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Anno 2010
  Giacomo Trinci
 
Poesie per Alda Merini
  Alda Merini
I

II mattino chiodato sotto i denti.
L’avvelenata vena dei discorsi
irrompe, il padre mio, l’io solo averti,
come se t’aprissi, io solo, nei morsi

di pietra l’acqua che ne sgorga, e sete
mi ripiega come gobbo di lena,
e dirti “salve” tesse la sua rete
d’inganni, ed io non oso. Ho spiga piena.

II

Mietere il verme della vita prima,
è il lutto allegro di ogni età;
l’alba in fatica ha i danni della brina
sotto i piedi, e tu nel nome d’Alda

ne percorri il solco arato, la cima,
inganno di maturazione ad ogni salda
vigna, dove s’impicca il sole, e guida
nell’ubertoso colle che rinsalda.

III

Muoio di sete ed ho per me la lingua
che ne sente l’insidia; tutto questo
alle sette di mattina per la cinghia
del nome che mi ha preso, e volo lesto

a carpirne le ragioni nella stringa
che ci lega a dio, come un innesto
docile e cieco, e il “presto” che ci ringhia
ha fame, ed ho la lingua, e qui mi arresto.

IV

Non son dei tuoi di adesso, ho scritto prima:
l’etica delle cose non ha resto,
è dispendiosa e cauta come prima
della vita, e come dopo ogni bel gesto,

quando saremo veri sulla riva
del sale, fronte a fronte, come questo
mattino che ti penso, e non ho rima
né carta che non sappia quel che cerco.

V

Oggi è quel giorno, è già arrivato, è qui,
quando sarà placato ogni appetito
di terra, e non cerchiamolo più lì,
ma in nostra lividezza piena, ambito

masso che ci stanca i fianchi, e ci finì
di canto, ci ingravò di metro ogni dito
d’attesa, e nella gestazione rifinì
salvezza. Oggi è mattina in ogni sito.

VI

La spada ha le tue mani, come un giorno
ho scoperto, stando piegato in treno,
del cuore ombroso d’ogni cifra adorno
e d’ogni cura cava di bisogno.

Non davi specchi a cicatrici in pieno
rigoglio di ferite; acute lame
di ritratti, giudizi, e lì la pace,
il sonno finto che tagliasti in seno.

VII

Il sonno delle menti ha fatto il resto.
Sulla soglia ha premuto il campanello
più volte, ha saltellato al freddo, ha aperto
il suo silenzio intorno, come a quello

rivolto; ha fatto sangue di sé, chiesto
abbandono e urlato, per patirne meglio
l’angustia nel giardino. Quanto al resto,
grava sull’uomo l’acqua del risveglio.

VIII

Ognuno ha il suo serpente che lo muta
spoglia su spoglia, e fa di carne morta,
ultima meta e vita che lo sputa
e lo riporta nuovo alla ritorta.

Malapreda di sé, si veglia astuta
com’era ed innocente, e dell’insorta
meraviglia che il sangue suo rifiuta,
ha piene cortecce e braccia, orma risorta.

IX

Solo del corpo è l’orma, è la sua buccia
cava, e tu sei sempre la «ragazzetta
milanese», come ti chiamò la fuga
dei tempi, non voglio dir la stretta

del destino, parolona in ùggia
e vana, per i poeti che vanno in fretta
al proprio dio, come lama che sbuccia
al proprio frutto, polpa benedetta.

X

Quando vuote percorro le mie stanze
penso al rifiuto di vedere in carne
la bestia sovrana in me, come se sfarne
il suo con il mio peso per vacanze

di mente si potesse, e nelle ‘avances’
fra me tocco più corpo che in allarme
dei sensi, al tuo cospetto; casa farne
di lingua è estrema vita di sostanza.

Giacomo Trinci, pistoiese, è uno dei più significativi poeti italiani d’oggi. Tra le sue raccolte di versi si ricordano Cella, Voci dal sottosuolo, Telemachia, Resto di me e Senza altro pensiero. Ha dedicato alla figura di Pinocchio Autobiografia di un burattino.
Ha vinto nel 2000 il Premio Letterario Castelfiorentino con il poemetto su Santa Verdiana Ritorno in Valdelsa e da allora ha fatto parte della giuria del Premio.