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Anno 2007
  Antonio Prete
 
Questioni naturali
  Antonio PreteMilano, era novembre. Le chiome dei platani e degli ippocastani, lungo i viali delle mura spagnole, dormivano in una nebbiolina biancastra. Le macchie gialle dei tram tagliavano gli incroci portandosi nelle loro cornici illuminate centinaia di occhi persi, ondeggianti sopra impermeabili grigi, sopra giubbotti neri e foulards colorati. Nello sferraglio dei tram c’era il mattino torpido e stralunato delle periferie. Sui marciapiedi molti andavano con passo deciso, richiedendo via libera ai pochi passanti non frettolosi, i quali cedevano per necessità più che per garbo, obbligandosi a improvvisi scarti e a curve inattese. Studente giunto dal Sud, stavo da poco entrando in una qualche confidenza con la città. M’ero già sorpreso qualche volta a tenere anch’io il passo veloce e sicuro, a saltare sui tram a porte semichiuse, e cominciavo a sentire nella nebbia una piccola rassicurazione, quasi una presenza che proteggeva i miei svagamenti.
All’angolo dove i giardini di porta Venezia guardano l’inizio di corso Buenos Aires, trassi dalla tasca il foglietto con l’indirizzo e cercai conferma della via e del numero civico: dovevo spostarmi sulla via Spallanzani e in una sua traversa cercare il negozio, il quale era privo di insegne -così m’era stato detto- ma aveva in alto la vecchia scritta sbiadita Spiriti e Liquori.
Mentre sospingevo timidamente una porta socchiusa, una voce di donna gridò dal fondo:
-Avanti, entri pure.
Una signora, forse quarantenne, dal bancone veniva già verso di me dicendo che aspettava la mia visita. Aveva lunghi capelli neri, occhi chiari, un tailleur perfetto, color nocciola, e le labbra di un bel disegno sottile, arguto e sorridente. Il tono familiare e allo stesso tempo cortese col quale mi accolse spazzò via ogni mia perplessità e circospezione. Mostrava di sapere che cosa ero venuto a cercare.
Il salone aveva alti soffitti e somigliava più a un ordinato deposito colmo di materiali che a un vero negozio. Lungo le due pareti laterali si alzavano alte scaffalature metalliche e in quelle erano allineate, con variazioni di colori, sequenze geometriche di scatoloni a forma di cubo o di parallelepipedo o di cilindro. Dietro il bancone, sulla parete che chiudeva la sala, c’era una libreria in legno nei cui piani erano disposti libri dal dorso in cartapecora o in pelle.
-C’è un bell’ordine, dissi, mentre cercavo di scorgere le iscrizioni che definivano il contenuto degli scatoloni.
-Che vuole, disse la signora, è un ordine come un altro.
- Spesso, ripresi, i magazzini sono polverosi, zeppi di cianfrusaglie d’ogni specie. Qui tutto è rubricato, e con belle etichette colorate. I caratteri sono leggibili anche da quaggiù.
-Qui c’è ordine, rispose, perché pochissimi sono i visitatori e ancora meno gli acquirenti. La televisione oggi ha sostituito ormai del tutto questi prodotti.
-Ha ragione, acconsentii di buon grado, in tutte le case è lo schermo il nuovo focolare.
-Le faccio un po’ da guida, intervenne, troncando sul nascere un dialogo che dalle prime battute si mostrava un poco arcigno e forse moralista. Vede, cominciò sollevando in alto la mano, lungo questa parete c’è la serie dei suoni, lungo l’altra la serie delle ombre. Abbiamo solo questi due generi, naturalmente in pochi esemplari. Sul bancone può trovare il catalogo con le numerazioni e la descrizione del contenuto. Nella parte alta, lassù al primo piano, ci sono i tuoni suddivisi in specie diverse, e provenienti da località e da stagioni diverse. Nel piano inferiore ci sono i fischi dei venti, suddivisi in folate, sibili, fruscii, urli, bisbigli, sussurri, raffiche, mulinelli, e molte altre varianti, tutte ordinate secondo la temperatura, il grado di umidità, la direzione. Ci sono molte specie di scirocco, alcune tramontane, due o tre tipi di favonio, una decina di maestrali. C’è persino un Harmattan, il famoso vento africano. Ma può proseguire lei stesso. Se non le dispiace, io torno al banco e riprendo a leggere, lì c’è una scala che scorre lungo la parete e un’altra scala è di fronte, sono sicure.
Continuai a far trascorrere gli occhi sulle etichette, sorpreso di come avessero potuto prelevare tante forme di fenomeni naturali e inscatolarle perfettamente. Sapevo, dalla descrizione di un amico, che non si trattava di registrazioni dei suoni, ma di veri e propri prelievi, in certo senso di audaci catture. Con procedimenti tecnicamente complicati avevano isolato sequenze sonore, conservandole come sospese e raggelate in una nuova dimensione temporale e spaziale, e in tale stato questi frammenti restavano fino a che, liberati dall’involucro, ritrovavano per pochissimo tempo le loro condizioni originarie, si riproducevano e poi rapidamente sparivano svuotandosi di quella loro artificiale e temporanea sopravvivenza.
Risalendo ancora in alto leggevo, nell’ordine degli uccelli, la serie dei cinguettii, dei canti, delle grida, dei richiami, dei versi, con le specificazioni di appartenenza, così dal cuculo si passava all’upupa, al martin pescatore, al fagiano dorato, alla pernice, alla rondine di mare, all’usignolo, alla beccaccia, al barbagianni, al picchio, alla capinera, alla civetta, alla cinciallegra, al tordo, al gufo, al passero, al grifone, alla gazza, alla taccola e ad altri corvidi. Una foresta di melodie, pensavo, imprigionata e dormiente nel buio di quei cartoni. Via via che leggevo, passando ai ronzii dei coleotteri, alle monodie dei cervi volanti e dei ditischi, agli zirli delle api e delle zanzare, al frinito delle cicale, alle nenie dei grilli, sentivo un grande disagio che mi appannava l’iniziale curiosità e mi immalinconiva: si stava approssimando dentro di me l’idea che fosse necessario un gesto forte, un gesto che liberasse qualcuna di quelle prigionie. Ma presto un altro pensiero mi prese, e mi misi a considerare che soltanto l’ amore per la natura, l’amore per la sua preservazione, poteva aver suggerito l’idea di catturare il suono di un insetto, lasciando libero l’animale nei suoi movimenti, invece di infilzarlo con uno spillo ed esporlo in tetre collezioni da entomologi. Qualcuno, per amore della natura, invece di cacciare la pernice, ne aveva prelevato un grido, lasciando che l’uccello volasse sul ramo più alto dell’albero.
Poiché lo scopo della mia visita trovava una sua risposta nell’altra parete della sala, quella delle ombre, e molto tempo avevo già trascorso in quello immaginario squadernamento della natura, decisi di interrompere la signora nella sua lettura e chiederle la scatola per la quale ero entrato nel magazzino. Era in alto, cilindrica, disposta con la sua etichetta azzurra nel piano che esponeva ombre naturali.
-La prenda lei stesso, disse la signora, oramai s’è familiarizzato con l’ambiente.
-Vedo, dissi scendendo dalla scala con la mia leggerissima scatola, , che qui non c’è nessuna ombra d’uomo.
-Ha notato anche lei, disse la signora, che in generale abbiamo pochissimi esemplari di ombre, tra i tanti possibili, e lei è fortunato ad aver trovato quello che cercava. L’ombra d’uomo non la trova né qui né in altri magazzini. La riproduzione e la messa in commercio è da molto tempo vietata severamente.
-Mi hanno detto, replicai, che in qualche città tedesca dovrebbe trovarsene qualcuna.
-No, non lo credo, rispose. Un signore che era venuto qui mi disse una volta che una certa Fondazione, appunto tedesca, aveva cercato dappertutto, anche nel mercato clandestino, un’ombra d’uomo, ma la ricerca era stata vana.
Presi sottobraccio il mio articolo. Per una cifra, devo dire, molto ragionevole -il prezzo, pressappoco, di una lezione privata- e salutai la signora che intanto mi accompagnava verso la porta e mi congedava con un sorriso amichevole. In quel sorriso vidi non la proprietaria di un magazzino di effimere sostanze ma la benefica dispensatrice di illusioni naturali.
-La verrò a trovare ancora, le dissi mentre la porta si richiudeva.
Nelle strade la nebbia s’era diradata, e il disco solare bianco e ocra appariva e spariva dentro una nuvolaglia compatta e informe. Da piazza Beccaria le guglie del Duomo parevano pungere quella nuvolaglia e perdersi in essa. Il sole stava vincendo la battaglia con la nebbia, ma ancora l’aria era offuscata e un immenso lenzuolo lattiginoso si posava sui tetti più alti.
Giunto al mio monolocale, posai il rotolo sul letto, tolsi da terra la coperta greca che fungeva da tappeto, spinsi sedie e tavolino verso le pareti, aprii la finestra che dava sul rivolo grigiobruno del Naviglio pavese. Poi spostai il rotolo al centro della stanza e mentre lo aprivo già vedevo disegnarsi sul pavimento l’ombra di un ulivo. Sotto velature rosse tremavano piccole scaglie di luce, e un tappeto diseguale vibrava al passaggio di un leggero vento, mostrando ferite nel terreno, resti di noccioli d’ulive, foglioline secche accartocciate, frammenti di zolle, pietruzze argentate. Mi ci sdraiai sopra sentendo un tepore misto a una brezza dolce. Contemplavo le mille gradazioni dell’opaco sulla superficie dell’ombra, nella luce che pioveva tutt’intorno nella stanza, cominciavo ad avvertire un fremito che giungeva dai rami invisibili dell’albero. Stavo cercando d’appoggiarmi al tronco quando l’improvviso e prolungato suono di un clacson mi distrasse. Guardai per un istante il rettangolo della finestra col suo pezzo di cielo chiuso, poi, quando riportai lo sguardo sull’ombra, vidi soltanto la pallida geometria delle mattonelle.
Deposi il rotolo, vuoto della sua ombra, nello sgabuzzino. E non m’accadde più di visitare il mercatino delle illusioni.

(da Trenta gradi all’ombra, Nottetempo, 2004)

Antonio Prete, di origini salentine ma culturalmente formatosi in ambito milanese, insegna Letterature comparate all’Università di Siena. Studioso di Leopardi, all’attività di saggista ha sempre unito quella di traduttore (Baudelaire, Mallarmé, Valéry, Jabès, Celan). Ha pubblicato saggi di critica e teoria letteraria, molti dei quali tradotti ed internazionalmente noti. È autore di prose, racconti, raccolte di frammenti.Tra i suoi libri: Il pensiero poetante (Feltrinelli, 1980), Il demone dell’analogia (ivi, 1986), Prosodia della natura (ivi, 1993), Nostalgia. Storia di un sentimento (Cortina, 1992), L’albatros di Baudelaire (Pratiche, 1994), L’ospitalità della lingua (Manni, 1997), Finitudine e infinito (Feltrinelli, 1998), L’imperfezione della luna (ivi, 2000), Sottovento. Critica e scrittura (Manni, 2001), Trenta gradi all’ombra (Nottetempo 2004). Gli è stato attribuito di recente il Premio “Opere scelte”, con la pubblicazione di Della poesia per frammenti (Anterem, 2006).