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Anno 2011
  Nicoletta Mainardi
 
Fascino dell’uomo di fumo
 
 

Nicoletta Mainardi “Perelà – ha dichiarato Palazzeschi in tarda età – è la mia favola aerea, il punto più elevato della mia fantasia”. Trasparente allegoria di un poeta saltimbanco libero di sentirsi “un uomo molto leggero”, la parabola di Perelà è inseparabile dalla vicenda umana e artistica di Palazzeschi, che resterà in compagnia della sua creatura di fumo per quasi tutta la vita. Dal 1911, l’anno della pubblicazione nelle marinettiane Edizioni Futuriste di “Poesia” del “Romanzo futurista” Il Codice di Perelà, passando attraverso quattro successive differenti edizioni (1920, 1943, 1954 con il titolo Perelà uomo di fumo, 1958), la favola intitolata a questo seducente eroe del nulla non cessa di intrigare il suo autore, di ispirargli protratte attenzioni e complicità aggiunte. La complessa stratigrafia variantistica che interessa il romanzo nel corso di mezzo secolo, nella chiave di una sempre più accentuata normalizzazione linguistica e contenutistica dell’originario dettato avanguardistico-sperimentale, mostra l’importanza centrale che lo scrittore era disposto a riconoscere ad un sicuro risultato del suo esercizio artistico, mentre in parallelo si consuma il progressivo distacco di Palazzeschi da una stagione irripetibile. Si dovrà dunque tornare alla prima edizione del Codice per ritrovare intatto il fascino liberatorio e iconoclasta della leggerezza palazzeschiana, lasciando ad un altro capitolo della biografia artistica dello scrittore la storia dei suoi “tradimenti” testuali.
Quando Perelà decide di venire al mondo, scendendo dalla cappa di un camino dove si è formato con il concorso di tre vecchie madri-nutrici, Pena Rete Lama, si è spento da poco il rogo cartaceo del poeta “incendiario” che ha salutato l’annessione ufficiale di Palazzeschi alla pattuglia dei futuristi. Dal fuoco de L’Incendiario - il protagonista del poemetto eponimo della quarta raccolta poetica palazzeschiana edita nel 1910 - al fumo di Perelà, da un simbolo psichico-culturale ad un altro, da una demistificazione all’altra, sempre inseguendo il suo genio irriverente e parodico, trasgressivo e dissacratore, il ventiseienne Aldo Palazzeschi si avvia a firmare sotto l’insegna di “romanzo futurista” il libro “più felice e importante” – secondo lo storico giudizio oggi ampiamente condiviso di Luigi Baldacci (1956) – di una lunga e fortunata carriera.
Romanzo o “antiromanzo”, “favola allegorica” o “romanzo ermetico”, “opera aperta” o “libera fantasia poetica”, qualunque definizione si voglia tentare di un testo che proprio nella polivalenza della sua cifra denuncia la sua incontenibile, coraggiosa e spiazzante modernità, Il Codice di Perelà rappresenta un unicum nella letteratura italiana del Novecento e uno dei suoi sicuri vertici, un capolavoro lirico-narrativo felicemente in bilico tra nonsense a sfondo fiabesco e alta densità di significati.
Inafferrabile come la materia di cui è fatto, Perelà è una figura di crisi della moderna civiltà borghese, un demolitore disarmato e inconsapevole di mitologie consolidate, di ideologie correnti, di modelli culturali, di diffusi comportamenti sociali e convenzioni linguistiche. Senza peso né psicologia, senza un’identità riconoscibile salvo la sua stessa enigmatica presenza, l’uomo di fumo è epifania del vuoto, di fronte al quale l’umana società, rappresentata nei suoi centri di potere politico, religioso e culturale, nei suoi cerimoniali e nevrosi collettive, mostra tutta la propria fatuità e insensatezza.
    Al suo arrivo nella città di Torlindao Perelà è accolto e osannato come l’uomo superiore al quale affidare il nuovo Codice dello Stato. L’equivoco paradossale e infine tragico su cui si avvita il principio costitutivo e dinamico del racconto sta in questo fraintendimento della “eccezionale natura”, insieme concreta e allegorica, del protagonista, composto aereo a forma d’uomo impotente ad essere qualcosa d’altro da quello che dichiara: “io sono molto leggero”. La grazia trascendente di Perelà, immagine e simbolo di estraneità al mondo della Storia e alla logica del Potere, è anche il dramma di una società attraversata da tensioni eroiche e demiurgiche, che delega le proprie aspettative salvifiche al fumo nichilista del “figlio della fiamma”.
Grigio, afasico, aideologico, questo improbabile legislatore dei destini umani è trionfalmente condotto in visita ai luoghi deputati della vita politica e sociale, dove ha modo di incontrare le autorità e i notabili del regno, le dame di corte, la massa dei sudditi: una affollatissima galleria di ritratti e figurine di irresistibile glamour attraverso i quali lo scrittore mette alla berlina, sotto il pretesto fiabesco, manie e perversioni della società contemporanea. E non poteva mancare, in un attualizzabile Stato da operetta che ha sancito l’inutilità dei poeti e della poesia, la presentazione del poeta di corte, che in uno spassoso tu per tu con Palazzeschi e la sua aerea proiezione letteraria denuncia l’affinità pregressa Perelà/Poesia (“si deve potere ottenere il vuoto, ecco l’arte del poeta”) tra intento parodico, antiestetizzante e antidannunziano, e orgogliosa rivendicazione di poetica.
La peripezia di Perelà nel mondo delle ideologie ha il suo corso, attraverso le tappe obbligate di un’iniziazione che tocca la sfera del potere politico ed economico, l’arte, la scienza e la religione, l’amore e la morte, la guerra e la pazzia: le stazioni evangeliche di un viaggio terreno destinato a concludersi anche per lui, delusa l’attesa di palingenesi, con il martirio e la condanna alla reclusione a vita, prima di ritrovare, grazie alla provvidenziale cappa di un camino, la via del cielo da dove è venuto. Figura cristologica – in base alla suggestiva lettura di Luciano De Maria (1974) -, di una cristologia involontaria, farsesca e blasfema (alla domanda “cosa siete venuto qui a fare?” la sua risposta è: “- Nulla”), Perelà si muove incontro al suo alterno destino sugli scenari surreali e fantastici di un teatrino dell’assurdo che ora si recita in assenza del soggetto.
Su questo piano della teatralizzazione funzionale allo straniamento parodistico poggia la riuscita formale del Codice, la sua dirompente novità sperimentale in rapporto al tradizionale romanzo borghese, naturalista e decadente. Il protagonismo fumista di Perelà è formalizzato dalla scomparsa del personaggio di romanzo come soggetto linguistico, surrogato da una concitata orchestrazione polifonica con la quale si esprime una comunità dedita alla chiacchiera e al vaniloquio. Funzionano, nella prospettiva del “romanzo di fumo” e del suo messaggio autoreferenziale, con il quale si proclama l’oggettiva inservibilità dell’esercizio letterario nel mondo contemporaneo, le modalità dialogiche messe a punto da Palazzeschi nei versi dell’Incendiario, responsabili della diretta produzione e trasmissione del testo. L’espediente del romanzo-teatro gestito dall’azione scenica estromette dal suo ruolo canonico la figura del narratore, che si indovina divertito e sornione dietro gli sberleffi fonici, le dissonanze acustiche delle sue molteplici maschere. E mentre il linguaggio narrativo si teatralizza, legandosi la parola al gesto e alla voce all’insegna della velocità e della sintesi, l’aspetto tipografico della pagina consente l’immediata visualizzazione del testo a livello grafico, in convergenza con la poetica e la prassi futurista del consumo ottico, spettacolare dell’opera letteraria. Le lunghe colonne tipografiche che visibilizzano gli scoppiettanti dialoghi palazzeschiani, filiformi come una colonna di fumo, decifrano a colpo d’occhio il rapporto tra nero e bianco, spazio della parola e vuoto da cui la parola è assediata nella civiltà moderna, verso la dissoluzione del suo significato.
Fino dalle prime battute il riso aleggia sull’invenzione del Codice di Perelà, ma un riso di particolare specie, plumbeo come il suo protagonista; una comicità che va a braccetto con la malinconia, che è il timbro inconfondibile del “divertimento” palazzeschiano. Deciso a lasciarsi alle spalle i fantasmi di “una giovinezza turbata e quasi disperata”, come Palazzeschi la rievocherà a distanza, e incoraggiato a percorrere nuove strade dall’incontro con la poetica del futurismo, lo scrittore tuttavia non rinuncia alle urgenti e “primarie esigenze espressive di una diversità che con leggerezza si presenta e con leggerezza si interroga”: “il vero fil rouge – come persuasivamente sottolinea Marco Marchi (1994) - dell’intera opera di Palazzeschi.
In uno scintillante amalgama di biografia e cultura, favola e romanzo familiare, cronaca e tradizione letteraria, sfilano nelle pagine di questo libro eccentrico e insostituibile personaggi e situazioni desunti dal repertorio del Palazzeschi prima maniera, simbolista e crepuscolare, sonnambolico e onirico, posti a interagire con dei veri e propri topoi del futurismo, quali il mito fondante del fuoco purificatore e quello modernista della città. In sintonia con la produzione in versi precedente e coeva al Codice, in cui campeggiano figure di dame e beghine, suore e regine, nutrici e vecchie centenarie, il testo conferma in modo schiacciante la predilezione del primo Palazzeschi per l’osservazione del mondo femminile; una disposizione che affonda nell’universo figurale domestico e municipale dello scrittore, e che avrà ampio seguito per via di continue trasposizioni e ibridazioni fino a un best seller come Sorelle Materassi. Basti pensare alle tre madri centenarie Pena Rete Lama, allusive alle mitologiche Parche sul modello di Ara, Mara, Amara de I cavalli bianchi (1905) e di tante altre vecchie palazzeschiane, o alle stravaganti nobildonne in vena di confessioni erotiche, pronte a loro volta a trasmigrare dalle atmosfere astratte delle poesie e del Codice all’incarnazione della spregiudicata, immoralistica Contessa Maria di un romanzo a tutti gli effetti “straordinario” da tenere nel cassetto (Interrogatorio della Contessa Maria, annunciato nel 1926 ma edito postumo nel 1988).
È d’altronde noto che nel personaggio del provocatorio Principe Zarlino, il “pazzo volontario” che ha scelto di mimare la pazzia entro le mura del manicomio come via di fuga dalla follia del mondo, Palazzeschi ha probabilmente adombrato il maître à penser del futurismo: quel Filippo Tommaso Marinetti “anima della nostra fiamma” – come nella dedica dell’Incendiario - che avrebbe definito il Codice di Perelà, avallandone l’audacia sperimentale, “il primo romanzo sintetico, senza legami né ponti esplicativi, senza quei capitoli grigi pieni di belle zeppe necessarie, nelle quali Flaubert si rammaricava di aver sciupato tanto ingegno” (1913).A questo Palazzeschi anticonformista e avanguardista che ha imparato a trarre il maggior profitto dalla rivisitazione in chiave ludica della sua biografia artistica, che sa guardare con rinnovata fiducia alla letteratura e ai suoi travestimenti in risposta alle inquietanti inchieste dell’io, si lega la sorprendente modernità del Codice di Perelà. Qui passato e futuro, avanguardia e tradizione, realtà e fantasia si attraggono, si mescolano, si danno continuamente il cambio come in un sapiente gioco di specchi: alla maniera dei due minuscoli villaggi di Delfo e Dori visitati da Perelà, perfettamente identici, fraternamente simmetrici ancorché prodotto di scambio di una guerra fratricida che, come tutte le guerre, ha lasciato le cose esattamente come stavano.
Dai riflessi romanzeschi di un incantato Rio Bo (in Poemi, 1909) a questa lucida presa di posizione di Palazzeschi nei confronti della mitologia della guerra, secondo i modi della sua partecipazione ad un futurismo ideologicamente contraddetto e negato che tornerà a ispirargli, ad avventura futurista conclusa, le pagine dolenti di Due imperi… mancati (1920).
Fatalmente, a un certo punto del racconto questo gioco di specchi diventa ustionante. Quando Alloro, il devoto servitore del re, si dà fuoco nel vano tentativo di emulare Perelà, la cui leggerezza fenomenologica rappresenta in realtà un faticoso approdo esistenziale prima ancora che artistico, rispunta minaccioso all’orizzonte il doppio di Perelà, il suo alter ego ideologico e psichico, quella figura di fuoco sovvertitore dell’ordine costituito che dal superuomo nietzschiano si è propagato a tanta parte della cultura italiana fra i due secoli. Sarà il riconoscimento improvviso della potenzialità eversiva intrinseca alla sua ambivalente natura a muovere contro Perelà il sospetto e l’odio cieco di una folla sanguinaria, la stessa che lo aveva fino a quel momento colmato di onori; ma non è sospetto il congedo di Palazzeschi dal suo eroe di fumo. Il Perelà afasico che abbiamo fin qui conosciuto, venuto sulla terra per “vedere” e ormai cosciente che non c’è nulla per lui da vedere oltre quello che da sempre sa di sé, prende infine la parola per dire io; ma soltanto per riaffermare, e con lui il suo autore, la sua “sola virtù”: quella di essere “leggero leggero leggero leggero”.
C’era una volta, e c’è ancora, più vivo e interessante che mai, Il Codice di Perelà. Oggi è diventato uno splendido, festeggiatissimo centenario, come le tre vergini che hanno dato vita al suo protagonista, e a Peretola, la città toscana di un indovinello infantile che ha prestato a Perelà quel suo nome aereo – in base alla segnalazione di Stefano Tani, 1992 -, si vola davvero. Converrà allora, in tempi di rinnovati appelli incendiari su scala globale e di falsi miti, tornare a interrogarsi sul valore sapienziale e profetico della leggerezza di Palazzeschi, di un ex fanciullo malinconico e sovversivo che da vecchio ha ammesso: “E io non ho scherzato mai / pur dicendo di scherzare” (Un sogno, in Via delle cento stelle, 1972).



Nicoletta Mainardi (Castelfiorentino, 1957) ha dedicato i suoi studi a esperienze letterarie e artistiche del Novecento e di oggi. Ha pubblicato i volumi Il caso Loria. Storia e antologia della critica (1998), Lorenzo Viani. Studi per un ritratto (2004), Viani. Nuovi studi (2010), Dieci variazioni. Scrittori e artisti del Novecento (2011). Suoi scritti sono apparsi in riviste e cataloghi d’arte. È nella giuria del Premio Letterario Castelfiorentino.