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Carpi,
città dell’infanzia
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…verso
una qualità di lunatica astrazione,
verso un gusto mescolato di sordido e di
fantastico, e verso un’estetica di
stracci appesi ai raggi della luna…
(Emilio Cecchi) |
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Le più arretrate origini biografiche e culturali
di Arturo Loria ci riportano a Carpi, a una primonovecentesca,
sapida e provinciale città del modenese: il primo
dei suoi «mondi», il suo luogo natale. È
in questa padana e mitica Carpi dell’infanzia, almeno
in apparenza databile con assoluta esattezza 1902-1911,
che l’uomo e lo scrittore cominciano a formarsi.
A Carpi Aristide Loria e Antonietta Righi, i genitori
di Arturo, erano pervenuti per motivi pratici, legati
all’attività economica-lavorativa del padre,
imprenditore manifatturiero nel settore del truciolo:
quegli stessi motivi che determineranno in seguito lo
spostamento della famiglia a Firenze e in Toscana (una
fiorente fabbrica dei Loria troverà sede a Montevarchi).
Ma è da Carpi, forse per caso, che la complessa
avventura di Loria prende l’avvio, secondo un fitto
e contrassegnato insieme di specificità, irripetibili
occasioni e incidenze del tutto meritevoli di essere individuate
e valorizzate.
È qui che Loria, crescendo in un ambiente familiare
religiosamente diviso ma senza contrasti interni fra ebraismo
e cattolicesimo, matura gli anni fervidi della sua infanzia;
è qui che il piccolo Arturo prova la prima «zona
dolente», fisicamente segnata dal male e fisionomicamente
differenziante, di una poliomelite che lo lascerà
per sempre leggermente claudicante, inevitabilmente appartato
e diverso anche nell’ambito degli affetti domestici,
genitoriali e fraterni, fattisi fin da allora nei suoi
riguardi più pronunciati e protettivi. È
a Carpi, soprattutto, che presto s’impone, in una
psicologia e in un immaginario vividi e singolarmente
predisposti a captare e inglobare, l’attrazione
per gli eccentrici, i marginali, i disastrati, gli instabili
e i vagabondi, gli evasi e gli uomini in fuga, zingarescamente
desiderosi di libertà e perseguitati, «picareschi»
e straccioni: personaggi ambigui, già al confine
– nel loro eversivo, torbido ed affascinante presentarsi
fuori da norme e convenzioni comunemente accettate –
tra realtà e finzione, quotidiano e teatro. È
la vita in preda al degrado e alla fatiscenza, consunta
e già vecchia, «sciupata», per usare
un aggettivo caro al linguaggio dello scrittore, che,
consentendo curiosità e solidarietà tra
simili, incoraggia la valorizzazione di sicuri spazi letterari,
insieme di indagine e di riscatto: spazi rappresentativi
intuiti già di per sé portavoce di violazione,
intrisi di irrenitenza e di protesta in atto, oltre la
subìta condanna all’assurdo ed al male che
anch’essi lasciano trasparire.
A Carpi Loria impara anche, guardando appena fuori del
paese al suggestivo e disteso paesaggio della Bassa (paesaggio
ben riconoscibile in alcuni dei suoi magistrali racconti),
non le regole della stanzialità e dell’adeguamento,
ma il disagio e il bisogno dinamico di un viaggio che,
rinnovandosi di continuo, non imponendosi nella sua straordinarietà
seducente che mete davvero definitive, annulla spazio
e tempo, confonde linementi di una realtà visibile
e significati profondi ad essi sottesi, in essi materialmente
rappresi, fattisi cosa, vicenda, natura. Sfogliare la
vita sarà per Arturo come sfogliare uno dei suoi
amatissimi libri, cercare di leggerlo in tutte le sue
implicazioni più intime e stringenti, nel suo segreto
attraente e sempre irrisolto, che costantemente incoraggia
a leggerne, a scriverne sempre di nuovi.
L’apprendimento utile per intraprendere quel viaggio
si fa o si farà di lì a poco, ancora puntando
a Carpi e ad un caratterizzato mondo emiliano e padano,
cultura: dalle testimonianze del folklore popolare, carnale
e osceno, delle «barcellette ridicolose» ai
carpigiani, grotteschi «palchi delle vecchie»
richiamati con pertinenza da Renato Bertacchini, ai «i
foglietti, le pianete, quei “gabinetti curiosi”
che già resero celebre il cantastorie del Bertoldo».
Come ancora Bertacchini suggerisce: «Nel “fango
della pianura”, nelle “carreggiate acquitrinose”,
nel “tempo da ranocchi”, in tante coloriture
macerate e sfatte della Bassa, cresce la plastica e allusiva
solitudine, lo scorcio mitico che partendo da un luogo
d’origine, da questa Carpi solariana, Carpi come
un’infanzia, costruisce un pezzo dopo l’altro
i fondali elementari di un mondo grottesco e sentimentale,
dove l’aria di paese torna a ristagnare tra fumosa
e vetusta, sacra insieme e soffocante. / Ancora la pianura,
e ancora Carpi come un’infanzia, la stessa città
del silenzio, possiamo captare nel dispositivo di parecchie
novelle, nella Tromba come nel Registro,
nel Tesoro come nel Racconto d’autunno.
Immagini, memorie moltiplicate di una medesima città,
che seguita a ripetersi, cinta di vecchie pareti, con
le case miserevoli e basse, il quadrilatero delle mura
rossastre macchiate di edere e capperi ricascanti, in
mezzo agli spalmi di melma, all’acqua ferma, agli
incolti che fioriscono tristi e sabbiosi sotto la cerchia».
L’insofferenza stanziale e la disponibilità
migratoria aprono così, rilkianamente, procedendo
a ritroso, alle possibilità di un ricongiugimento
a territori ispirativi anteriori ed altrimenti geografizzabili,
ad altri mondi. In quanto vero scrittore e artista dotatissimo,
Arturo Loria proviene di là, e obbedendo, permettendo
ad una propria chiamata vocazionale di compiersi, sperimenta
sulla propria pelle, con la necessità naturale
di un sortilegio, la sua «seconda nascita».
In questo senso anche un paese emiliano di nuovo secolo,
con le sua piazza e le sue strade abitate, il suo paesaggio
naturale circostante, i suoi viventi in posa o quasi sorpresi
di fronte a un obbiettivo fotografico, le sue attività,
le sue povertà squallide e dignitose, la sua storia
testimoniabile, si profila come un’unica occorrenza
pronta a risolversi nelle zone dell’arte: una sorta
di grande apparenza-impressione che però porta
con sé – assieme alle immagini di ambienti
e tipi incontrati combinabili con suggestioni squisitamente
letterarie e figurative, non solo strettamente contemporanee
e non solo italiane (Parigi, ad esempio, sarà un
altro «mondo» di Loria) – il «segreto».
Lo stesso leggendario falco magico di uno stemma municipale
– un falco librato nell’aria posatosi con
delicata levità su un carpine, incoronato, doppiamente
nobile e regale – si trasforma precocemente in un
altro emblema araldico: nell’animale-simbolo non
di una vicenda comune, cittadina, ma di una strana, tetra
epopea personale decodificabile e raccontabile nel corso
di una vita. Un falco da natura morta, notturno, da bottega
di tassidermista e non da creazione, attaccato ad un trespolo
che sarà per sempre, crudelmente, il suo albero,
e ciò nonostante fiero: resistente, trepidante
per la propria sorte e coraggiosamente pronto ai balsami
mortuari e vivificanti della scrittura, tanto da autorizzare
(quasi una saldatura del cerchio nel nome di protagonistici
rapaci contrastati da insindacabili e beffardi destini
di esclusione dalla vita cui voracemente aspirano) la
tarda ripresa in versi dell’Aquila: «Qui,
dove vorrei finire ignorata, / lasciandoti brandelli del
mio cibo, / riesco a darmi fierezza araldica; / ma poco
io reggo allo sforzo / se non ritrovo le gioie e l’orgoglio
/ di un’antica rapina nel cielo della valle»
(L’aquila, in Il Bestiario).
Di Carpi, luogo giurisdizionale della «seconda nascita»
di Loria e mondo elettivo inalienabile di tanto futuro
scrivere, ricordare e fantasticare, resta probabilmente
indelebile, in Loria, pure l’immagine di un funambolo
sospeso per aria, alto e bilanciato nel suo volo come
un uccello, che compie sicuro, naturale-innaturale e leggerissimo,
fra lo stupore del pubblico accorso in folla per lo straordinario
evento, la sua aerea traversata di una piazza immensa,
monumentale, aperta a dismisura e petrosamente circoscritta.
Sta di fatto che l’infanzia carpigiana e i costanti
ritorni ad essa, memoriali ed immaginativi, tendono a
valorizzare in Loria, nella poetica di uno scrittore sostanzialmente
obbediente ad esigenze d’espressione profilatesi
in lui irrinunciabili, forme della disobbidienza: colgono
gli esempi trasgressivi dell’abnorme e dello strano,
si attengono con fiducia ai modelli imprevisti e rivelatori
del fantastico, accondiscendono all’esotismo liberatorio
di un «altrove» dovunque dislocato e dovunque
rintracciabile, tra i segni del disfacimento, tra lo sciupìo
dell’esistere.
Accade così, leggendo Loria, come ha scritto Roberto
Barbolini, di «perdersi fra scuri portici, oppure
nell’infinita vastità della campagna circostante,
dove dalla sera alla mattina può spuntare, parodico
residuo di qualche remoto accampamento celtico, la carovana
degli zingari col suo carico di fole e di follia avventurosa.
Perché l’angoscia dello smarrimento confina
sempre con la voglia di perdersi».
Loria
intimo e familiare
…da una parte la vita, la vita piena,
la vita che rinasce e si rinnova, dall’altra
la simulazione, la contraffazione… (Luigi Baldacci) |
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Come ogni scrittore autentico, Arturo Loria ha vissuto
e continua a vivere nella sua opera: è ad essa
che egli ha confidentemente affidato la parte più
sensibile e oscuramente avanzata della propria intimità,
instaurando – secondo i modi differiti, inquietamente
desideranti e non meramente pacificati e mimetici che
sono tipici della ricerca artistica – nuove discendenze,
parentele, affinità, vincoli impensabili di familiarità.
«Morirò mille morti», scriverà
Loria in una delle sue tarde liriche animalesche, non
da allora sicuro del destino di chi si vota all’arte,
singolarmente consapevole di morti accertate e accettate
quale plafond di una pratica intrapresa e delle
possibili rinascite da essa permesse.
Certo Loria, oltre che scrittore avventuroso e fantastico,
si rivela anche, spesso, scrittore a sfondo autobiografico.
Di una derivazione della letteratura dalla vita (come
di un suo auspicato ritorno ad essa) certifica in più
di un caso, in limine al prodotto letterario
approntato dall’invenzione, la stessa visibilizzazione
dedicatoria: ambiti di appartenenza e provenienza talvolta
così lontani e camuffati dall’autonoma vita
del testo da apparire inesistenti, talvolta, a dispetto
delle patine, i traslati, i trucchi, le drammatizzazioni
e i trasformismi allegorizzanti adottati, del tutto individuabili
e riconoscibili.
La scrittura loriana parte sostanzialmente da una condizione
biografica che appare inaccettabile e ne crea un’altra,
alternativa, che a quella vita di partenza, a sue emergenze
valutate rilevanti ed affettivamente decisive, riconduce,
tende. Loria dedica non a caso molte delle sue scritture
ai genitori, ai fratelli, a donne vanamente amate, ad
amici: tenta in ogni maniera comunicazioni, indirizza
messaggi a destinatari da cui vorrebbe risposte, cerca
aperture d’orizzonti, escogita con estro quanto
mai disponibile e sperimentale popolamenti, fratellanze,
rotture di un patito solipsismo.
Al pari del suo memorabile falco, notturno e innaturalmente
costretto, scrivendo Loria si volge ad una sua umanità
partecipabile, da acquisire, recuperare e verificare secondo
un’antica promessa di condivisione e di possesso
che scopre drasticamente smentita, negata e irrisa: cerca
«calore», biologicamente lo pretende, costretto
al contrario a prendere atto del vuoto, del falso, del
freddo. Prima del giovanile e già maturo leopardismo
a sfondo filosofico che magnificamente sigla Il falco,
i mondi privilegiati del sogno loriano di tipo primario
si sono d’altronde stabiliti nei termini adolescenziali
e già culturalizzati dell’anelito sentimentale
verso una sublimata e sublimante donna spirituale, angelica
e ispiratrice, ma anche in quelli funerei, sacrificali,
dolorosamente delusivi e rinunciatari, di una tomba sulla
quale piangere, in deserta solitudine, letterariamente
tra Omero e Virgilio, Foscolo, Stevenson e Van Schendel,
in compagnia di un superstite e sostitutivo amico-alter
ego.
È così che Loria sarà presto l’autore
di un racconto incredibile e precoce, riassuntivo ed esemplare,
fra i più alti della letteratura italiana del Novecento,
e insieme, soprattutto allorché il suo esercizio
si farà progressivamente più problematizzato
ed impervio, un eterno, protratto adolescente sognante:
un adolescente riscontrabile, al di là dell’ingovernabile
dimensione del memorialismo romanzesco e dei suoi ibridi
senili tentati, nell’immediatezza paraletteraria
e solo privata del diario; un adolescente, nonostante
tutto, ancora votato alla ingannevole speranza (una pretesa
che volta a volta si risolve in una mortificante constatazione
di esclusione) di potere in qualche modo cogliere ancora
la vita, catturarla, penetrarla e riscattarla, ponendola
attimo dopo attimo, pagina dopo pagina, sotto la lente
implacabile della registrazione più fedelmente
minuta e quotidiana: direttamente, crudamente, con un’attenzione
capillare ed onnicomprensiva aliena da infingimenti e
tergiversazioni, senza orpelli.
Il paradosso soprendente con il quale Arturo Loria si
prepara a presentarcisi ad un certo punto del suo itinerario
di narratore prematuramente bloccato nella sua libera
e poliedricissima felicità espressiva di partenza
è eclatante: «Vorrei essere – arriverà
a sostenere nel 1946, in un appunto del segreto Raccoglitore
– scrittore di quelli che dimenticano se stessi
e inventano, raccontano amori, carceri e fughe, miracoli
dell’ultimo momento», dimenticandosi che Arturo
Loria da giovane – non certo dimenticandosi allora
di sé – era stato fondamentalmente proprio
questo. Il tentativo di intimità e di autorivelazione
si fa incalzante, masochistico, autodistruttivo: fino
alla messinscena autopunitiva di un pubblico processo
il cui l’imputato è tout court lo
scrittore che ha deluso, che ha sperperato (ha «sciupato»
anche lui, proprio lui) un dono preziosissimo ricevuto.
Sta di fatto che alle pagine delle incompletabili Memorie
inutili, ad un tempo perduto fantasticamente e analiticamente
ricreato sub specie romanzesca, si abbineranno
il Loria quelle potenzialmente inesauribili, aperte, del
Diario senile di Alfredo Tittamanti: il passato
e il presente di un personaggio che scrive valutati interattivi,
messi a confronto, analogamente investiti della ricerca
dell’«iniziale imprudenza» che a proprio
piacere, come ha deciso dell’esistenza di un uomo
smarrito perfino di fronte alle sue origini genealogiche
(e pronto così a riallestire i miti del «salvatore»
e del «bambino rubato»), decide adesso della
vita di testi.
«Le reali figure interessanti la mia storia –
rievoca il Tittamanti stesso – si piegavano così
ai miei voleri e, senza voce per protestare o compiacersi,
assumevano il posto che io assegnavo loro». In effetti,
elevando l’assoluto bisogno di chiarezza e il volontaristico
controllo a sistematico programma, Loria gradualmente
si avvia al suo destino di despota detronizzato; esigendo
a tutti i costi la verità, Loria finisce con il
non accorgersi neppure che essa è già dislocata
in un suo passato valutabile, per quanto oscuro e magmatico,
davvero «intimo e familiare»: un passato disponibile
peraltro a riproporsi, a rinnovarsi e continuare, se dopo
La scuola di ballo Loria sarà ancora l’autore
di racconti strepitosi come Il quadro incompiuto,
Il compagno dormente o L’albergatore
malato. È all’ombra di queste contraddizioni
che Loria firma altri capolavori, anche se lo scrittore
stenta sempre di più a legittimare una propria
continuità, a credere di poter affidare alla pratica
letteraria la fuoriuscita dalla «zona dolente»
in cui la sua scrittura stessa, ora, si trova segregata,
duramente impedita, resa impotente.
Loria, sul drammatico sfondo storico progressivamente
incupitosi e subìto di persecuzioni razziali, conflitti,
distruzioni, lutti familiari, si compiange e si giustifica,
si chiude e si difende; rimanda tutto a tempi migliori,
dimentica, si distrae, si disperde, facendo perfino del
suo grande talento sottratto ai propri compiti, spesso
commemorato, sangue per «vecchi vampiri» (l’allusione
contenuta in una lettera loriana del 1956 è a Bernard
Berenson). Si annuncia frattanto, con la Liberazione e
la nascita del periodico fiorentino «Il Mondo»
(da lui condiretto con Montale, Bonsanti e Scaravelli),
l’immagine potenzialmente riabilitante e stimolatrice
di un Loria della militanza, impegnato, resuscitato e
al centro di un clima ottimistico e propositivo, che non
esita tuttavia a dichiararsi in privato, personalizzando
e attualizzando sconfitte e stigmate antiche, un «vedovo»
volenteroso e inconsolabile di Firenze.
Viene in mente il giovane Arturo che redigeva in solitudine,
dal mare o da città visitate, lontano da familiari
e amici, lettere d’amore ad una leopardiana Nerina,
una ragazza educatamente e ardentemente corteggiata, forse
anche per il suo nome. Ad essa, la prima delle sue Muse
ispiratrici perennemente inseguite e sfuggite, Loria,
già sconfitto, dichiarava: «Del resto il
Leopardi già m’insegnò che amore e
morte nacquero insieme e sono pronti a dividersi per diverso
cammino l’un da l’altro. / Io mi chiedo con
angoscia per quale delle due strade sono io incamminato».
Un’ulteriore richiesta di soccorso lanciata a Nerina,
distante «creatura d’amore» che non
comprende «di quanta fiamma saprei io avvolgerla»,
dedicataria unica di un duplice dono, «la mia vita
e la mia arte» (così in una lettera da Milano,
datata 6 maggio 1926), prevede in realtà percorsi
ormai effettuati e approdi: «io sono come un uomo
che dopo un lungo cammino compiuto per giungere ad una
sorgente, la trovi seccata».
A percorso biografico quasi ultimato, dopo l’omaggio
ad instabili ispiratrici intervenute e via via dileguatesi,
il «nido» si ricompone, pascolianamente riattivando
l’affettuoso «A mio padre e a mia madre e
ai miei sette fratelli» del lontanissimo libro d’esordio,
Il cieco e la Bellona, secondo circolarità
e coincidenze solo in parte variate che valgono un’acquisizione
essenziale: quella di non essere forse mai cresciuto,
o di essere cresciuto sempre e soltanto, scrivendo, nell’idea
della morte. «Alla memoria dei miei Genitori»
è la dedica che intimamente, familiarmente sigla
le Settanta favole.
Firenze,
la letteratura, le riviste
…se avessi potuto, un giorno, condurre
a Firenze una vita, un supplemento di vita
du côté de chez Swann,
avrei potuto farlo solo con l’aiuto
e l’assistenza di un maestro: Loria… (Eugenio Montale)
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Il conteso ricordo di Loria, il suo inadeguato accredito
letterario novecentesco risulta correntemente legato a
Firenze: spazi generici e parziali, del resto, cronologicamente
troppo circoscritti e di clima, del tutto insufficienti
a definire in senso critico il contributo originale e
articolato di una presenza, il profilarsi di un’opera,
il suo costituirsi ed il suo evolversi.
Loria giunge alla letteratura (alla letteratura istituzionalizzata
di una Firenze calamitante, patria primonovecentesca ancora
efficiente di produzione culturale e fervido crocevia
di intellettualità) con un bagaglio esportabile
d’esotico cui le sue origini padane e le sue ampie
letture, presto sterminate come un altro mondo, forniscono
doviziosamente materia. Sono gli anni di «Solaria»,
di una letteratura giovane che cerca, nell’Italia
e nella cultura del tempo, un respiro europeo, un allineamento
moderno all’insegna di aria e luce, di libertà.
Loria è con quegli scrittori, è –
lui leggermente più giovane di loro e sempre elegantissimo
– la mascotte di quel gruppo. Il suo debutto
nell’ambito della rivista fondata nel 1926 da Alberto
Carocci avviene prima sulle pagine del periodico, poi,
con un libro, Il cieco e la Bellona, nelle edizioni
solariane.
Con quell’ambiente stimolante Loria intrattiene
rapporti che ampliano biograficamente intimità
e fratellanze (si pensi alla sua amicizia con il pittore
Colacicchi e in seguito con Alessandro Bonsanti), ma il
suo contributo letterario, pur favorito da un gruppo e
da instaurati sodalizi, rivendica da subito spiccate specificità.
Nel suo recente Il caso Loria. Storia e antologia
della critica Nicoletta Mainardi ha ricostruito molto
bene, sulla base dei pareri espressi proprio da amici
e compagni di strada, questa minuta trama di rapporti
in cui forme di solidarietà e divergenze di punti
di vista di continuo si intrecciano e, libro dopo libro
di Loria, si ridefiniscono. Resta tuttavia valido il giudizio
formulato da Luigi Baldacci, secondo cui l’originalità
di Loria, la sua anomalia inassimilabile, si staglia con
forza su scenari di per sé renitenti al «denominatore
comune», agli aggreganti indirizzi d’orientamento
e agli intenti programmatici compatti di una scuola: «Loria
– scrive Baldacci in uno dei suoi notevolissimi
saggi dedicati a Loria, da lui definito senza incertezze
autore «tra i massimi del Novecento» –
non è stato organico al contesto culturale nel
quale ha operato».
Sarà Eugenio Montale, da presenza fiorentina già
allora autorevole e come tale accreditata in quel gruppo,
a chiedersi, ponendo l’accento su salvaguardate
estraneità dello scrittore pure ad un contesto
quotidianamente partecipato di incontri e frequentazioni,
da dove Loria attingesse «i suoi cuori traditi,
gli amanti, i pazzi, i bricconi, i lazzari, i caffettieri
e i ruffiani delle sue novelle», sottolineneando
da lettore e cronista attento un Loria solitario, pronto
a sottrarsi alle socialità più comuni (anche
nella grande villa del «Pellegrino», dove
la numerosa famiglia Loria vive, Arturo ha proprie stanze
ai piani superiori), non solo biograficamente destinato
a restare misterioso, appartato: un personaggio sostanzialmente
insondato, in molte delle sue pieghe, da tutti.
Per gradi, com’è noto, la narrativa di Loria,
specie nei racconti dell’importante terza raccolta,
La scuola di ballo, si era del resto accinta
a semplificare i suoi iniziali apparati scenografici e
manieristici, avventurosi e «picareschi»,
a favore di una intensità della pagina aliena da
ogni effettismo, da ogni sospetta forma di decorazione
d’intralcio o di abbondanza. Una deliberata, mirata
normalizzazione pseudo-realistica del narrare si era innescata.
I guitti, gli angeli precipitati del Cieco e la Bellona
e di Fannias Ventosca avevano ormai dismesso
la loro esteriorità esuberante, da parata; i loro
impilotabili vagabondaggi avventurosi, da principi e da
zingari, si erano trasformati in itinerari verticali spietatamente
interiorizzati, autoinquisitoriali, in linea con una nuova,
più esigente tensione dello scrittore a mettersi
a nudo nelle sue accresciute difficoltà e nelle
sue estremistiche insofferenze verso liberi e troppo agevoli
abbandoni, movimenti gratuiti, esorcismi scintillanti:
per «scendere – come ancora Montale annota
– nella regione che sola conta: quella del cuore
umano».
La crisi di Loria e la sua paralizzante ossessione scrittoria
si rivelano per la prima volta proprio in occasione del
conferimento del prestigioso Premio romano dell’«Italia
letteraria» intitolato a Umberto Fracchia, nel 1933:
con uno sbaragliante «momento triste» (così
Loria commenta la sua festeggiatissima affermazione consacrante),
una continuità di immagine e di esercizio bruscamente
si interrompe. Loria continuerà ad abitare a Firenze,
a vivere e frequentare i suoi amici negli spazi culturalmente
qualificati e storicamente cangianti di una città,
come pure a pubblicare sulle sue altrettanto qualificate
riviste (dalla bonsantiana «Letteratura» ad
«Argomenti» di Carocci, da «Pègaso»
e «Pan» di Ugo Ojetti all’inaugurato
«Ponte» di Calamandrei), ma comincerà
a sentirsi e a presentarsi presso gli altri come l’«erede
di sé stesso»: un sopravvissuto scrittore
«disperso e inascoltato», attanagliato dalla
sfiducia nei propri mezzi e dal silenzio, per il quale
ripensare al passato, alla sua vita di secondo grado un
tempo realizzata e così radiosamente accolta, si
configura sempre di più nei termini intollerabili
ed angosciosi di un colpevolizzante ricordo, di un rimorso
volto giorno dopo giorno ad aggravarsi e ferire.
Fragile prospettiva riabilitante e assolutoria, di riscatto
e di ripristinabile entusiasmo operativo, non esita a
configurarsi – sullo sfondo di una Firenze del Novecento
letterariamente ed intellettualmente di nuovo efficiente
– anche l’eccezionale militanza civile che
la biografia di Loria annovera. È il momento dell’uscita
dagli anni bui del fascismo, della ricostruzione sopra
le macerie che come segni visibili e violenti la guerra
ha lasciato di sé (l’autore vi ha perduto
tra l’altro molti dei suoi manoscritti e molti dei
suoi libri), e Loria partecipa attivamente (anche politicamente
iscrivendosi al Partito d’Azione) di un quadro tutto
da reimpostare, fa sue fiducie e speranze di altri, è
in prima fila nel ritornare a vivere. Ma basta poco per
accorgersi come gli insoddisfatti autoritratti di Loria
si ripropongano in controluce perfino nelle meno sospette
affermazioni del lucido e versatile articolista del «Mondo»,
che adesso, da intellettuale responsabile, sostiene ad
esempio che «l’arte può attendere».
Alibi e giustificazioni personalistiche restano impliciti.
È in realtà un Loria a sfondo sociale e
collettivistico che tenta, nei termini di una rinnovata
presenza, l’abbandono di case vuote abitate soltanto
da fantasmi, di nicchie monopopolate da statue, di antri
umidi e freddi: tutte varianti di un’unica stanza
dei supplizi incontrata in termini di scrittura fin dagli
inizi di una carriera. In climi storici di rifondazione
Loria propugna l’abbattimento della «torre
d’avorio» in cui «da troppi anni lo
scrittore italiano si è chiuso»; diffida
apertamente, dalle colonne del periodico che condirige
e a cui fattivamente collabora, della «troppa ambizione
di eternità» dell’arte, a cui è
bene talvolta rinunciare; afferma di credere nella «sconfinata
libertà» dell’artista, aggiungendo
però, a propria consolazione e a proprio danno,
che «rifugiandosi nei felici ricordi dell’infanzia
o in quelli torbidi dell’adolescenza si dà
poca mano all’opera educativa».
Ora il mondo di Loria è «Il Mondo»,
una testata, una rivista, ma Loria continua a parlare
di sé, per sé. Ecco infatti puntualmente,
a dieci anni di distanza, in una lettera del 1956, l’immagine
che l’autore torna a offrire di se stesso nel declinare
un invito collaborativo della rivista «Il Caffè»:
«So troppo poco di quanto bolle in pentola con la
necessaria conoscenza dei temi; né intendo fare
la figura di quegli eremiti che aspettano chi vada a tirarli
fuori dalla loro grotta e a riportarli in città.
Peraltro, non ho motivo di rammaricarmi (dico in oggi)
di nessuno: amici, colleghi, critici, perché col
mio silenzio, non dò a nessuno l’occasione
di dare troppa importanza alle mie ideologie oppure di
dimenticarle per badar solo allo stile. Credo che la cosa
più necessaria sia quella di salvar l’anima,
cioè di tenersela stretta [cancellato nella minuta:
«e di non venderla a nessuno, nemmeno alla donna
fatata»] e curarla come fosse il campicello da cui
trarremo sempre un po’ di sussistenza, e di restituirla,
infine, a chi ce l’ha data meno andata a male che
sia possibile».
Negli anni Cinquanta, mentre la morte incombe da vicino
su di lui, lo scrittore si volge ormai di preferenza,
sia pure con esiti espressivi di diversa remuneratività,
al mondo antieroico, naturale ed ermeticamente sigillato,
inesorabilmente vessatorio e vessato, degli animali. Nel
nome della chiarezza, le virate in ambiti classici e formalistici,
a suo tempo emblematizzate da un pubblicato dramma mitologico-satiresco
come Endyomione e ora rese visibili dal moderatismo
colloquiale-oraziano di una semplice comunicazione epistolare,
danno luogo alla composizione di sobrie, quintessenziali
moralità di tipo favolistico e, insieme, all’infittirsi
di dolenti composizioni in versi. Dall’antiumanistico,
chiuso mondo degli animali, dei più tellurici e
quasi invisibili animali, dai più ignorati e nascosti,
dai più perseguitati e bistrattati: da questo ultimo
mondo dell’ingiustizia e dell’assurdo, da
un universo di senza parola, Loria ci si profila ancora,
né più né meno che nell’antico
racconto Il falco, come uno scrittore in cerca
di «calore», alla ricerca della vita.
Pure in accezione di scritture terminali sufficientemente
parallele, analogamente concentrate e tormentate (l’assillo
è testimoniato dall’impressionante congerie
di redazioni e redazioni accumulate), sul Loria illuminato,
bonsantiano delle Settanta favole sopravanza
di sicuro l’eccentrico, recluso ed elegantissimo
poeta del Bestiario: un autore civilmente inutilizzabile,
esibitamente fuori del tempo e delle sue cronache, contratto,
tragicamente lirico e differito, dedito ad altre vite,
tanto da far pensare a Schlegel – «Come una
piccola opera d’arte, un frammento deve essere totalmente
staccato dal mondo circostante, e chiuso su se stesso
come un istrice» –, o al testo stesso di poesia
secondo Derrida: «chiuso a riccio, irto di spine,
vulnerabile e pericoloso, calcolatore e inetto (si espone
all’incidente proprio perché, sentendo il
pericolo sull’autostrada, si appallottola)».
(da I mondi di Loria. Immagini e documenti,
Scala, 2002; con il titolo Breve profilo di Loria
anche in Novecento. Nuovi sondaggi, Le Lettere,
2004)
Marco Marchi (Castelfiorentino, 1951)
insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea
alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università
di Firenze. Ha esordito come saggista nel 1978 con Sul
primo Montale, edito da Vallecchi, e ha curato
per Mondadori il «Meridiano» delle Opere
di Tozzi (1987). Tra le sue pubblicazioni: Pietre
di paragone. Poeti del Novecento italiano
(1991), Federigo Tozzi. Ipotesi e documenti (1993),
Sondaggi novecenteschi. Da Svevo a Pasolini
(1994), Palazzeschi e altri sondaggi (1996),
Vita scritta di Federigo Tozzi e Vita scritta di
Italo Svevo (1997 e 1998), Invito alla lettura
di Mario Luzi (1998), D’Annunzio a Firenze
e altri studi (2000), Scritture del profondo.
Svevo e Tozzi (2000), I mondi di Loria
(2002), Novecento. Nuovi sondaggi (2004). Ha
curato importanti edizioni (si ricordano quelle di Palazzeschi
recentemente apparse negli «Oscar»: Il
Codice di Perelà e Interrogatorio della
Contessa Maria, 2001 e 2005), antologie e mostre
documentarie. Autore di «drammaturgie critiche»,
ha scritto testi scenici per Piera degli Esposti, Marco
Balani, Iaia Forte e David Riondino.
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