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«Io non sono un letterato, sono uno scrittore nativo, di istinto non di sapere», diceva di sé – in parte mentendo – Aldo Palazzeschi. Sposando l’infigimento, privi delle armi del “sapere” ed animati dal solo istinto, attraverseremo pochi versi di Palazzeschi, in un itinerario caotico e senza bussola come – forse – avrebbe apprezzato chi di sé raccontava: «L’ordine e il sistema mi uccidono».
Troppo ordinato sarebbe, infatti, affidarsi alle dichiarazioni proemiali dei Poemi e ricercare nell’opera in versi di Palazzeschi quell’unica parola che, in Chi sono (Poemi, 1909), egli dichiara di saper sillabare: follia. Ovvero rincorrere la sola variazione cromatica della sua monotona tavolozza: la malinconia. O inseguire l’unica nota del palazzeschiano pentagramma: la nostalgia.
E come fidarsi, del resto, di un saltimbanco? Più efficace ed opportunamente “disordinato” sarebbe sondare, ma senza sistematismi, l’esatto contrario: l’umoristica serietà, l’anti-nostalgia, la contro-malinconia di versi tutt’altro che monotoni.
Ancora nelle prime raccolte, fra Cavalli Bianchi (1905) e Lanterna (1907), versi di gusto crepuscolare e pennellate macchiaiole sillabano un armamentario intimo e malinconico di soggetti campestri, di natura e fonti, di pozzi profondi dai mitici tesori, di piccole stanze di legno, di cipressi – tanti cipressi – custodi di un microcosmo incantato, che si spande in vaghissime apparizioni ed iterazioni echeggianti. Ma cotanta arcadia scatena un dubbio: che il poeta collezioni leziosi spunti lirici solo per poi metterli alla berlina?
Di certo, la monocorde pennellata, ancora arcadica, di Rio Bo (Poemi, 1909) trasuda di nostalgia per il “piccolo”, per la minuta quiete bucolica, benedetta da un amore stellare. Ma l’incastro di una rima fessa – “ma però” rimato con “Rio Bo” – accende, appena balenante, l’ironia. In barba all’anima malinconica!
Più frequentemente, il verso palazzeschiano si congestiona di tinte, le aeree trame musicali si addensano in fotogrammi tridimensionali, in caricature ed invenzioni macchiettistiche; la poesia si compone di policromi collage post-moderni.
Tale si snoda La passeggiata (L’incendiario, 1910), una sorta di découpage poetico con carrellate da video-giornalista contemporaneo attraverso percorsi municipali, fra emblemi di onorate tradizioni artigiane, bric-à-brac d’aristocrazia e mercimonio popolare. Ma il verso non si limita a collezionare tracce di antropizzazione materica, ne giustappone i sintomi e lascia baluginare, con leggerezza, il malanno. Altro che follia!
Scanzonato, di certo, Palazzeschi voleva mostrarsi. Eppure, più canzonatore che scanzonato lo raccontano i versi de L’incendiario, anche quando la poesia si struttura in puro ludus combinatorio d’altrui spazzatura lirica, di strofe bisbetiche e licenze poetiche. Ma così Palazzeschi si diverte smisuratamente. E lasciamolo divertire!
E non si sollazza esclusivamente con l’altrui pattume poetico, il Palazzeschi de L’incendiario. L’intero armamentario intimo e bucolico della sua prima produzione si ritrova snocciolato nei versi d’apertura di Una casina di cristallo, come un inventario capillare e divertito di sogni cestinati. Spazzatura, appunto. Il poeta ha cambiato parere!
Non sogno più castelli rovinati,
decrepite ville abbandonate,
dalle mura tutte crepate
dove ci passa il sole.
Non palazzi provinciali
disabitati,
dalle porte polverose,
dalle vetrate colorate,
dalle finestre ferrate,
non più.
Non più colli soleggiati,
non cime di montagne,
isole luminose,
non più.
Non solitarie vie
infinite polverose
dove sfogare tutte le mie malinconie.
Mi son venute a noia
tutte queste cose.
Non prati sconfinati
ricoperti di margherite,
circondati di stupore.
Non parchi bagnati di dolore.
Non fontane, non cancelli,
attonite folle mute
non più;
non più il croscio dei ruscelli
rapito ascoltare
all'ombre solitarie,
non le grida degli uccelli,
non più.
Sogno tutt'altre cose
che con queste non àn nulla che fare.
Non me ne dovete volere
oggi ò cambiato parere.
Di certo si diverte, il Palazzeschi poeta. Ma che la sua lirica sia puro divertimento, follia, mero gioco comico, come crederlo? Come fidarsi di un saltimbanco?
Tragicomica e non comica si dimostra la lirica di Palazzeschi, ed anche la paradossale casina di cristallo, sognata nel folto dell’abitato, rivela una denuncia leggera ma non superficiale delle ipocrisie cittadine: «Quando gli uomini vivranno / tutti in case di cristallo, / faranno meno porcherie, / o almeno si vedranno».
Parimenti, i versi de I fiori (Poemi, 1909) sbozzano un apologo botanico tutt’altro che comico: divertito ma non meramente ludico. Sfuggendo al tedio delle futili risate e delle sconcezze da salotto, al paradosso degli olezzi muliebri ed all’insofferenza primaverile, Palazzeschi ripara nella quiete di un giardino, rifugio sicuro delle sue primissime liriche. Ma non c’è più quiete nel cosmo bucolico. Anche la natura è senza candore: infida, meretrice, incestuosa, pederasta, ma almeno senza ipocrisia.
Il saltimbanco diventa moralista? Giammai! Ma Palazzeschi poeta è un virtuoso, maestro di una rara virtù, obliata dalla società dello spettacolo: l’arguta leggerezza.
Non più giovane, un Palazzeschi meno acrobatico viene allo scoperto con Ferdinando Camon, e in un’ammissione senile di poetica e Weltanschauung dichiara vibrante il valore dell’umorismo: «è il segno più sicuro su cui misurare il grado di civiltà di un popolo: un popolo senza umorismo e senza umoristi io lo considero barbaro. E la stessa ironia non è che un mezzo disinfettante di quel tanto di falso e di poco intelligente che è nella nostra vita quotidiana e nella nostra società: un modo signorile di stigmatizzare». Adesso cominciamo a fidarci.
Con signorilità e leggerezza, le stigmatizzazioni di Palazzeschi poeta galleggiano nei versi di Cuor mio, meno corrosive, più concilianti, assorte, profondamente umane, e si allungano verso l’epigrammatica schiettezza dei versi senili di Via delle cento stelle (1972), a disinfettare le tante falsità e la dilagante stoltezza del quotidiano.
Ammiccando al Cielo, in Un sogno (Via delle cento stelle, 1972), il maestro di leggerezza congeda ogni infingimento:
Questa notte ho sognato il Signore
che per la prima volta
mi guardava in un’altra maniera:
che ho fatto?
perché?
mi sono chiesto con trepidanza:
«Ehi! giovinotto,
è ora di finirla»
mi ha detto con voce di rimprovero
e la faccia severa:
«basta con gli scherzi
hai scherzato abbastanza».
E io non ho scherzato mai
pur dicendo di scherzare:
anche il Signore sbaglia.
Nata sull’estrema costa occidentale della Sicilia nel 1976, Maria Sabrina Titone ha condotto studi umanistici a Firenze, e collaborato, a partire dal 1999, alla curatela dell’Appendice bibliografica novecentesca della “Rassegna della Letteratura Italiana”, contribuendo coevamente alle pagine culturali di quotidiani italiani e riviste europee. Del 2001 è l’edizione, per i tipi della Leo S. Olschki, del volume Cantiche del Novecento. Dante nell’opera di Luzi e Pasolini. A partire dallo stesso anno, è membro della giuria del Premio Letterario Castelfiorentino. Odiernamente è responsabile per la Comunicazione strategica dell’Istituto Nazionale di Ricerche Demopolis.
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