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Milano,
era novembre. Le chiome dei platani e degli ippocastani,
lungo i viali delle mura spagnole, dormivano in una nebbiolina
biancastra. Le macchie gialle dei tram tagliavano gli
incroci portandosi nelle loro cornici illuminate centinaia
di occhi persi, ondeggianti sopra impermeabili grigi,
sopra giubbotti neri e foulards colorati. Nello sferraglio
dei tram c’era il mattino torpido e stralunato delle
periferie. Sui marciapiedi molti andavano con passo deciso,
richiedendo via libera ai pochi passanti non frettolosi,
i quali cedevano per necessità più che per
garbo, obbligandosi a improvvisi scarti e a curve inattese.
Studente giunto dal Sud, stavo da poco entrando in una
qualche confidenza con la città. M’ero già
sorpreso qualche volta a tenere anch’io il passo
veloce e sicuro, a saltare sui tram a porte semichiuse,
e cominciavo a sentire nella nebbia una piccola rassicurazione,
quasi una presenza che proteggeva i miei svagamenti.
All’angolo dove i giardini di porta Venezia guardano
l’inizio di corso Buenos Aires, trassi dalla tasca
il foglietto con l’indirizzo e cercai conferma della
via e del numero civico: dovevo spostarmi sulla via Spallanzani
e in una sua traversa cercare il negozio, il quale era
privo di insegne -così m’era stato detto-
ma aveva in alto la vecchia scritta sbiadita Spiriti
e Liquori.
Mentre sospingevo timidamente una porta socchiusa, una
voce di donna gridò dal fondo:
-Avanti, entri pure.
Una signora, forse quarantenne, dal bancone veniva già
verso di me dicendo che aspettava la mia visita. Aveva
lunghi capelli neri, occhi chiari, un tailleur perfetto,
color nocciola, e le labbra di un bel disegno sottile,
arguto e sorridente. Il tono familiare e allo stesso tempo
cortese col quale mi accolse spazzò via ogni mia
perplessità e circospezione. Mostrava di sapere
che cosa ero venuto a cercare.
Il salone aveva alti soffitti e somigliava più
a un ordinato deposito colmo di materiali che a un vero
negozio. Lungo le due pareti laterali si alzavano alte
scaffalature metalliche e in quelle erano allineate, con
variazioni di colori, sequenze geometriche di scatoloni
a forma di cubo o di parallelepipedo o di cilindro. Dietro
il bancone, sulla parete che chiudeva la sala, c’era
una libreria in legno nei cui piani erano disposti libri
dal dorso in cartapecora o in pelle.
-C’è un bell’ordine, dissi, mentre
cercavo di scorgere le iscrizioni che definivano il contenuto
degli scatoloni.
-Che vuole, disse la signora, è un ordine come
un altro.
- Spesso, ripresi, i magazzini sono polverosi, zeppi di
cianfrusaglie d’ogni specie. Qui tutto è
rubricato, e con belle etichette colorate. I caratteri
sono leggibili anche da quaggiù.
-Qui c’è ordine, rispose, perché pochissimi
sono i visitatori e ancora meno gli acquirenti. La televisione
oggi ha sostituito ormai del tutto questi prodotti.
-Ha ragione, acconsentii di buon grado, in tutte le case
è lo schermo il nuovo focolare.
-Le faccio un po’ da guida, intervenne, troncando
sul nascere un dialogo che dalle prime battute si mostrava
un poco arcigno e forse moralista. Vede, cominciò
sollevando in alto la mano, lungo questa parete c’è
la serie dei suoni, lungo l’altra la serie delle
ombre. Abbiamo solo questi due generi, naturalmente in
pochi esemplari. Sul bancone può trovare il catalogo
con le numerazioni e la descrizione del contenuto. Nella
parte alta, lassù al primo piano, ci sono i tuoni
suddivisi in specie diverse, e provenienti da località
e da stagioni diverse. Nel piano inferiore ci sono i fischi
dei venti, suddivisi in folate, sibili, fruscii, urli,
bisbigli, sussurri, raffiche, mulinelli, e molte altre
varianti, tutte ordinate secondo la temperatura, il grado
di umidità, la direzione. Ci sono molte specie
di scirocco, alcune tramontane, due o tre tipi di favonio,
una decina di maestrali. C’è persino un Harmattan,
il famoso vento africano. Ma può proseguire lei
stesso. Se non le dispiace, io torno al banco e riprendo
a leggere, lì c’è una scala che scorre
lungo la parete e un’altra scala è di fronte,
sono sicure.
Continuai a far trascorrere gli occhi sulle etichette,
sorpreso di come avessero potuto prelevare tante forme
di fenomeni naturali e inscatolarle perfettamente. Sapevo,
dalla descrizione di un amico, che non si trattava di
registrazioni dei suoni, ma di veri e propri prelievi,
in certo senso di audaci catture. Con procedimenti tecnicamente
complicati avevano isolato sequenze sonore, conservandole
come sospese e raggelate in una nuova dimensione temporale
e spaziale, e in tale stato questi frammenti restavano
fino a che, liberati dall’involucro, ritrovavano
per pochissimo tempo le loro condizioni originarie, si
riproducevano e poi rapidamente sparivano svuotandosi
di quella loro artificiale e temporanea sopravvivenza.
Risalendo ancora in alto leggevo, nell’ordine degli
uccelli, la serie dei cinguettii, dei canti, delle grida,
dei richiami, dei versi, con le specificazioni di appartenenza,
così dal cuculo si passava all’upupa, al
martin pescatore, al fagiano dorato, alla pernice, alla
rondine di mare, all’usignolo, alla beccaccia, al
barbagianni, al picchio, alla capinera, alla civetta,
alla cinciallegra, al tordo, al gufo, al passero, al grifone,
alla gazza, alla taccola e ad altri corvidi. Una foresta
di melodie, pensavo, imprigionata e dormiente nel buio
di quei cartoni. Via via che leggevo, passando ai ronzii
dei coleotteri, alle monodie dei cervi volanti e dei ditischi,
agli zirli delle api e delle zanzare, al frinito delle
cicale, alle nenie dei grilli, sentivo un grande disagio
che mi appannava l’iniziale curiosità e mi
immalinconiva: si stava approssimando dentro di me l’idea
che fosse necessario un gesto forte, un gesto che liberasse
qualcuna di quelle prigionie. Ma presto un altro pensiero
mi prese, e mi misi a considerare che soltanto l’
amore per la natura, l’amore per la sua preservazione,
poteva aver suggerito l’idea di catturare il suono
di un insetto, lasciando libero l’animale nei suoi
movimenti, invece di infilzarlo con uno spillo ed esporlo
in tetre collezioni da entomologi. Qualcuno, per amore
della natura, invece di cacciare la pernice, ne aveva
prelevato un grido, lasciando che l’uccello volasse
sul ramo più alto dell’albero.
Poiché lo scopo della mia visita trovava una sua
risposta nell’altra parete della sala, quella delle
ombre, e molto tempo avevo già trascorso in quello
immaginario squadernamento della natura, decisi di interrompere
la signora nella sua lettura e chiederle la scatola per
la quale ero entrato nel magazzino. Era in alto, cilindrica,
disposta con la sua etichetta azzurra nel piano che esponeva
ombre naturali.
-La prenda lei stesso, disse la signora, oramai s’è
familiarizzato con l’ambiente.
-Vedo, dissi scendendo dalla scala con la mia leggerissima
scatola, , che qui non c’è nessuna ombra
d’uomo.
-Ha notato anche lei, disse la signora, che in generale
abbiamo pochissimi esemplari di ombre, tra i tanti possibili,
e lei è fortunato ad aver trovato quello che cercava.
L’ombra d’uomo non la trova né qui
né in altri magazzini. La riproduzione e la messa
in commercio è da molto tempo vietata severamente.
-Mi hanno detto, replicai, che in qualche città
tedesca dovrebbe trovarsene qualcuna.
-No, non lo credo, rispose. Un signore che era venuto
qui mi disse una volta che una certa Fondazione, appunto
tedesca, aveva cercato dappertutto, anche nel mercato
clandestino, un’ombra d’uomo, ma la ricerca
era stata vana.
Presi sottobraccio il mio articolo. Per una cifra, devo
dire, molto ragionevole -il prezzo, pressappoco, di una
lezione privata- e salutai la signora che intanto mi accompagnava
verso la porta e mi congedava con un sorriso amichevole.
In quel sorriso vidi non la proprietaria di un magazzino
di effimere sostanze ma la benefica dispensatrice di illusioni
naturali.
-La verrò a trovare ancora, le dissi mentre la
porta si richiudeva.
Nelle strade la nebbia s’era diradata, e il disco
solare bianco e ocra appariva e spariva dentro una nuvolaglia
compatta e informe. Da piazza Beccaria le guglie del Duomo
parevano pungere quella nuvolaglia e perdersi in essa.
Il sole stava vincendo la battaglia con la nebbia, ma
ancora l’aria era offuscata e un immenso lenzuolo
lattiginoso si posava sui tetti più alti.
Giunto al mio monolocale, posai il rotolo sul letto, tolsi
da terra la coperta greca che fungeva da tappeto, spinsi
sedie e tavolino verso le pareti, aprii la finestra che
dava sul rivolo grigiobruno del Naviglio pavese. Poi spostai
il rotolo al centro della stanza e mentre lo aprivo già
vedevo disegnarsi sul pavimento l’ombra di un ulivo.
Sotto velature rosse tremavano piccole scaglie di luce,
e un tappeto diseguale vibrava al passaggio di un leggero
vento, mostrando ferite nel terreno, resti di noccioli
d’ulive, foglioline secche accartocciate, frammenti
di zolle, pietruzze argentate. Mi ci sdraiai sopra sentendo
un tepore misto a una brezza dolce. Contemplavo le mille
gradazioni dell’opaco sulla superficie dell’ombra,
nella luce che pioveva tutt’intorno nella stanza,
cominciavo ad avvertire un fremito che giungeva dai rami
invisibili dell’albero. Stavo cercando d’appoggiarmi
al tronco quando l’improvviso e prolungato suono
di un clacson mi distrasse. Guardai per un istante il
rettangolo della finestra col suo pezzo di cielo chiuso,
poi, quando riportai lo sguardo sull’ombra, vidi
soltanto la pallida geometria delle mattonelle.
Deposi il rotolo, vuoto della sua ombra, nello sgabuzzino.
E non m’accadde più di visitare il mercatino
delle illusioni.
(da Trenta gradi all’ombra, Nottetempo,
2004)
Antonio Prete, di origini salentine
ma culturalmente formatosi in ambito milanese, insegna
Letterature comparate all’Università di
Siena. Studioso di Leopardi, all’attività
di saggista ha sempre unito quella di traduttore (Baudelaire,
Mallarmé, Valéry, Jabès, Celan).
Ha pubblicato saggi di critica e teoria letteraria,
molti dei quali tradotti ed internazionalmente noti.
È autore di prose, racconti, raccolte di frammenti.Tra
i suoi libri: Il pensiero poetante (Feltrinelli,
1980), Il demone dell’analogia (ivi,
1986), Prosodia della natura (ivi, 1993), Nostalgia.
Storia di un sentimento (Cortina, 1992), L’albatros
di Baudelaire (Pratiche, 1994), L’ospitalità
della lingua (Manni, 1997), Finitudine e infinito
(Feltrinelli, 1998), L’imperfezione della
luna (ivi, 2000), Sottovento. Critica e scrittura
(Manni, 2001), Trenta gradi all’ombra
(Nottetempo 2004). Gli è stato attribuito di
recente il Premio “Opere scelte”, con la
pubblicazione di Della poesia per frammenti
(Anterem, 2006).
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