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Anno 2011
  Giudizi critici
 
 
 

Aldo Palazzeschi I critici dichiarano, con miopia intellettuale o con malafede, che Palazzeschi “non è futurista”. Spieghiamoci dunque sul significato esatto di questa parola. “Futurismo” vuol dire anzitutto “originalità, cioè ispirazione originale, sorretta e sviluppata da una volontà e da una mania di originalità. “Movimento futurista” vuol dire incoraggiamento assiduo, organizzato, sistematico dell’originalità creatrice, anche se apparentemente pazza. Non si tratta dunque di una influenza deformatrice esercitata sul libero spirito di un poeta, ma bensì di un’atmosfera antitradizionale, anticulturale, spregiudicata, nella quale questo libero spirito ha potuto osare, sentirsi compreso, amato, in quanto era solo, tipico, indigesto a tutti, beffeggiato dai critici e ignorato dal pubblico. Ecco ciò che lega il grande poeta Aldo Palazzeschi al Futurismo, scuola, se volete, ma scuola nella quale s’insegna a ribellarsi, a essere originali, indipendenti […]. Nell’Orologio, come in tutte le poesie dell’Incendiario, Palazzeschi è assolutamente originale. Egli entra in tutte le zone di tristezza umana: cimiteri, ospedali, conventi, viuzze di città morte, ma dopo aver congedato con una risata ironica tutti i sacri custodi di questi luoghi: Lamartine, Leopardi, Baudelaire, Verlaine, Rodenbach e Maeterlinck. Palazzeschi vive tra le beghine, ma per stuprarle, e si impietosisce, invece, sulle sue care mistiche dame di Villa Celeste. Passeggia di notte nei giardini primaverili, ma per scoprire i mali costumi dei fiori. Entrando in un cimitero, Palazzeschi, cataloga filosoficamente le facce dei morti, contratta uno scheletro e se ne ritorna con un teschio sotto il braccio, mangiando caldarroste nel più nostalgico dei tramonti. L’ingegno di Palazzeschi ha per fondo una feroce ironia demolitrice che abbatte tutti i motivi sacri del romanticismo: Amore, Morte, Culto della donna ideale, Misticismo ecc. L’opera di Aldo Palazzeschi (come quella, pure audacissima, di Corrado Govoni) costituisce gran parte della poesia futurista: la parte distruttrice, quella che G.A. Borgese, conversando recentemente con me a Roma definiva con acume “la critica parodistica del romanticismo”.

Filippo Tommaso Marinetti, 1913


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Si può dire, insomma, che la sua prima ispirazione, antiletteraria, ma non troppo […] gli sia nata dalla musica. Vi sono, non dico nell’opera del Settecento, felice e liricamente doviziosa, di quel suo dolce color dorato, ma nell’opera del primo Ottocento, l’opera comica, parti che vivono di ritmo solo, scompagnato da ogni senso, di strettissimo gioco […]. Palazzeschi forse partì di lì. Volle, in poesia, rifare quel che la musica, appoggiandosi alle parole, e nel tempo stesso eludendole, perché eran parole, in fondo, senza senso, avea già fatto […]. Se a tutto questo si pensa, si può avere forse un’idea passabile di quel che voleva essere e, fin dal principio, fu la poesia di Palazzeschi, che sopra modi fantastici, d’una fantasia, a volte, inconsistente, tendeva a suscitare immagini per nulla inconsistenti. Scava scava, sotto vi trovi una ragione ben lontana, e perfino un valor sociale.

Giuseppe De Robertis, 1930


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Dunque un’opera sconcertante, che sembra profondare le sue leggere radici in un mondo nostalgico di immaginazioni ossessive e deformate, forse in un nucleo primordiale di lontanissime memorie infantili (fantasticherie solitarie, cantilene di vecchie donne, libri di fate: e, non so come, qualcosa del primo mondo poetico palazzeschiano, con quel suo infantile rigore disegnativo, tutto fiorentino, mi fa pensare a Pinocchio…). Un’opera vergine, si direbbe, fin nella sua espressione letterale, nella sua sintassi insieme ingenua e complicata, nell’uso tutto personale della punteggiatura.

Sergio Solmi, 1936


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Quanto a Palazzeschi, la critica insiste, con un discorso molto legato a talune ragioni proprie degli anni, sul movimentato rapporto prosa-poesia. Borgese: “il critico può supporre che da questa crisalide debba svilupparsi un pungente prosatore, un novelliere fantastico o grottesco”; e Serra: “si direbbe che a forza di semplificare e di purificare la sua poesia abbia finito col distruggerla, quella che scrive è prosa con appena un po’ di colore umoristico e grottesco”, e Gargiulo; da ultimo, ora, concludendo un lungo discorso della critica, lo Spagnoletti: “la miglior lode che si possa fare alle poesie di Palazzeschi sta nel considerarle una prefazione assai virtuosa alla narrativa”. Al contrario, De Robertis, con un esercizio critico d’alto stile, riesce a una trascrizione lirica per pause, versi, ritmi e musica interiore della scrittura prosastica, scopre un movimento lirico vivo all’interno del movimento narrativo […]. In ogni caso, che, in Palazzeschi, si trovi un movimento oggettivo e dialogico per cui nel lirico si avverte il narratore, mentre la pagina del narratore appare tutta contesta di spunti lirici, ebbene è, questa, una situazione che svela l’indole più profonda dello scrittore e lo lega, nello stesso tempo, ad una particolare condizione del gusto […]. In realtà, crepuscolare futurista o vociano, Palazzeschi ha una sua leggenda straordinaria, sotto la quale vive una delle figure più unitarie e più coerenti del primo novecento, e di poi.

Luciano Anceschi, 1953


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Palazzeschi fu futurista come poteva esserlo un epigono diretto del Pascoli: un fanciullo sovversivo, ma anche pieno di languori. Il resultato primo e più apparente fu quello di un crepuscolarismo bizzarro, in cui si mescolavano aria di fiaba e sberleffi di enfant gâté. Sul tono di questa poesia ci lasciò osservazioni molto proprie il Gargiulo: “Il crepuscolarismo di Palazzeschi è diciamo così obiettivo: cioè uno resta davanti a queste figurazioni a guardarne i netti contorni, e intanto irrimediabilmente all’oscuro circa il sentimento da cui nacquero, e il loro significato”. Questo significa che il crepuscolarismo di Palazzeschi non aveva la dimensione umana di quello di un Gozzano o di un Corazzini, come saturazione estrema e rinuncia a una qualsiasi soluzione positiva del problema dell’uomo e della società: Palazzeschi crepuscolare è soprattutto letterario e, per tradurre il Gargiulo, umanamente indecifrabile. L’etichetta più comprensiva potrebbe esser quella di crepuscolarismo estetizzante, e, seppure con troppa severità, non era lontano dal vero il Borgese quando parlava di “rimasugli della sontuosa cena dannunziana”. […] Poi il Palazzeschi crepuscolare si risolve in divertimento; e La morte di Cobò può forse fornirci la chiave, farci quasi toccare il punto della crisi (del tutto pacifica d’altronde) tra la prima e la seconda maniera. Il vecchio armamentario medievale cede qui alla frantumazione prosastica del Codice di Perelà: i vecchi simboli dileguano e restano vivacissimi concertati di voci. […] E in realtà il Palazzeschi crepuscolare e il Palazzeschi che si diverte sono lo stesso poeta, poiché anche il primo si divertiva. Ormai in Intermezzo (il titolo è significativo) egli comincia a prendere atto del vuoto di coscienza che si acuirà dopo la guerra.

Luigi Baldacci, 1956


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Palazzeschi, in effetti, non patisce questa opposizione tra patetico e grottesco come opposizione tra due direzioni di cultura reciprocamente irrelate, ma nell’ambito di una singola disposizione spirituale, nell’ambito del crepuscolarismo stesso. Il che significa che quando Palazzeschi accoglie in una sintesi definitiva anche le poesie scritte con intenzione affatto seria, compie questa operazione a condizione di un interno giuoco, a prezzo di una netta deformazione tonale in senso ironico.

Edoardo Sanguineti, 1961


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Mancherà sempre, nella produzione in versi di Palazzeschi quella interna tensione lirica che caratterizza la poesia del Novecento da Campana in poi. Specialmente in Ungaretti, che stando a certe date si può dire cominci quando Palazzeschi finisce, o meglio s’interrompe, le novità del primissimo Novecento appariranno indirizzate alla conquista di un Assoluto poetico ed esistenziale che non sarà mai l’obiettivo supremo di uno scrittore votato alle deformazioni ironiche. Crede troppo allo spirito critico, Palazzeschi, o alla verità del buffo nella vita per darsi alla sostituzione dei miti, l’uno per l’altro, vecchio per nuovo. Avremo così i suoi sviluppi di narratore, l’escogitazione di personaggi in bilico fra il patetico e il surreale, figure strambe o grottesche non prive di una forza di esemplificazione saggistica. Tuttavia, l’importanza della sintesi resta inalterata. Rispetto alla lirica del Novecento, questa sintesi è stata operata sul terreno delle premesse culturali.

Sergio Antonielli, 1971


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La poesia L’Incendiario mostra, come ho tentato di additare, chiari elementi futuristi. Ma, per quanto riguarda tutta la raccolta, è possibile parlare di un futurismo palazzeschiano? […] Alcuni elementi che caratterizzano il Palazzeschi futurista, come il realismo grottesco ed espressionista, il comico, la parodia, il dialogato ecc., sono riscontrabili, come si è visto, in quantità più o meno forti, ma mai egemoni, si badi, in Lanterna e nei Poemi. Tutto ciò confluisce esaltandosi ne L’Incendiario; e viene a inserirsi in un progetto poetico complessivamente nuovo, sorretto da un’ideologia coerente, espresso in un linguaggio che porta a compimento le tendenze precedenti. Palazzeschi tendeva naturalmente al futurismo, al suo particolare futurismo. Del resto, se è importante vedere quanto il futurismo abbia dato a Palazzeschi, quanto abbia influito nel suo reale operare poetico, non meno rilevante è vedere quanto Palazzeschi abbia dato al futurismo, quali note personali abbia aggiunto al coro del movimento.

Luciano De Maria, 1974


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Una sensibile svolta, che porterà Palazzeschi entro le schiere futuriste, è già evidente nei Poemi del 1909. E’ a questo punto che cominciano veramente a delinearsi l’ironia e il grottesco palazzeschiani, prima quasi assenti, in un’“allegria” dissacrante […] di cui l’autore stesso sottolineerà la funzione rivoluzionaria. Allo svuotamento dei temi lirici tradizionali succede la loro esplicita parodia (come paradigmaticamente ne I fiori); le strutture dei testi aprono e talora si spampanano sempre più in senso narrativo e mimico, contro l’immobile circolarità delle prime liriche – e siano pure una narratività e una teatralità risolte volentieri nell’inerzia meccanica della filastrocca; infine la metrica, abbandonato lo schema trisillabico (salvo prima esibirlo protervamente nella famosa Fontana malata, a sua volta parodia dannunziana), si acconcia alle misure variabili del verso libero, anche se è pronta ad assumere di continuo ritmi cantilenanti. Ma si tratta sempre di una poesia impersonale, antilirica: l’io del poeta, quando pure sia presente, è anche esso contemplato dal di fuori come personaggio o piuttosto “figurina” nella meccanica “deformazione autoplastica” (Bonfiglioli) dei suoi atti e gesti quotidiani (La passeggiata, Visita alla contessa Eva Pizzardini Ba ecc.); l’unica prosopopea, Chi sono?, è in realtà un’antiprosopopea, una dichiarazione di smarrita identità, cui si sostituisce la maschera auto-ironica (“il saltimbanco dell’anima mia”), e i messaggi più personali sono delegati a personaggi di fantasia, celati nella improbabilità dell’invenzione grottesca o allegorica (v. soprattutto la figura simbolica dell’Incendiario, distruttore di civiltà, il cui rovescio complementare è forse Perelà, uomo di fumo). La poesia del Palazzeschi futurista è insomma il maggior tentativo esperito nel nostro Novecento di uscire dalle convenzioni seriose del discorso lirico, proponendone un’integrale teatralizzazione.

Pier Vincenzo Mengaldo, 1978


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Nonostante le precoci prove novellistiche e lo straordinario Codice di Perelà, che non ottenne però il successo sperato, la notorietà di Palazzeschi resta affidata in quegli anni soprattutto alle poesie, che continuano ad uscire fino ai primi mesi del 1915. Il secondo Incendiario, che ripropone nel 1913, insieme a sette componimenti nuovi, una scelta dei primi libri, raccoglie già le fila, segna un ripensamento e appunto una selezione, come se l’autore volesse misurare il cammino percorso, intendesse contemporaneamente ripresentare e correggere la propria immagine letteraria, anche alla luce di un’adesione meno immediata ed entusiastica all’etichetta futurista. Le poesie scritte dopo il 1910 attutiscono l’aggressività e continuano a seguire le tappe di una personale evoluzione, di una progressiva, consapevole, uscita allo scoperto. Una casina di cristallo, che non a caso ha come sottotitolo Congedo, liquida, ostentando una noncurante, totale esibizione di sé, le vecchie abitudini immaginative e figurative, mette in soffitta l’antico repertorio elencandone scrupolosamente la varietà e la consistenza: “Non sogno più castelli rovinati, / decrepite ville abbandonate, / […]. / Non parchi bagnati di dolore. / Non fontane, non cancelli, / attonite folle mute / non più”. […]
Nascono in questo periodo alcuni testi memorabili, fra i più importanti e significativi dell’avanguardia italiana. Nella Passeggiata lo spazio cittadino è percorso da un occhio passivo e disincarnato che ne registra come una macchina da presa i plurimi e variati segnali ottici, giustapposti in incongrua continuità dalla pura successione del movimento, che rivela solo nei due versi iniziali e finali la sua spinta volontaria e la sua circolarità. Il ritmo, scandito dalle rime, si adegua a quello del passo dell’invisibile flâneur. […] Lo sguardo dell’autore-regista vede al di là e al di sotto delle apparenze, ne scrosta la consuetudine, ne distorce il senso e la percezione: così nei Fiori ogni tentazione di idillio, ogni luogo comune naturalistico vengono malignamente rovesciati, e gli spudorati personaggi vegetali rispecchiano con brutalità antropomorfa un mondo corrotto e scandaloso, squadernato dall’autore con sospetta stupefazione. Alla fine, raggiunto il culmine degli eccessi, il testo sembra, come nelle Beghine, frenare all’improvviso: l’autore si ritrae precipitosamente da troppo sbrigliate fantasie, vuole marcare una dissociazione; ma si tratta anche, forse, di porgere una ambigua concessione al buon gusto comune del lettore, e insieme di dare un ulteriore segnale della propria polivalenza, della propria inafferrabile ubiquità.

Adele Dei, 2002


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Al tempo delle collaborazioni a «Lacerba» la poetica di Palazzeschi ha già previsto e continuerà a prevedere il differito dei traslati e il falso, l’innaturale e il teatrale, anche quello in accezione melodrammatica.
Si pensi alla scena del processo di Perelà, nel Codice, con il «bianco viso» in distanza, confuso tra la folla vociferante, di una Marchesa di Bellonda-Maddalena di Coigny, che ricrea una scena di Andrea Chénier; si pensi a scene dialogiche più intime e circoscritte come il classico, parodizzabile confronto padre-figlia presente in Interrogatorio della Contessa Maria; si pensi all’ingresso del poeta nell’Incendiario che si fa largo tra la folla (del tipo «Lasciatemi passare, datemi il passo, indietro indietro»), ai sintetici commenti in un aggettivo come «Infame!», o addirittura, ad apertura di Poemi e di successive sillogi in versi, al famoso Chi sono?, evidentemente tributario nei confronti dell’atto I di Bohème, al pari di una tarda, resistente e tutta segnalabile definizione della poesia stessa dislocata in Alma Poesis, nel Piacere della memoria: «una fiamma che si alza e si abbassa e si può abbassare tanto da ritenerla spenta».
«Chi son? – dunque, muovendosi al buio e già divertendosi – Sono un poeta. / Che cosa faccio? Scrivo», canta Rodolfo, fornendo ad un altro poeta in cerca di definizioni di un se stesso mediante la «penna dell’anima» il riferimento scrittorio e il vocabolo «anima» («l’anima ho milionaria»), mentre spetta alla replica di Mimì, per suo conto artistica artigiana del falso, suggerire un gioco di sensi al negativo (fiori ricamati, artefatti, i suoi, che «non hanno odore» per il Palazzeschi che scrive «Non ha che un colore») e contribuire soprattutto all’allestimento della sequenza rimica portante componimento-autoritratto (mia, follìa, malinconìa, nostalgìa) a partire dal suo stesso nome anagrafico dichiarato: Lucia, mia, malia, poesia. Il buffo e il malinconico si intrecciano, qui e altrove, in versi e in prosa. Nell’esibito ricorso all’Opera buffa, alle sue situazioni e ai suoi modi concertanti, verificabile nel testo di Sorelle Materassi, una oppositiva filigrana di genere malinconico, anch’essa delegata a modi e esempi del melodramma, persisterà.
Da buon frequentatore di teatri musicali e «ascoltatore emotivo» all’Adorno di elezione, Palazzeschi scarta subito, nel romanzo degli anni Trenta, le vittorie senza gloria di una sopraggiunta Kate Pinkerton qualunque, creatura «moderna» e «superficiale», anteponendole piuttosto il dramma (senza l'atto tragico risolutore, ma con tutte le assistenze affettuose di una Niobe-Suzuki mediatrice tra le esigenze di Remo e il dolore delle padrone) di ingannate Butterfly bambine (magari, come accade talvolta sulle scene, interpretate da soprani sessantenni) cumulativamente private, insieme, di un figlio e di un marito (che prima, come in Madama Butterfly, le ha ridotte «male in arnese»): completamente abbandonate perché a loro sarà estorta, alla fine, una totale confluenza d’affetti, il loro «piccolo Iddio».

Marco Marchi, 2004