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 La molteplicità di suoni e la varietà musicale della poesia di Alda Merini sottendono una linea melodica facilmente riconducibile ad una dichiarazione d’amore. In Delirio amoroso “il mio adorato pianoforte” assume un valore concettuale, sentimentale e simbolico tale da profetizzare un’arte della parola e del linguaggio in grado di modulare sensazioni differenziate e capace di invitare il lettore ad un’interazione continua tra il mondo dell’autrice e le proprie esperienze. Questo legame tra scrittura, lettura e riflessione si propone come circuito chiuso, perché la poetica della Merini trova la più compiuta realizzazione in un canto continuo alla vita. L’ossessione dell’esistenza in bilico tra la vita e la morte è fondamento profondo e plausibile chiave di lettura di quest’arte:
Chi non sa amare non sa fare poesia
e chi non sa morire non sa rivivere.
(Ci sono donne che prendono i loro morti, da Clinica dell’abbandono)
La scrittura della Merini diviene arte, perché si materializza in orchestra di suoni e in complessità concettuale, manifestandosi prepotente e dionisiaca in una forma contemporanea, viva e presente, punto d’incontro e forzata contraddittorietà poetica tra erotismo e dimensione del divino, la quale suggerisce il “ditirambo” e testimonia un doloroso e passionale “delirio amoroso”. La rivendicazione di altissima dignità poetica è continuamente presente, perentoria ed inequivocabile nell’opera di Alda Merini, perché la sua arte trae alimento dalla vita stessa e dalla denuncia di una frattura insanabile tra la società del benessere e del perbenismo ed un universo vero e reale, creato dall’esistenza stessa dell’autrice. La figura del poeta appare come “il povero” per eccellenza, schiacciato e abbandonato ai margini della quotidianità, refrattaria a qualsiasi comprensione e tanto meno ad una rivelazione che solo un “voyant” è in grado di produrre. Non solo il titolo stesso della raccolta Ballate non pagate, quanto piuttosto l’intera produzione della Merini costituiscono prova di questa interpretazione critica. In Delirio amoroso l’autrice scrive:
Ci fu un tempo in cui, quando mi svegliavo, nella mia mente cantava l’uccello di fuoco. Questo uccello, stranamente, venne irretito da credenze magiche, da certi fumi ancestrali, da catene di colpa inverosimili. Oggi questo uccello non canta più e le sue penne, quando mi si rivolta nel cuore, mi fanno un solletico così intenso che me ne debbo andare. La mia dottoressa lo chiama «allarme biologico». Io lo chiamo disturbo psicomotorio. Ma lo chiamo anche voce veniente, veggenza postulante, veggenza querula, veggenza divina (ora che sono divenuta atea per eccesso di dolore e Dio mi dà fastidio e a volte lo considero osceno). (Delirio amoroso)
È inevitabile sottolineare una corrispondenza ideologico-sentimentale tra la prosa “lirica” di Alda Merini e la poesia, a tal punto da richiamare l’attenzione su filtri simbolisti riconducibili ai lasciti letterari dei modelli stessi, Rimbaud e Baudelaire, dove la “veggenza” e l’immagine del volo dell’uccello acquisiscono il significato di mistero e sacralità della parola, vale a dire sinonimo e rivendicazione di poesia. Nell’opera della Merini è indubbiamente attiva una prolifica quanto irrisolvibile contraddizione tra attrazione e negazione di ciò che pertiene all’ambito del divino e del religioso. L’impulso “mistico” dell’autrice, il suo slancio poetico-musicale verso la vita si risolve quasi sempre nella dolorosa constatazione di un arido e sordo realismo esistenziale. In La Terra Santa, probabilmente il capolavoro della Merini, pubblicato solamente nel 1984, dopo il periodo della devastante esperienza della malattia, lo spirito della poetessa sembra davvero risorgere dal dolore per proclamare la fragilità del suo essere creatura dell’universo e l’unicità del suo “canto”.
L’esperienza manicomiale sta alla base di una critica feroce non solo all’ambiente della casa di cura, ma al mondo intero a cui sfugge il segreto più profondo dell’esistenza, il quale si identifica con il valore inconfutabile della vita stessa. Alda Merini denuncia questa situazione, bilanciando la propria arte tra “assenza” e “presenza” del divino a cui si contrappone l’“essenza” della poesia:
Io ero un uccello
dal bianco ventre gentile,
qualcuno mi ha tagliato la gola
per riderci sopra,
non so.
Io ero un albatro grande
e volteggiavo sui mari.
Qualcuno ha fermato il mio viaggio,
senza nessuna carità di suono.
Ma anche distesa per terra
io canto ora per te
le mie canzoni d’amore.
(Io ero un uccello, da La Terra Santa)
L’opera della Merini si è sempre manifestata, fin dagli esordi, sotto la forma del vaticinio dionisiaco e dell’“orfismo”: il “cantore” scende agli inferi per diventare strumento di rivelazioni, ma per risalire dolorosamente alla luce è costretto a lasciare indietro qualcosa che è parte di se stesso.
La Merini non solo proclama la profonda e sostanziale essenza della sua poesia come vita, ma dimostra anche l’utilizzo di voci lessicali con forte valenza poetica e di notevole incidenza con tutta la tradizione lirica, sia italiana che europea. Basta evidenziare l’utilizzo di parole-simbolo come “corpo”, “anima”, “angelo”, “canto”, “marciapiedi”, “casa”, “amore”, perché l’arte della poetessa può essere riconducibile ai filtri culturali più svariati e distanziati nel tempo – dai lirici greci a Montale e Quasimodo, a Ungaretti e Saba –, ma risulta sempre, mmancabilmente, originale. Come esiste l’identificazione tra “poesia”, “amore” e “canto”, così la melodia della scrittura si articola attraverso contrasti e coincidenze. Due sono i principali nodi tematico-concettuali da cui si origina l’arte della Merini: poesia e canto, anima e corpo. La contrapposizione interna tra misticismo ed erotismo, ricerca del divino e ateismo è determinata dal gioco continuo di omologazione e repulsione di tali concetti-base. Gli slanci e il tormento artistico della poetessa nascono da questa continua differenziazione ed identificazione. La poesia Le osterie testimonia tale procedimento riflessivo e compositivo:
A me piacciono gli anfratti bui
delle osterie dormienti,
dove la gente culmina nell’eccesso del canto,
a me piacciono le cose bestemmiate e leggere,
e i calici di vino profondi,
dove la mente esulta,
livello di magico pensiero.
Troppo sciocco è piangere sopra un amore perduto
malvissuto e scostante,
meglio l’acre vapore del vino
indenne,
meglio l’ubriacatura del genio,
meglio sì meglio
l’indagine sorda delle scorrevolezze di vite;
io amo le osterie
che parlano il linguaggio sottile
della lingua di Bacco,
e poi nelle osterie
ci sta il nome di Charles
scritto a caratteri d’oro.
(Le osterie, da Poesie per Charles)
I temi icastici di una concezione “orfica”, passionale e dionisiaca della poesia sono ossessivamente presenti nell’opera della Merini, dalla divinazione al mistero, dal canto al silenzio, dall’essenza al tempo, fino al riconoscimento della funzione biologicamente vitale e corporea della poesia come essenza dell’esistenza.
La permanenza di un attrito tra la professione di ateismo, nascosta sotto l’incapacità di “credere”, e la percezione di uno spirito religioso e irrisolto, determina il manifestarsi di un misticismo laico in cui si auspica un intervento divino, ma puramente onirico, di probabile ascendenza “montaliana”. In Solo una mano d’angelo (da Paura di Dio) riecheggia l’esempio di Clizia, anche se nella poetica della Merini la figura appartenente ad un mondo sovrannaturale non è affatto circostanziata, anzi è invano ricercata, e il “cavo d’una mano” fa pensare ad Ungaretti.
In Tu sei Pietro, raccolta pubblicata nel 1961, si ipotizza già l’avvento del dolore, a cui però si contrappone il coraggio orgoglioso di Alda Merini, la quale reclama il diritto a vivere e a proclamare i propri impulsi interiori. L’arte della poetessa registra il difficile connubio tra “inferno” e “paradiso” che lottano all’interno della sua scrittura e, ancora una volta, appare l’idea di un “corpo fatto di anima”, in continua lacerazione, perché è costantemente a contatto con la morte. In Nelle fervide unghie del dolore ritorna l’immagine simbolica dell’angelo che, tuttavia, si lega a quella del demone determinando una stridente, ma consapevole contraddizione interiore, coraggiosamente racchiusa nella scrittura della Merini. Il testo affascina:
Se il dolore m’assale e mi trattiene
nelle fervide unghie
e spossata mi sento devastare
da un orribile passo
che mi trascina e mi rovina al tutto,
gemo perché son debole, d’argilla
ma nel premere il labbro già mi cresce
dentro non so che orgoglio smisurato
per la morte apparente, di una fibra
di demonio o di angelo son fatta…
(Nelle fervide unghie del dolore, da Tu sei Pietro)
Tu sei Pietro costituisce l’anello di congiunzione tra il periodo antecedente e quello successivo l’esperienza dell’internamento in manicomio. Per Alda Merini sarà necessario attendere più di venti anni per realizzare un nuovo libro di poesia. La raccolta intitolata La Terra Santa, considerata il capolavoro della Merini, verrà pubblicata soltanto nel 1984. È un lungo periodo di vuoto editoriale, ma dietro il quale non si cela il silenzio, ma solo un diverso tipo di elaborazione, chiaramente condizionato da una patologica quanto dolorosa condizione dell’io. Ritorna il mito di Orfeo, anzi si precisa nel suo tentativo di riportare alla luce Euridice, mentre, per la poetessa, il pensiero diventa l’elemento da recuperare alla vita, sempre in bilico sull’abisso infernale della follia.In La Terra Santa, opera che vincerà nel 1993 il Premio Librex Montale, a controbilanciare l’annientamento dell’individuo all’interno della casa di cura, la poetessa proclama l’avvento di una nuova e presunta libertà non solo esistenziale, ma anche poetica, in cui niente potrà “soffocare” la sua rima: “è quindi venuto il momento di cantare / una esequie al passato” (Io sono certa che nulla più soffocherà la mia rima, da La Terra Santa).
La percezione di una dannazione sociale, aggravata dalla malattia, e la volontà di sottrarsi a tale condizione producono risultati poetici dove l’“orfismo” si articola attraverso filtri culturali che vanno dai lirici greci (in particolare Saffo) a Campana. Questo elemento viene dunque a rappresentare il tema unificante di un’opera, dagli esordi alle ultime pubblicazioni. La figura stessa di Saffo risulta così interpretabile anche in chiave di poetica leopardiana, a memoria che “virtù non luce in disadorno ammanto”:
Per ciò che non dissi
per ciò che non so compitare
per le anime spente dei fanciulli
per quella Lesbo infinita
io cantai una compagna
ardente nell’amore
e festosa nei riti eleusini.
Per quella compagna che cominciò
il mio canto
e che parla di morte nell’amore
continuerò a dire che la vita è una festa
e che la festa brucia gli impostori.
(Per ciò che non dissi, da Superba è la notte)
Duccio Mugnai è nato a Pieve S. Stefano (Arezzo) nel 1972. Si è laureato in Lettere moderne all’Università di Firenze con una tesi in Letteratura italiana moderna e contemporanea su Bergson, Papini, Tozzi e Ungaretti. Ha poi studiato a Londra e di nuovo a Firenze, pubblicando saggi e articoli letterari di argomento novecentesco..
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