie seguono schemi
fatali che portano il punto di arrivo a coincidere con
il punto di inizio. Le atmosfere dominanti restano centrate
– anche nei racconti appartenenti all’ultimo
periodo, contenuti nel libro postumo Il compagno dormente,
e nelle carte di un romanzo frammentario rimasto incompiuto
– sul registro della densità, della dimensione
claustrofobica, dell’insoddisfazione latente. La
pagina di Loria incendia il realismo e non si fida della
psicologia. Non crede che la scienza delle pulsioni profonde
possa davvero spiegare le ragioni segrete dei nostri comportamenti
: si percepisce dentro le azioni dei personaggi la presenza
di misteri cifrati, tenaci, refrattari ad ogni tentativo
di ulteriore chiarimento.
E’ la finta trasparenza della scrittura di Loria,
così esatta nel descrivere ogni elemento della
scena ma al tempo stesso così abile nell’impedire
che questo nitore possa trasformarsi in piattezza, in
ovvietà, in prosa diurna. Anche in piena luce,
anche all’aria aperta – è stato notato
– le scene di questo scrittore sembrano svolgersi
di notte, oppure nel chiuso di un teatro.
A dispetto dell’entusiasmo e degli apprezzamenti
dei molti (e spesso autorevolissimi) critici che fin dall’esordio
stimarono e appoggiarono lo scrittore, l’opera ha
subito il destino di restare una sorta di tesoro nascosto
della letteratura italiana del Novecento. Siamo costretti
ad ammetterlo, i bagliori sprigionati dalle sue pagine
hanno in qualche modo saputo bucare la materia degli anni
giungendo a noi, ma hanno fino ad oggi toccato porzioni
molto ridotte di pubblico. E’ venuta in alcuni casi
a crearsi l’idea di un autore difficile, tortuoso,
responsabile di pagine che offrono particolari ostacoli
all’interpretazione e richiedono uno speciale impegno
ai lettori che osano avventurarsi dentro i suoi mondi.
Tale aura è solo in parte legittima.
Ad essere sinceri non è tanto la complessità
delle soluzioni sintattiche a pesare, e neppure la costruzione
picaresca delle trame, né il montaggio delle sequenze
narrative. In lui non troviamo infatti nessun genere di
arduo sperimentalismo linguistico che possa terrorizzare
il lettore: non seguì i dogmi delle grandi avanguardie
del secolo (che in verità gli sarebbero state vicine
e tangibili per motivi di congiuntura temporale e formazione)
tese a rinnovare in modo radicale il tipo di attrezzatura
adottabile da parte degli scrittori.
Al contrario, sotto il profilo stilistico operò
una bizzarra fuga all’indietro, inventandosi un
lingua polverosa, trattata in modo da apparire vintage,
luccicante di lampi che sembrano provenire da un deposito
di antichità, una lingua che dovette apparire subito
- anche ai suoi contemporanei – sortita fuori con
un aspetto già logorato, come una sostanza usurata
prima ancora di essere sottoposta alla consunzione degli
elementi atmosferici. Ecco la componente anacronistica
capace di spiazzarci ancora oggi. Questo mi appare oggi
il segreto del fascino dell’opera di Loria: l’essersi
inventato una strumentazione lontana dai dettami di modernità
dell’epoca. Resta il fatto che con questi strumenti
che sapevano di vecchio, con questi arnesi arrugginiti,
Loria si è impegnato nella paradossale impresa
di creare racconti molto originali ed imbevuti delle inquietudini
della modernità.
La cosa principale oggi mi pare questa: per raccontare
la propria percezione del mondo si è inventato
una lingua italiana sorprendente, virtuosistica, vibrante
e impolverata al medesimo tempo. Un congegno potente,
capace di sovrapporre ad ogni elemento della narrazione
una patina specialissima. Una velatura che rende cose,
circostanze e persone come se fossero state esposte ad
un istantaneo processo di invecchiamento. Ha modellato
una orchestrazione sofisticata, con la quale poter accendere
e dosare crescenti dosi di malinconia. Ma questa lingua
contiene anche una possibilità di riscatto. Una
occasione di salvezza. Sottraendo le figure in azione
al dominio della cronologia, Loria le ha stappate al flusso
caotico degli eventi per consegnarle ad una zona intangibile
all’interno della quale resiste una sostanza etica.
La cura dello stile in Loria finisce per tramutarsi in
sostanza morale. Scrivere è per lui esercizio di
massima responsabilità, una disciplina non priva
di una sacralità intrinseca. In gioco è
l’estremo tentativo di attribuire un senso allo
spettacolo del mondo che altrimenti, privato della costruzione
attenta di un interprete chiamato a questa missione, rischierebbe
di non mostrare alcun significato.
Nel lampo rapido del tempo ha desiderato raccontare il
sorgere delle illusioni ed il loro dissolvimento dentro
il compiersi delle esperienze. E’ riuscito a creare
un glorioso doppio dell’esistenza che splende vivido
ad un grado più alto di intensità.
(da I mondi di Loria. Studi e testimomianze,
Edizioni ETS, 2004)
Stefano Loria (Firenze, 1961) si è
laureato in Lettere presso l’ateneo fiorentino
con una tesi dedicata ai racconti di Arturo Loria. È
stato uno degli organizzatori delle manifestazioni di
“Ottovolante”, associazione che negli anni
Ottanta allestiva a Firenze un festival annuale di poesia,
letteratura e filosofia. Ha collaborato e collabora
a giornali e riviste, tra cui “l’Unità”,
“Tema Celeste” e “City Firenze”.
È anche pittore: le sue opere sono visibili presso
la galleria Sergio Tossi Arte Contemporanea di Firenze
(http://www.tossiarte.it/).
È uno degli animatori del blog Piccolo Nemo
(http://www.bloggers.it/PiccoloNemo/).
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