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Anno 2007
  Antonio Pascale
 
Si è fatta ora
  Antonio PascaleQuel giorno, il 23 ottobre del 1977, mia madre mi fermò all’improvviso e mi mise un brutto cappello di colore marrone con i paraorecchi. All’epoca non truccavo ancora i motorini né impennavo per le vie del centro. Ero un delicato ragazzino undicenne e mia madre tendeva a proteggere la mia salute. Da qualche istante cadeva la pioggia.
23 ottobre 1977, domenica. Ricordo anche l’ora: le
17.05, perché mio padre, che se ne stava seduto su una panchina, pronunciò la sua frase consueta, giusto un attimo prima che mia madre mi mettesse questo brutto cappello marrone. Con i paraorecchi:
«Si è fatta ora».
Poi guardò l’orologio e appunto disse:
«Sono le cinque e cinque».
Una vecchia consuetudine di mio padre, prima diceva che era tardi, poi guardava l’ora. Non che una frase così fosse prerogativa solo sua. Tutti i padri dei miei amici prima o poi dicevano:
«Si è fatta ora».
E nemmeno loro guardavano l’orologio, ovviamente.
Non ho mai capito se intuissero meglio di tutti gli orologi al quarzo il tempo che ci restava per giocare, oppure si buttavano a indovinare, nel senso che misuravano il tempo sulla loro capacità di sopportare ancora i nostri giochi. Non che non amassero i figli. È che noi figli eravamo un accidente capitato troppo presto. Eravamo arrivati poco prima dei loro trent’anni, quasi a farlo apposta. Sì, perché si erano appena affrancati da un’infanzia contadina. Il posto fisso, un po’ di soldi in banca, gli spiccioli per offrire la sfogliatella o il caffè agli amici, la macchina comprata a rate. Che veniva ancora lavata tutti i sabati pomeriggio, a mo’ di buon auspicio per la settimana a venire. Insomma, quando i figli erano arrivati era come se per loro fosse appena iniziato il tempo del divertimento. A questi padri, seduti sulle panchine dei parco giochi, toccava non solo rinunciare allo stadio e compensare il tutto ascoltando «Novantesimo minuto» con l’auricolare, ma dovevano pure badare a noi, figli cagionevoli. Mio padre poi di mestiere faceva il poliziotto e, diciamo così, la dimensione famigliare, gli affari domestici, gli andavano stretti.
Lui scalpitava per stare sempre fuori.
Questa mancanza di tempo per loro stessi causava un principio di irriquietezza, desideravano fuggire. Non per sempre, si intende. Diciamo che tendevano ad anticipare l’ora del rientro. Sottraendo qualcosa a noi, forse potevano sperare di guadagnare qualcosa per loro:
«Si è fatta ora».
Prima che davvero si fosse fatta ora.
Comunque stavo insieme ad altri bambini in un parco giochi vicino Caserta, un posto riadattato da poco (e, secondo gli amministratori, migliorato) con orrendi mostri di alluminio: scivoli, altalene e pertiche. All’improvviso venne a piovere. Pioggia è un’esagerazione, cadeva una pioggerellina sottile, ma tuttavia abbastanza fitta per preoccupare le madri. Se da un lato i padri tendevano a dire che l’ora era giunta e dunque il nostro tempo compiuto per sempre, le madri,
al contrario, volevano assicurarci un surplus temporale. Badando naturalmente a che ci conservassimo in buona salute.
Altrimenti era tempo sprecato.
Così a me fu messo il cappello con i paraorecchi (che in quegli anni andava di moda) e ai miei amici il maglioncino di lana. Poi qualcuno ci disse di andare tutti sotto lo scivolo, per ripararci, appunto, da questa pioggia.
La salute. Dunque, la protezione prima di tutto. Noi bambini ci sentivamo dominati da due umori contrastanti:
«Si è fatta ora!»
«Mettiti la maglia».
Due modi per dire la stessa cosa: fermati, il tempo si è compiuto, da ora si cambia passo.
Fatto sta che mentre eravamo tutti rintanati sotto lo scivolo, bambini e genitori, padri scocciati e madri preoccupate, arrivarono quelli della banda di via Trento, comandati da un ragazzo che poi sarebbe stato chiamato Peppe u’stuort.
Per via che era brutto, basso e storto, eppure dotato di una forza incredibile. In seguito l’avrei visto atterrare facilmente giocatori di basket. Ora, quelli della banda di via Trento erano brutti ma vitali, praticamente nudi, senza cappelli né maglioncini di lana.
Dovettero trovarsi davanti un’immagine lirica, che io stesso per anni ho rivisto nei miei sogni: un parco giochi tutto per loro, dal momento che i suoi abituali frequentatori – ragazzini di media borghesia – stavano rintanati sotto uno scivolo, bloccati non tanto dalla pioggia, ma da due moti di comando diversi e uguali al tempo stesso.
A un certo punto presero d’assalto l’altalena. Si dondolavano in piedi sull’asse, e naturalmente raggiunsero punte oscillatorie molto elevate. Senza temere l’equilibrio precario, anzi. Ci fu un momento particolare, poi, quando un colpo di vento fece volare parecchi soffioni e i ragazzi cominciarono a inseguire i soffioni per tutto il parco. Anche questa è stata un’immagine che di seguito avrei rivisto nei miei sogni. Non c’è che dire, erano felici, sotto la pioggia, quasi nudi, andavano su e giù senza paura.
«Senza paura», fu un concetto che mi venne in mente allora. Adesso, con il senno di poi, direi: senza tempo. Per loro sembrava che l’ora non scoccasse mai. Io, rintanato sotto lo scivolo, costretto a portare il cappello marrone con i paraorecchi, li guardavo. Non dovevano avere né padri che decretevano la fine dei giochi, né madri che li appesantivano con i vestiti. Forse adesso esagero con la visione, ma davvero quella scena, quell’appropriazione legittima di uno spazio lasciato vuoto, mi fece pensare: prima o poi li devo conoscere, Peppe u’ stuort e la sua banda. Per liberarmi dal mio maglioncino di lana, dall’ora che scocca, dalla paura dell’eccessivo dondolio dell’altalena. Dalla paura di smarrire l’equilibrio, insomma.
«Mo’ si è fatta veramente ora», disse mio padre.
Sul finire degli anni Settanta le strade del mio quartiere non erano ancora asfaltate. Spesso cominciavano bene e finivano nel fango. Colpa della tipologia urbanistica. La città andava verso la campagna, cioè le case venivano costruite ai margini di campi coltivati a tabacco o a canapa, così le strade non sempre conservavano l’asfaltatura. Man mano che si inol travano per campi e campetti subivano un processo di erosione, l’asfalto finiva e cominciava l’acciottolato. Poi, nei giorni di pioggia, la terra assorbiva acqua e si formavano dei veri e propri laghi.
Un giorno capitò a me di attraversare uno di questi laghi.
Una specie di sfida con gli amici. Oltre il confine del lago c’era la campagna aperta. Avevo tredici anni, da lì a poco mi sarei rotto un braccio impennando con la bicicletta. Ma stavo acquistando coraggio. Il coraggio di non ritirarmi proprio all’ora stabilita e di legarmi il maglioncino in vita. Così, con la mia bicicletta da cross mi avventurai tra il fango, e piano piano, senza mai mettere i piedi per terra, ce la feci. Guadai la sponda del lago e mi voltai indietro: i miei amici, dal confine opposto, applaudivano. Ai loro occhi dovevo sembrare contento. Dovevo, sì. Perché mi resi conto che era stata tutta fortuna. Insomma, non ci credevo. Nemmeno adesso saprei dire come, con quale tecnica, avevo attraversato il lago senza impantanarmi.
Il fatto è che queste fortune finiscono per diventare delle vere e proprie sfortune. Riuscire al primo colpo in un’impresa può aumentare la consapevolezza della tua impotenza.
Per questo rimandai il momento del ritorno e mi feci un giro per la campagna. Mi inoltrai tra gli alberi e i cespugli. Ricordo ancora le grida dei miei amici, che tornassi indietro, si era fatta ora, stava scendendo il buio. Però avevo più paura di riattraversare il lago che del buio, e così mi allontanai solo un po’ tra i noci. Tutto preso a osservare questo paesaggio ignoto, non mi accorsi che davanti a me c’era Peppe ‘u stuort e un suo amico, Filippone, figlio di un piccolo boss che allora non si era ancora fatto largo.
Peppe mi stava puntando una fionda all’altezza della gola.
L’elastico era tesissimo e nella fondina c’era una pietra bianca. Per guardare la fionda, non mi accorsi che Filippone stava partendo con un pugno. Mi prese tra lo zigomo sinistro e il naso. Vidi una luce bianca. Per la botta, smontai dalla bicicletta e feci due, tre passi indietro. Non appena la luce bianca si spense rividi come in un miraggio mio padre sedu to su una panchina con l’auricolare che diceva:
«Si è fatta ora».
Ancora oggi, quando gioco a wrestiling con Alfredo, se solo un pugno mi sfiora il naso, risento quello stesso dolore di allora. E vorrei dire: «Si è fatta ora».
«Posa ’lloco a’ bicicletta», disse Peppe u’ stuort.
Mi scorreva tanto di quel sangue che pensavo di non avere più il naso, per poco non abbassai lo sguardo per cercarlo. Poi gridai: «Adesso chiamo a mio padre che fa il poliziotto!»
«Ma chi devi chiamare, strunz’!», mi disse Filippone. Che poi aggiunse, indicando con il dito il mozzo della ruota: «ma a che ti serve quella cosa lì?»
Con il dolore al naso, il sangue che scorreva, dovetti spiegare a Filippone e a Peppe u’stuort a cosa servisse quella roba li, attorno al mozzo. Era un’invenzione di mio nonno, che di mestiere faceva il capo mastro. E siccome mio nonno era ingegnoso, aveva preso un pezzo di camera d’aria, l’aveva chiuso ad anello e avvolto attorno al mozzo. Le strade erano fangose, la città andava verso la campagna, c’era polvere e detriti dappertutto. E questi ultimi, soprattutto, tendevano a incrostare il mozzo delle ruote. In questo modo, invece, quella camera d’aria montata ad anello, girando attorno al mozzo, lo ripuliva. Così, mentre la maggioranza delle ruote avevano mozzi sporchi, il mio era lucido.
I nonni in quegli anni erano pressapoco tutti come il mio, sapevano come controllare il mondo materiale, migliorandolo per quello che potevano. La camera d’aria poteva essere l’elastico per la fionda ma anche un anello, diciamo così, con funzioni ecologiche. Si ingegnavano parecchio. Non erano irrequieti. L’inquietudine era un’astrazione che non faceva per loro. Se a un certo punto lo diventavano, inquieti, si mettevano a pensare e producevano un piccolo oggetto che migliorava gli incastri tra le cose e il mondo.
Con il dolore al naso e tutto il resto appresso, spiegai a Filippone e a Peppe u’ stuort a cosa servisse quell’anello.
«Lo vogliamo pure noi», dissero.
E lo ebbero, glielo regalai io stesso: mio nonno, di anelli così, ne produceva in quantità industriale. Diventammo amici e realizzai il desiderio espresso durante quella domenica pomeriggio nel parco. Non sospettavo ancora che ogni volta che si avvera un desiderio, la nostra immaginazione subisce un collasso. Fu così anche per me.
Gli anni Ottanta si aprirono su una ruota sola. Avevo imparato a impennare guardando Peppe e Filippone che, oltre a fare questo, chiedevano motorini in prestito. Era come se volessero provare tutto e, provando tutto, fossero in grado di mantenere il controllo su ogni cosa. Chiedevano un motorino, se il proprietario protestava riceveva una capata sul setto nasale e vedeva la luce bianca, la stessa che avevo visto io, infine cadeva per terra e perdeva il motorino. Se andava bene, l’avrebbe avuto indietro dopo qualche giorno.
Andare su una ruota, truccare i motorini, e cioè cambiare carburatore, cycler, marmitta, testata, pignone erano le cose che facevo in quegli anni. Il mio motorino da 50 cc era passato a 150 cc. e impennava pure in quarta, tanto che avevo dovuto zavorrare la forcella. Quando non stavo in sella, mi sedevo sul muretto a guardare Peppe che prendeva a pugni la gente. Mi comportavo da tifoso, incitavo la rissa. Mi faceva sempre un certo effetto osservare la genesi della violenza.
Quando qualcuno voleva fare a botte con Peppe, prima bestemmiava e poi lo riempiva di insulti. Non sapeva che aveva già perso. Peppe non diceva nemmeno una parola, colpiva in silenzio mentre il suo avversario si agitava. Non c’è che dire, vedere come la bestemmia si spegneva in corpo, immaginare la luce bianca che il tizio stava vedendo in quel momento, mi dava un certo piacere.
Un giorno, dopo una piccola rissa, Ferdinando Citarella, uno che stava nel nostro quartiere, fermò mio padre, che stava rientrando a casa, e gli disse: «Pietro, ma voi poliziotti che combinate? Li vedete o non li vedete queste cape di cazzo che fanno?»
Le cape di cazzo in quel momento stavano sedute sul muretto ed erano nella fattispecie Peppe e Filippone, anche se Citarella guardava pure me. Per lui facevo parte della banda. Il che, in fondo, mi onorava. Però mio padre, dopo aver compiuto il suo solito gesto, cioè quello di buttare la sigaretta quando qualcuno gli parlava, per una sorta di antica creanza, creanza che in verità gli dava parecchio sui nervi, disse: «Ferdinando, ma tu veramente fai?»
E poi guardò le ruote dei motorini di Peppe e Filippone: attorno al mozzo c’era l’anello autopulente, fatto con la camera d’aria, e per questo il mozzo era lucido, quasi brillava.
L’invenzione di mio nonno aveva avuto il suo successo nel quartiere, una specie di status symbol.
«E secondo te, questi sono dei problemi? Questi qua, sono due che fra qualche anno moriranno uccisi. Perché li vedi dalla faccia che più di questo non possono fare. Fra poco si fa ora anche per loro».
Poi guardò me e mi prese sotto il braccio: «Per quanto riguarda mio figlio, questo è un problema mio, fastidio non dà, evverò?»
Intanto gli anni Ottanta avanzavano a gran forza, da alcuni anni avevo perso i miei nonni. Quando ripensavo a loro, avevo davvero l’impressione che quel decennio stesse cambiando il corso delle cose così come ero abituato a conoscerle. Venne meno quel mondo sì materiale, ma misurato e ingegnoso. Quel tipo di ingegno minimo che inventava anelli di gomma per i mozzi. Non è che mancasse all’improvviso la praticità. Ma tutto quello che mi circondava sembrava o immateriale o troppo materiale. A volte l’una e l’altra cosa insieme. Ogni cosa fuori misura. Desideravamo tutti grinta e potenza, rombo e tuono. Perdipiù, la potenza si stava diffon dendo dall’alto in basso. Alcuni padri avevano cambiato lavoro: adesso maneggiavano titoli azionari, immateriaili, e compravano ville in collina, molto materiali. La città, che prima andava verso la campagna, adesso saliva su, in collina. Le strade erano tutte asfaltate.
Mio padre invece no, mantenne il suo lavoro da poliziotto. Certo il senso, e per così dire il vettore, del suo lavoro cambiò. Prima girava con la volante su e giù per la città, si caricava in macchina qualcuno, un giovane eversivo però figlio del vicino di casa, un altro che aveva picchiato la moglie però in fondo le voleva bene, persone così, le prendeva e se le portava in questura. Poche chiacchiere, poche frasi, tra cui una ricorrente, e molto minacciosa: «Ti sporco la fedina penale».
Finché un commissario se ne veniva, e diceva: «Si è fatta ora, ce ne vogliamo andare a casa?»
Ma tutta questa, diciamo così, domesticità poliziesca, ingegnosa e provinciale al tempo stesso, stava per finire. Avanzava qualcosa di non domestico, chiamata dai futuri teorici dell’economia: flusso immateriale di denaro. Sì, cominciarono a girare più soldi e bisognava controllarne la fonte. In quegli anni a mio padre toccò di verificare i soldi che giravano attorno al mercato della frutta. Che era in crisi, troppa offerta e poca domanda. Così, per mantenere il prezzo stabile, la merce doveva essere distrutta. Sempre la stessa canzone.
Per compensare le perdite, si davano dei contributi agli agricoltori. La questione era semplice: si aprivano centri di raccolta, in pratica discariche a cielo aperto con bilance per pesare la frutta che arrivava con i camion. Si pesava la merce e la si accantonava. Alla fine le ruspe distruggevano il prodotto. Mio padre doveva controllare questo flusso di merce che finiva in discarica. Ma erano gli anni Ottanta, e tutto sembrava smaterializzarsi da un lato e materializzarsi dall’altro.
La merce aumentava misteriosamente di volume. I camion che entravano nei centri di raccolta portavano a occhio 1000 quintali di pesche, ma non si sa come la bilancia ne pesava almeno il triplo. Merce immateriale, ovviamente. La merce in eccesso generava soldi in nero: più frutta immateriale più soldi venivano erogati, più certe persone si arricchivano e più si acquistavano oggetti materiali. Materiale vs immateriale, immateriale vs materiale. Gli addendi, anche se lottavano fra di loro, producevano sempre lo stesso risultato: soldi. Mio padre si fece il sangue amaro. Quel modo di dire: «si è fatta ora», aveva perso il suo significato originario. Non si potevano più accompagnare i figli a casa e godersi la vita, bisognava rimanere a controllare la merce. La sua irrequietezza giovanile aveva cambiato passo. A dir la verità mio padre ebbe proprio la sensazione che l’ora fosse fuggita, per lui e per gli altri come lui. Non volendo adeguarsi ai tempi, si trovò in breve fuori dal tempo. La sua domesticità con i delinquenti abituali si perse. In quegli anni mio padre cominciò a odiare tutti, e non solo i violenti, i bizzosi, i camorristi, le cape di cazzo, quelli che non volevano rispettare nessuna regola, ma le persone in generale. O erano troppo simpatiche, e quindi ti volevano fare fesse, o troppo attente, e allora dovevi pararti il culo, o troppo disattente, e quindi non si rendevano conto dei problemi. Poi mio padre incominciò a prendersela anche con quelli che non c’entravano. Scelse la linea dura. Si arrabbiava fuori misura, alla violenza rispondeva con la violenza, e a fine giornata tornava a casa che sembrava un pazzo. Tutti in famiglia ci andammo per sotto. Collasso dell’immaginazione. «Che brutta cosa ’a gente». Da allora in poi fu la sua frase preferita. Ma in quel periodo il collasso dell’immaginazione interessò tutti in famiglia. Mio padre, come dicevo, mia madre appresso a mio padre, e io, che adesso rinunciavo sì ai maglioni di lana, ma non facevo altro che stare seduto su un muretto ad aspettare Peppe e Filippone per fare un po’ di bordello insieme. Impennare, sgasare, sfrizionare e disegnare i cerchi con la ruota del motorino. È come se gli ingredienti che prima ci rendevano le cose familiari, soffici, morbide, accoglienti, fossero misteriosamente cambiati. Ce ne accorgemmo in un giorno di aprile dell’82, quando mia mamma mise nel forno il pan di spagna. Ricetta semplice, tradizione di mia nonna: farina, tuorlo d’uova e lievito. Ebbene, il pan di spagna non cresceva, non lievitava. Se qualche anno prima si gonfiava tanto da sembrare un pallone lasciato al sole, adesso rimaneva basso. L’operazione culinaria fece impazzire mia madre, che per tutto il giorno contò e ricontò gli ingredienti, pesò e ripesò il materiale. Pensava di avere sbagliato la dose. Non era così. La dose era giusta, ma il pan di spagna da quel giorno non sarebbe cresciuto più come una volta.
Tutti in famiglia ce ne rendenno conto, ma nessuno di noi elaborò un pensiero sull’accaduto. Togliemmo lo sguardo dal forno con la sensazione che le cose fossero cambiate. Ognuno tornò alle proprie occupazioni.
Del resto, il tempo degli oggetti che si incastravano l’uno con l’altro grazie al lavoro preciso dei nonni era finito. Il pan di spagna che cresceva aveva fatto il suo tempo.
«Si è fatta ora». Appunto.
Finché, almeno per me, non accaddero due cose. Una di seguito all’altra. La prima fu che Peppe ruppe senza nessuna ragione una bottiglia in testa a un barbone. La seconda fu che andai al teatro. Le due cose sono a tutti gli effetti collegate.
Anche per Peppe e Filippone era finito il periodo dei giochi: i motorini, i toraci nudi al vento, i parchi da frequentare sotto la pioggia quando gli altri erano ben riparati. Quella bottiglia spaccata in testa al barbone serviva a testare la nostra resistenza, la capacità di sottomettersi al capo. Lo spirito di identificazione, il gruppo, l’organizzazione. Se avessimo superato la prova saremmo entrati a far parte di un giro più grande.
Fui tra quelli che non superò la prova. Non nel senso che mi ribbellai tout court la sera stessa. Anzi, mi misi a ridere insieme agli altri.
Però mai risata fu per me più amara di quella. Risi perché non avevo parole per rispondere a ciò che avevo visto. Provavo fastidio e nello stesso tempo ero incapace di dichiararlo. Crollo dell’immaginazione. La porta principale per il conformismo. Accettare la stessa logica del tuo nemico, il suo stesso stile. Una furbata. Le furbate sono come le stronzate, alla fine si pagano sempre. Negli anni Ottanta ci credevamo tutti molto furbi, e invece eravamo vittime di un calo dell’immaginazione. Troppi desideri già pronti chiedevano solo di essere presi e consumati. Ma accadde questa benedetta seconda cosa: il teatro. Con la scuola andammo a vedere La tempesta di Shakespeare. Niente di raffinato, anzi. Una compagnia di terz’ordine, più guitti che attori. Un matinée, insomma, con una decina di classi costrette a vedere lo spettacolo. Accanto me, sul loggione, venne anche Peppe. Non mi fece molto piacere vederlo, non tanto per quella storia della bottiglia rotta in testa al barbone. In fondo non ce l’avevo con lui. Il fatto è che mi ricordava la mia impotenza. Comunque, non appena l’attore uscì sul proscenio, Peppe cominciò a fischiare e, praticamen- te, metà loggione lo seguì. L’attore non riusciva a dire nem- meno una battuta, sommerso com’era dai fischi, dai buuu, e cose di questo genere. Finché quest’attore di terza categoria, un guitto, senza nemmeno il fisico per fare Prospero, si fermò e disse con voce amara: «Ragazzi, lo so che non vi hanno mai insegnato ad amare il teatro, ma, ve lo dico con il cuore, non fate gli stupidi, perché il potere vi vuole stupidi». La magia della Tempesta cominciò da quella battuta fuori testo. Perché ci fu un applauso liberatorio – dopo di che, per incanto, si fece davvero buio e silenzio in scena, nessuno disse più una parola. Nemmeno Peppe, il quale dopo una mezz’ora lasciò il suo posto e lasciò anche me libero dalla sua presenza, e dunque per la prima volta vidi La Tempesta. Che adesso, lo so, faceva pena. L’allestimento, dico, ma allora su di me ebbe una fascinazione notevole. «Il potere vi vuole stupidi».
Una cosa anche banale da dirsi, eppure fu come se attraverso quella frase fossi entrato nello spirito della commedia. Cioè, detta in breve, fu come ritrovare l’immaginazione. Per la seconda volta sentii il desiderio di ribellarmi. Dopo quella domenica al parco, quando guardando Peppe e la sua banda giocare felici sotto la pioggia, pensai di togliermi una volta per tutte il cappello con i paraorecchi, ora al contrario desideravo liberarmi di Peppe.
In sostanza fu come riattraversare il lago di fango, ma in senso contrario.
Quando, dopo quella mattinata passata al teatro, riattraversai simbolicamente il lago di fango e tornai a casa, piano piano iniziai ad allontanarmi anche da Peppe e Filippone e, per contrasto, mi avvicinai ad amici che leggevano molti libri. Perché il potere ci vuole stupidi, e non volevo più essere stupido. Nel giro di pochi anni diventai un ragazzo colto che amava stupire tutti, soprattutto le ragazze, con citazioni sempre indovinate. La giovinezza, l’amore, la vecchiaia, la morte, la desolazione, la fame del mondo, il comunismo e il fascismo, il marxismo e l’anarchismo, per tutti questi temi trovavo la giusta chiosa, l’ottimo commento a piè di pagina.
Ora non guardavo più la gente, mi appartavo per leggere.
Il massimo di questa insania, ricordo, la raggiunsi un’estate a Tropea. Seduto sul balcone di casa senza mai scendere, mi lessi il Viaggio al termine della notte. Mio padre si faceva venire il sangue amaro, perché avevano fatto tanti sacrifici per quella vacanza e, visti i rfisultati, cioè il modo in cui io ne godevo, avremmo potuto anche restarcene a casa. Dopo qualche tempo presi la maturità scientifica con buoni voti, grazie anche a una risposta particolarmente azzeccata data all’esame sul romanticismo, e comunicai alla commissione che non avevo assolutamente idea su cosa fare da grande. Me ne andai in vacanza a Marina di Camerota, anche per meditare sul futuro, e portai con me le lettere di Cechov. Una me la ricordo ancora: «Non dubito che le scienze mediche mi abbiano tenuto sempre all’erta. Dovunque ho potuto mi sono sforzato di attenermi ai dati scientifici. Quando non è stato possibile, ho preferito non scrivere affatto».
Sarà che le cose importanti non si ricordano perché diventano parte di noi stessi e non un oggetto distante di cui avere nostalgia, sarà per questo o per altro, eppure quella lettera di Cechov mi fece ricordare mio nonno e le piccole misurazioni che consentono di capire il mondo. Così, al ritorno dalla vacanza, andai dai miei e dissi che volevo fare agraria, perché volevo misurare il mondo. Mio padre disse: «Agraria.
Buono. Un po’ di terra ti farà bene. Altro che libri».
Se, per esempio, nei paesi dei Mazzoni ci arrivate dall’alto, vedrete una figura geometrica molto semplice, un paesaggio agricolo composto da appezzamenti di terreno trapezoidali di 3 o 4 ettari, colore verde chiaro se si tratta di mais (lo trinceranno per il bestiame), verde scuro se si tratta di medica, o magari un prato misto (tre sfalci all’anno, sempre ad uso zootecnico). Più avanti, verso il mare, gli appezzamenti si rimpiccioliscono, 1-2 ettari, e cambiano colore: sono frutteti o meleti (qui si fa l’annurca, mela arcaica, piccola e buona) o drupacee (pesche primizie, albicocche). Non ci sono più i pomodori (San Marzano) perché il virus del mosaico li ha distrutti (per il suddetto non c’è alcuna profilassi valida, tranne gli ogm, ma noi italiani siamo tutti ambientalisti, alle raffinate novità della scienza preferiamo ancora la brutalità della chimica). I paesi dei Mazzoni, invece, si estendono più o meno compatti (a casa segue casa), raggrumati (sembrano generati da una stessa matrice). Se invece ci arrivate dal basso, vi accorgerete che i paesi sembrano antichi e allo stesso tempo moderni. Ci sono case costruite con mattoni di tufo e intonaco grezzo, e ville enormi, inaccessibili, ben curate, talmente piene di orpelli architettonici (torrette, verande, colonne doriche, capitelli corinzi, antenne paraboliche) che penserete di essere entrati in un corridoio spazio-temporale e poi sbucati sul Sunset Boulevard. Io ci arrivai il 26 ottobre del 1988, alle ore 10.45. Senza maglioncino di lana, con jeans e maglietta di cotone pesante. Capelli al vento. E molto su di umore.
Ero stato assunto per rimettere in piedi una grande azienda abbandonata da tempo. Mio padre aveva preso la notizia con indifferenza. Non riuscivo a capire quale sentimento lo dominava. Anche se poi, di questa mia assunzione aveva detto un gran bene. Non a me però, a un suo collega. Fatto sta che con jeans e maglietta, prima di passare in azienda, passai in un bar per un caffè. Ero giovane e abbastanza spensierato, perciò feci finta di niente quando il barista mi lanciò il caffè quasi addosso, né me la presi più di tanto quando dei ragazzini, molto simili a Peppe u’ stuort e Filippone, passandomi vicino mi dettero un lieve ma preciso calcio negli stinchi.
Feci finta di niente anche quando una Range Rover attraversò i campi ancora non arati sollevando un turbinio di polvere, e si diresse verso di me.
«Carissimo ingegnere», mi disse il tizio sceso dalla Range Rover. Maglione di lana e pantaloni di fustagno. Incredibile pensai, un contadino che ha freddo, e dissi: «Non sono ingegnere».
«Ma come? Non siete quello che comanda l’azienda?»
«Sì, in un certo senso».
«E allora siete ingegnere, io sono Peppe Mastrangelo, vostro vicino d’azienda. Andiamoci a prendere un caffè».
«In verità l’ho appena preso».
«E ce ne prendiamo un altro. Che è? Tenete il fegato delicato?»
Peppe Mastrangelo parlava poco e non sapeva scrivere. Un giorno mi fece vedere una domanda fatta per ottenere un contributo. Aveva una grafia tutta ariosa, senza punti fermi, ondulata oppure spezzata. La grammatica era inesistente.
Dovetti riscrivergliela io e lui fu molto contento. Fatto sta che, analfabetismo o meno, Mastrangelo divenne una presenza rassicurante fin da quel primo giorno. Dopo che mi portò a prendere il caffè, né il barista né i ragazzini mi trat- tarono male. Grazie a lui trovai ottimi rivenditori di concimi e diserbanti. Sapevo anche dove comprare la mozzarella buona, quella calda, piena di latte, oppure dove mangiare il pesce senza spendere molto. A dire la verità grazie a lui non spendevo niente, la mozzarella era sempre offerta, il caffè pagato e al ristorante c’era sempre un trattamento di favore.
In azienda non avevo niente, né attrezzi né macchine, dovevo delegare tutto a conto terzi. Il primo anno presi uno di nome Spizzuoco, un tizio che aveva una piccola ditta e qualche operaio. Spizzuoco era divertente, mi portava su e giù per i Mazzoni nella sua Mercedes.
«Ingegnere carissimo», mi diceva sempre. «Ma non sono ingegnere...» Una volta mi raccontò che era stato a Lourdes. Una giornata piovosa, veniva giù un sacco di acqua. Lui se ne stava sotto la pioggia e la moglie gli disse: «Spòstati».
«Se la Madonna non vuole che mi bagni, non mi bagnerò».
E sosteneva, infatti, di non essersi bagnato. Il problema fu che Spizzuoco, a furia di raccontare storie di miracoli e scorazzarmi per i Mazzoni, in azienda fece poco e niente. Così l’anno appresso lo licenziai, e presi due fratelli di cognome Cunto (i loro nomi non li ho mai saputi) che venivano dagli ameni monti del Matese. Bravi, semplici e lavoratori. I quali subito si diedero da fare. Arararo, erpicarono e a dicembre si preparano a seminare. Quando, il 23 dicembre, alle dieci di sera, mi arriva una telefonata a casa da parte di uno dei due Cunto:
«Ingegnere, oggi non abbiamo potuto fare niente».
«Ah! E come mai?»
«Spizzuoco è venuto con due cape di cazzo e ha detto che se non bloccavamo i lavori metteva le bombe sotto le macchine».
Ora, quello che capii dopo la telefonata di uno dei due fratelli Cunto fu che si assomiglia sempre ai propri padri. Mi feci afferrare per pazzo e chiamai Spizzuoco:
«Strunz! Ma che cazzo andate facendo?»
«Vado facendo che non vi faccio lavorare».
«E io vi denuncio».
«E io t’accir. Strunz!»
In pratica Spizzuoco si voleva vendicare del licenziamento. La Madonna non l’aveva aiutato questa volta, e così aveva pensato di minacciare gli operai. Ci pensai e ci ripensai, stavo solo a casa, i miei erano partiti per le vacanze. Io no, perché dovevo leggere un sacco di libri durante le feste. «Meglio così, tanto che vieni a fare», aveva detto mio padre.
Ci pensai e ci ripensai, e alla fine decisi di contrattare. L’indomani, vigilia di Natale, vidi Spizzuoco in azienda per metterci d’accordo. Lui se ne stava tutto impettito con due scagnozzi alle spalle. Litigavamo sul prezzo, quando da lontano vidi arrivare la Range Rover di Mastrangelo. E adesso questo che voleva? Però, man mano che si avvicinava la macchina, gli scagnozzi si allontanavano sempre di più e Spizzuoco perdeva tutto il contegno.
Mastrangelo fermò la macchina e aprì la portiera. Sul sedile davanti c’era un fucile a canne mozze. Poi si avvicinò a me e mi disse: «Ingegnere, venite con me», e mi tirò via, non tanto delicatamente. Diciamo mi mise al riparo dietro la sua macchina.
Quello che vidi lo vidi da dietro la Range Rover di Mastrangelo, attraverso i finestrini fumè. L’ospite di Mastrangelo era il potente boss del luogo, il quale scese dalla macchina e si rivolse ai due i fratelli Cunto: «Quanto v’ha chiesto ’stu sfaccimm’ e’ merda per lavorare qui?» «Cinque milioni», risposero in coro. Al che il boss disse a Mastrangelo: «Prendi dieci milioni, mettiglieli in tasca e uccidilo».
Una cosa così non l’avevo mai sentita, nemmeno da Peppe u’ stuort. Tradotta voleva significare: tu, Spizzuoco, hai il coraggio di venire nella mia zona e chiedere cinque milioni di tangenti. Ma per chi mi hai preso, io sono il boss, più potente dei potenti, e per dimostrartelo te ne do dieci di milioni e poi ti uccido.
Spizzuoco si inginocchiò e si mise a piangere, stringendosi alle gambe del boss. Chiedeva perdono e, veramente, non ho mai più visto una scena così: tenuto conto della situazione, la dignità era l’ultima cosa da preservare. Pensavo tra me: perché Spizzuoco non chiede aiuto alla Madonna, adesso? Fu un pensiero cinico, di rabbia, in fondo un po’ ero contento di assistere a quella scena. Ma fu anche l’ultimo pensiero cinico che ebbi, perché il boss disse: «Solo perché oggi nasce nostro signore Gesù Cristo, solo per questo non ti uccido, la Madonna ci resterebbe male».
In un attimo di consapevolezza capii che spesso il cinismo degli altri può essere un antitodo al tuo cinismo. Il potere del boss un antitodo al tuo potere. La Madonna, Gesu Cristo, i fucili a canne mozze e tutto il resto mi fecero pensare che stavo in un altro mondo, e che detta in sintesi: si era fatta ora.
Per me.
Una volta finita – finì tutto velocemente, con Spizzuoco in fuga, Mastrangelo che mi disse: «Ingegnere statevi bene, buon Natale a voi e a tutta la vostra famiglia», il boss che scomparve così come era apparso e i Cunto che tornarono a lavorare come nulla fosse successo – presi la macchina e decisi di raggiungere i miei genitori in vacanza. Guardavo i Mazzoni, questa terra dalla geometria semplice, e pensavo che semplice non era affatto. Agli svolazzi dalla grafia di Mastrangelo, ariosa come quella di un bambino, corrispondevano fucili a canne mozze e Madonne che decidevano la vita e la morte. Persone di una certa età che si mettevano in ginocchio tra le lacrime e boss che graziavano i condannati. Non era così semplice, ero io che ero incosapevole. «Il potere vi vuole stupidi». E io ero diventato a mio modo un uomo di potere, nei Mazzoni ero un piccolo e innocuo boss. Mi trattavano bene perché volevano qualcosa in cambio.
Non era passato molto tempo da quella mattina a teatro ed ero ancora stupido. Finora i libri non mi avevano aiutato.
Che avesse ragione mio padre?
Così, pieno di dubbi, entrai a casa e lo trovai in cucina.
Stava davanti alla televisione. Non si girò nemmeno per guardarmi. Non penso che fosse stato attratto dal programma, insomma la «Ruota della fortuna» non l’hai mai interessato. Sapevo che da un minuto all’altro, cioè nel momento in cui gli avrei detto che lasciavo tutto, avremmo iniziato a litigare. Lasciare tutto, un buon posto, per fare poi che?
Ancora non lo sapevo. Lasciare tutto solo perché avevo avuto paura della strada, della terra, delle mani sporche di fango, di un mondo che non ero riuscito ad attraversare.
Quindi gli parlai velocemente, senza perdere tempo, cercando di evitare quei tranelli che sono le proposizioni ini-dentali, i balbettiii, i mugugni, tutte cose che, girando attorno all’argomento, avrebbero acuito i mei sensi di colpa.
Non si girò neppure, però mi disse:
«Bene, bene così. Hai fatto bene».
Dopo qualche minuto venne in camera da letto, dove stavo per spiegare il fatto a mia madre, e disse:
«Facciamoci una birra».
Nella seconda metà degli anni Ottanta, il settimanale «l’Espresso» regalò ai suoi lettori un rompicapo cinese, il Tangram. Sette pezzi geometrici di varie dimensioni. Il gioco consiste in questo: bisogna disporre in piano tutti e sette i pezzi in modo da formare figure riconoscibili, conformi a quelle proposte dai libri e dai manuali che accompagnano il gioco. È soprendente vedere la quantità di figure che si possono ottenere combinando i vari pezzi. Ma questo è un altro discorso. Il fatto è che per anni lasciai quel gioco in un ripiano della libreria finché, nel ’92, durante le pulizie di primavera, lo ripresi in mano. E cominciai a studiarlo. Non era facile. Guardare la figure sul manuale, intendo, e poi provare a capire quale fosse l’incastro che, diciamo così, le poneva in essere. Spesso sbagliavo: un triangolo isoscele al posto del parallerepipedo, ed ecco che uno spigolo veniva fuori misura. Il contorno non tornava. Il gioco sottointendeva che la verità (su una figura) non è la figura stessa, ma il giusto incastro tra le sue parti. E il gioco della verità, l’avrei imparato con il tempo, richiedeva un trucco: bisognava estraniarsi.
Non starsene lì a provare e riprovare la giusta combinazione. Sì, d’accordo, ci si poteva riuscire, ma con troppa fatica, e il tempo perso non valeva la soddisfazione. Più semplicemente, bisognava portare la figura con sé, tenerla in mente, provare a rileggerla senza paura di essere occupati nel frattempo in faccende domestiche. Poteva succedere che in un attimo di illuminazione rivedevi lo scheletro della figura.
Così tornavi al tavolo, prendevi i pezzi, e con pochi gesti ne venivi a capo. Insomma, scoprii che per fare un incastro giusto bisognava estraniarsi dal contesto. Spesso la concentrazione ti induce all’errore. E invece era bello risolvere l’enigma distrattamente. Quando questo accadeva, avevi l’impressione di scoprire una regola di vita, e cioè: se portavi una figura ma non solo, anche un progetto, un’idea, riposte nel fondo della tua coscienza, se le lasciavi a decantare, poi tutte le cose mandate avanti nel frattempo, anche le più banali e quotidiane, servivono alla causa, alla risoluzione del problema. Ti aiutavano nella messa a fuoco. Era il mondo che ti circondava a portarti la soluzione, come quando un barbaglio di luce fa intravedere la filigrana di una banconota. Anche se le illuminazioni non hanno memoria, sono come i giorni felici. Subito dopo aver composto una figura già non ricordavo più l’esatta combinazione, bisognava aspettare una distrazione futura.
Peppe u’ stuort e Filippone morirono entrambi qualche anno dopo, come del resto morirono anche Mastrangelo e Spizzuoco.
Ma prima di allora, prima della sua morte, avevo rivisto un giorno Peppe. Non c’era che dire, avevamo avuto due carriere diverse. Io alla fine ero andato a lavorare in un ministero. Dopo i Mazzoni, avevo deciso di chiudere con tutto quello che era ambiguo. Visto come erano andati i fatti, preferivo adesso, almeno per un po’, restare metaforicamente sotto lo scivolo a guardare distrattamente la pioggia.
E come osservatore andai al Blue Notte, un locale che andava molto di moda. Gli anni Ottanta avevano fatto la loro epoca. Certo, in provincia il passo non si era completamente modificato, però la mutazione cominciava a essere visibile. Il Blue Notte aveva sostituito tutto l’arredamento. All’eccesso di cose e di colori, di moquette spessa dieci centrimetri, di griffe e di abbondanza, adesso si preferiva la misura. Non voglio dire che l’arrendo era in design, tutt’altro. Il Blue Notte era tornato indietro, agli anni Settanta. A quel gusto bombato, caldo, accogliente, come la schiuma di uno shampoo.
Fatto sta che lì all’ingresso c’era Peppe u’ stuort. Lavorava come buttafuori e non appena mi vide fece segno di passare dal retro.
«Non ti preoccupare», gli dissi, «faccio la fila». Mi fece allora un altro segno: come vuoi tu, e poi ancora un altro: ci vediamo dentro.
Avevamo dunque avuto due carriere diverse. Per quello che ne sapevo, Peppe era diventato il braccio destro di un usuraio. Filippone spaventava gli insolventi e Peppe, nel caso, menava. Poi Filippone era morto sparato, non si sapeva da chi né perché. Qualcuno diceva che aveva tentato il colpo grosso: suo padre era in ascesa e lui ne aveva approfittato.
Era morto prima lui, e poi il padre. Allora Peppe si era fatto un paio di anni di prigione e poi era finito a fare il buttafuori. Menava ancora. Una volta era intervenuto in una rissa tra giocatori di basket e ne aveva atterrati tre. Faceva a pugni nel suo modo tutto particolare, senza ansia o rabbia. Qualche volta, prima di colpire qualcuno, si guardava pure intorno.
Non perché cercasse l’applauso degli altri. Semplicemente, colpire era per lui un atto di routine, non ci faceva più caso, come il pilota che, quando l’aereo subisce un contraccolpo e tutti i passegeri si spaventano e si chiedono l’un l’altro che cosa sia successo, lui, il pilota, scrolla le spalle e dice: «un fulmine».
Ma Peppe con gli anni aveva perso anche lui la rabbia giovanile. Adesso colpiva sbadigliando, come un impiegato del catasto.
Venne a sedersi accanto a me, e di sicuro voleva dirmi qualcosa, perché mi guardava negli occhi e cercava le parole, ma poi avevo l’impressione che non ci riusciva, quasi balbettava sul più bello. Finimmo per parlare del più e del meno, gli dissi che adesso stavo a Roma e che lavoravo al Mini- stero, che stavo cominciando a scrivere ma ancora non avevo trovato la mia strada.
«E cioè?», mi chiese
«Cioè...», gli dissi, «cioè scrivere significa porsi un sacco di problemi. Cioè, capito. Non puoi, che ne so... per esempio... una cosa che mi ossessiona: puoi essere contro il potere e usare il suo stesso stile, o no? Come dire, faccio un esempio, puoi essere contro i fascisti e usare la voce stentorea del Duce? In fondo il potere ti vuole stupido, no?» Siccome Peppe era rimasto con la bocca aperta, io pensai che non era il caso di fare quella discussione in quella sede, discussione che poi non sapevo nemmeno dove andava a parare. Lui mi disse:
«Insomma, ci devi pensare bene alle cose».
«Sì, però, almeno nel mio caso, per pensare mi devo distrarre. Perdo tempo e spesso non combino niente, diciamo così». E qui la nostra discussione si interruppe, perché qualcuno chiamò Peppe. Uno, nel locale, stava facendo un po’ il buffone con una ragazza, gli amici di lei se l’erano presa e stava per scatenarsi una rissa. Vidi Peppe afferrare per il colletto il Tizio, alzarlo di peso e buttarlo in un angolo. Lo so cosa faceva in quei casi, il pugno lo tirava sotto lo zigomo, il malcapitato vedeva la luce bianca e smetteva per sempre di dare fastidio. Ma Peppe non lo fece. Anzi, mi guardò. Sul soffitto girava la palla a specchi, vecchia seduzione dance anni Settanta, così il locale era pieno di riflessi colorati. Qualcuno passò pure sul viso di Peppe.
Adesso, io lo so: è il rischio del gioco del Tangram, provare a ricomporre tutti i pezzi per formare una figura che abbia un senso, però voglio rischiare: lo sguardo di Peppe, quella sera, era lo stesso che gli avevo visto la domenica pomeriggio di tanti anni prima al parco, quando prese a inseguire i soffioni: tutto contento, insomma, come qualcuno che aspetta il Natale, la Pasqua, le vacanze estive, e sa che il tempo è dalla sua parte, che quell’eccesso di libertà, in fondo, lo preserverà dai guai a venire. Sarà il suo nucleo irriducibile. Lo ricordo bene, quello sguardo, perché gliel’ho visto solo due volte, il pomeriggio al parco e quella sera al locale. Il disturbatore non venne picchiato, Peppe si limitò a farlo accomodare a forza di spintoni. Quel tizio allora era un ragazzino, adesso è una specie di imprenditore e gira con la Hummer su e giù per le vie della città.
Non fu proprio l’ultima volta che vidi Peppe, fu l’ultima che lo vidi vivo. Qualcuno gli sparò mentre stava in una cabina telefonica con la cornetta in mano. Esistevano già da tempo i cellulari, ma Peppe preferiva le cabine. L’avevano coperto con un lenzuolo e qualcuno mi disse che sotto il velo c’era Giuseppe Indovino detto Peppe u’ stuort, appunto.
Dopo qualche tempo incontrai Raniero, un mio amico magistrato, e gli chiesi di Peppe, che ne sapeva lui, perché era stato ammazzato?
«Si era fatto fare fesso», mi disse.
Cioè, in pratica, non picchiava più tanto bene. Non spaccava le bottiglie in testa alla gente per richiamare tutti ai suoi ordini. Brutto segno, il deperimento fisico, corrisponde a quello morale. Magari, avranno pensato quelli che hanno dato l’ordine di farlo fuori, uno così facilmente si vende a qualcun altro. E in più si era fregato dei soldi di un lavoretto sporco, pare che se ne volesse andare a Santo Domingo.
Scappare con il malloppo, dunque. Verso un’isola. Fare una stronzata, l’ultima, per ottenere la libertà, è un gesto romantico. A loro modo i gesti romantici, anche di tanto in tanto e accidentalmente, migliorano il mondo. E più spesso, invece, si pagano. Peppe avrà pensato che tutta la vita così, non poteva passarla, in mezzo a cape di cazzo e futuri imprenditori buffoni. Il potere ci vuole stupidi, no? Chissà se quella frase, quel giorno al teatro, non abbia funzionato un poco anche per lui e magari abbia anche, sommessamente, lavorato a formare il suo nucleo irriducibile. O forse è solo la mia ossessione per il Tangram, il Tangram in letteratura che mi fa dire questo. Fatto sta che non ce l’ha fatta. Troppo potere intorno a lui, o troppa stupidità, o forse il suo nucleo non pulsava abbastanza, o ancora, non aveva parole per esprimerlo al meglio, balbettava sul più bello. Anche lui, come me, si sarà trovato in mezzo a un lago di fango e avrà provato ad attraversarlo, senza sapere quale tecnica usare, fidandosi del suo istinto, della sua irrequietezza. Dopo il guado avrà guardato fiducioso la sponda opposta, pensando è fatta, adesso mi avventuro. E invece qualcuno stava già dall’altro lato per dirgli: «Si è fatta ora, Peppe!» Ci ripenso, tutte le volte che scrivo e sono sempre in ansia per cercare la speciale figura geometrica in grado di ricompattare tutto. L’incastro migliore che mi protegga dalla stupidità a venire. Lo stile che mi sottragga alla collusione. E per far questo, per cercare la combinazione e il giusto peso tra le parti, mi distraggo e vado avanti e indietro nel tempo, penso a Peppe steso nella cabina, al suo sguardo al Blue Notte, a me in mezzo ai Mazzoni con Mastrangelo, alla mattina al teatro, a mio padre e a mia madre naturalmente, al «si è fatta ora» e al cappello con i paraorecchi. Ci ripenso perché se trovo questa particolare e specifica figura, potrei con poco, costruire il surrogato narrativo di quell’anello di gomma che mio nonno aveva creato, insomma potrei trovare quell’incastro che migliora e pulisce, di poco, si intende, per quello che può, il mondo dai detriti e, così facendo, accidentalmente, regalerei a Peppe ‘u stuort una morte migliore.
Adesso che è passato tanto tempo, sono io a stare seduto su una panchina a guardare Alfredo giocare, e guardandolo cerco di ricordarmi di quando c’ero io, al suo posto. E rivedo quei particolari sguardi, di mio padre e di mia madre, su di me.
Se faccio attenzione e mi concentro, forse potrò immaginare i passi di Alfredo da qui a qualche anno, costruire appunto una combinazione perfetta con tutti i pezzi, quelli già usati e quelli che mancano.
Eppure. Eppure lo guardo e mi viene il sospetto non potrò far nulla, nulla che segni il suo passo una volta per tutte, tranne forse lasciarlo giocare a maniche corte o spingerlo a correre sotto la pioggia.
Per il resto, dovremo fidarci l’uno dell’altro, e perdonarci a vicenda ogni errore, ogni rispettiva irrequietezza presente e futura, ma con tempi sfalzati. Dovremo cioè ragionarci in seguito. Perché comunque tutto il suo cammino sarà accidentale, una questione di casuale illuminazione in grado di mostrare la filigrana del bivio: se cioè le strade che un giorno si biforcheranno davanti ai suoi passi finiranno nel fango o andranno dritte verso la meta.
Senza considerare poi il fatto che, nell’uno o nell’altro caso, ammesso che Alfredo vorrà attraversare come me il lago di fango, lo farà senza sapere mai in anticipo se sull’altra sponda si viva meglio o peggio.

(da Si è fatta ora, minimum fax, 2006)

Antonio Pascale è nato a Napoli nel 1966, ha vissuto prima a Caserta poi a Roma, dove attualmente lavora. Ha pubblicato per Einaudi La città distratta (2001, premio Onofri e premio Elsa Morante), La manutenzione degli affetti (2003, premio Napoli, premio Chiara, premio Il Ceppo, premio Loria, premio Ostia-Città di Roma) e Passa la bellezza (2005, premio Croce). Per Laterza ha pubblicato Non è per cattiveria e per la minimum fax Si è fatta ora (2006). Scrive per la televisione e per la radio. Collabora con “Il mattino” e le pagine romane della “Repubblica”.