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Anno 2012
  Marco Marchi
 
L’operosa inettitudine (per una «vita scritta» di Italo Svevo)
 
 

Marco Marchi Nella solitudine il pianto s’affievolì. Forse io lo continuavo soltanto per essere più pronto a riprenderlo quando fosse capitato qualcuno. Così il mio chauffeur lascia camminare il motore quando ci fermiamo per breve tempo onde risparmiarsi la pena di rimetterlo in movimento.
E ora che cosa sono io? Non colui che visse ma colui che descrissi.
(Le confessioni del vegliardo)




Io e «fratelli»

È stato Svevo stesso a definirsi autore di un unico romanzo e a ricondurre le sue maggiori trasposizioni in personaggi letterari romanzeschi - da Alfonso Nitti, a Emilo Brentani, a Zeno Cosini - agli spazi sufficientemente unitari e unificanti della derivazione autobiografica. Nella lettera a Enrico Rocca dell’aprile 1927 l’autore dichiara di avere scritto «un romanzo solo in tutta la sua vita»; l’autoironia - una precisazione ed un commento scherzoso ritenuti necessari - viene a ruota: «Tanto meno perdonabile di averlo scritto sempre male»; che è come dire, al di là delle insufficienze avvertite, che anche l’italiano decentrato, carente e insicuro di uno scrittore triestino e le difficoltà a padroneggiare la lingua cui un «barbaro» si affida ricreano unità. Vale preliminarmente, ad ogni modo, il rispetto di cronologie e progressioni maturate, di sequenze di immagini volta a volta rese possibili e così scandite, tra convergenze e divergenze, costanti e varianti di autoritratti per differimento, dal concrescere di una propria vicenda esistenziale: tre «fratelli» (così Svevo nell’ancora tardo Profilo autobiografico, testo sulla cui anomalia compositiva sarà interessante tornare), attorno ai quali si raccoglie e fa da sfondo una ben più ampia e variegata casistica di «doppi» fantastici, di possibilità di esistere immaginate e sperimentate.
Svevo allo specchio, di fronte a uno specchio di carta che non lo lascia, che genera figure e virtuali maniere di essere, che popola un altro mondo di cui Italo Svevo è già - a differenza del biografico Ettore Schmitz - un abitatore: un’opera che solo tre romanzi compiutamente realizzati e dati alle stampe non esauriscono. Non è Svevo, ci si chiede fornendo subito qualche altra certificazione di supporto, il benestante signor Aghios in cerca di libertà ed emozioni di Corto viaggio sentimentale, o il rinunciatario ed appartato scrittore di favole Mario Samigli ambiguamente baciato dal successo nei suoi vecchi anni (ed E. Samigli, prima che lo pseudonimo di Italo Svevo nascesse, si era firmato il collaboratore dell’«Indipendente» Ettore Schmitz) delineato in Una burla riuscita? Non è Svevo lo Zeno vegliardo dell’incompiuto «quarto romanzo»? E non è lui, oltre i confini narrativi, il protagonista di testi per il teatro come Un marito e La rigenerazione?
Al pari del senese Federigo Tozzi, suo congruo compagno di strada in quella potente operazione di smantellamento della letteratura di tradizione che sigla in Italia l’inaugurazione - secondo un celebre titolo di Debenedetti - del «romanzo del Novecento», Svevo riempie fondamentalmente la propria opera di immagini di sé: le ricerca, tenta di metterle a fuoco, le verifica nella loro tenuta di creature sincere di una finzione con il ricorso a una pratica per lui irrinunciabile e in sospetto di mistificazione come quella scrittoria, di continuo criticata e discussa, contestata e contrastata ma valutata remunerativa. Diversi, rispetto a Tozzi, i modi espressivi, i trattamenti della «materia d’origine», la qualità della scrittura e i quozienti stessi di «invenzione» appannaggio delle due realizzazioni letterarie. Ma sta di fatto che, culturalmente preparati ed esigenti, ambedue gli scrittori, nello scrivere romanzi moderni in cui bene o male si confessano, fanno della sincerità una stima assai alta, anche in questo diversi, se ad esempio l’autore di Con gli occhi chiusi problematizza anche in sede saggistica un fascino e un’importanza letteraria di D’Annunzio cui fino all’ultimo non si sottrae, mentre il biologicamente prosastico e antilirico Svevo se ne dimostra fin dagli inizi del tutto insensibile, ricorrendo semmai, e quasi coltivandole, ad altre forme rivelatrici della «menzogna» .
E come, al di là degli investimenti culturali ritenuti validi, essere modernamente sinceri? Rispecchiando la vita o attribuendo alla scrittura, su cui la vita incide, funzioni più complesse, responsabilità più cogenti e decisive? Le posizioni novecentesche si divaricano: perfino tra i sospettati poeti, i sublimi cantori dell’io, da quelle di Ungaretti che dichiara di non conoscere opera d’arte che non derivi dalla vita a tal punto da raccogliere la propria produzione sotto il titolo di Vita d’un uomo, a quelle di un Montale che in uno scritto di Nel nostro tempo afferma: «L’ipotesi romantica che l’arte nasca dalla vita anziché dall’arte già esistente, trova pochissime conferme nella storia». Perfino uno scrittore per molti versi distante da Svevo come André Gide, nel 1893, in un testo poi raccolto in Le retour de l’enfant prodigue, sostiene:«Nos livres n’auront pas été les récits très véridiques de nous-mêmes, mais plutôt nos plaintifs désirs, le souhait d’autres vies à jamais défendues, de tous les gestes impossibles» (La tentative amoureuse).
Già in data 1 febbraio 1905, d’altronde, durante i cosiddetti «anni del silenzio», del rifiuto della letteratura ma non della scrittura, un appunto diaristico sveviano anonimamente avverte: « È un uomo che scrive troppo bene per essere sincero». Dubbi analoghi, sulla base dell’inappellabile «una confessione in iscritto è sempre menzognera» della Coscienza (che sembrerebbe invitare semmai a una più agevole e diretta espressività dialettale o in altra lingua), si accampano a più riprese sull’uso dell’italiano, risorsa mistificatoria e inadeguata ambiguamente capitata in dote, per altri aspetti agognata e rimpianta nella sua pienezza: fino al «mito» di Firenze e dell’italianità che aveva condotto e continuava a condurre letterati triestini e friulani a vivere, studiare e intellettualmente operare - da Michelstaedter a Slataper, da Saba a Stuparich - nel capoluogo toscano. Una nostalgia dura a morire, ricollegabile alla parola risolutiva sfuggita e non pronunciata dal padre di Zeno, che a fine carriera e a fine esistenza di Svevo riaffiorerà nell’elogio alla forza e all’evidenza stilistica dei «toscanacci», i cosiddetti «vociani» Pea e Tozzi (così scrivendo al Crémieux il 15 marzo 1927, e aggiungendo: «Già tutto quel poco di buono che abbiamo passò di là»), o in termini del tutto affettuosi ma ancora all’insegna dell’«invidia», corrispondendo stavolta con Montale. Nel capoverso di una lettera (l’ultima) al giovane letterato genovese scopritore di Svevo e autore di una raccolta poetica d’esordio intitolata Ossi di seppia, da poco insediatosi all’ombra del campanile di Giotto, si legge: «Certo non sarebbe male di rividere Firenze prima di morire. Per certi aspetti è la vera capitale. Perciò io tante volte invidio Lei che pur essendo costretto a fare la vita che non è la Sua, la fa su un punto del globo ch’è veramente Suo» (lettera del 5 gennaio 1928).
Ma lo «scriver male» dell’asburgico purista Svevo (l’«incondita prosa» e lo «stile commerciale» che subito Montale valorizza, seguito da Solmi, Debenedetti e Vittorini, come strumento epressivo affatto confacente) si è ormai ampiamente consolidato a quell’altezza - nonostante le preoccupazioni innescate dalla riedizione di Senilità - come una componente forte, in positivo, di quella ricerca molti anni prima intrapresa e mai definitivamente congedata, allontanata da sé. Ci limiteremo per il momento a notare, quasi per inciso, come esponenzialmente anche l’Alfonso Nitti ventenne e già senile protagonista di Una vita si intrattenga con l’idea e la pratica di un romanzo, e come quel progetto che dovrebbe coinvolgere nella propria realizzazione, favorendolo, l’amore di una donna, sia internamente accompagnato dalla solitaria nostalgia dello «stile fiorito» e, prima ancora, dai rassicuranti, infantili e sognanti ritorni ai libri scolastici della «sicurezza», alle parole salde e radiosamente definitive come tavole della legge, trovate una volta per tutte da altri, cui doversi conformare per dire la propria verità, per riprodurre la vita o evadere da essa, contestarla.
Poi, appunto, la vita interviene sempre, ad ogni momento, forse troppo, e lo scrittore deve inventarsi strategie alternative per sopravvivere a lei e alle spietate incomprensibilità di «madre Natura», escogitando nuovi obbiettivi, nuovi traslati e nuove originalità letterarie da trasmettere, inaugurando giorno dopo giorno, scribacchiando in privato o pubblicando romanzi, rinnovati cimenti. Fino a quell’implicantissimo e riassuntivo apologo di poche battute tenuto nel cassetto degli affetti domestici, da consegnare come un favola finale alla sensibilità delicata della propria figlia e tuttavia disingannato e fierissimo come può essere la visione del mondo di uno scrittore vero, che dice: «Un augellino fu strangolato da uno sparviero. Non gli fu lasciato il tempo che di fare una protesta molto ma molto breve. Un lieve grido. All’augellino tuttavia parve di aver fatto tutto il suo dovere e la sua animuccia volò superba verso il sole» (L’uccellino e lo sparviero). Quasi un’autobiografia, volendo, una quintessenziale «vita scritta».


L’autobiografia impossibile

Autore di un romanzo a sfondo autobiografico intitolato Una vita, fin dagli esordi Svevo diffida dell’autobiografia. A certificare impossibilità e moderne riluttanze dello scrittore nei confronti di un genere interviene, proprio all’interno della sua opera, persino l’umorismo: «Quante autobiografie!», già si esclamerà, compiangendo l’umanità, in un’annotazione del 1906. E ancora, circa il descrivere la vita, l’averla un tempo raccontata sia pure su cartelle accatastate in obbedienza ad un medico, nelle Confessioni del vegliardo: «La vità sarà letteraturizzata. Metà dell’umanità sarà dedicata a leggere e studiare quello che l’altra metà avrà annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita orrida vera. E se una parte dell’umanità si ribellerà e rifiuterà di leggere le elucubrazioni dell’altra, tanto meglio. Ognuno leggerà se stesso». È la prospettiva immaginaria di un mondo protetto, in sé raccolto e chiarificato, di un universo dell’ordine e della cristallizzazione dei conflitti, demograficamente spartito con assoluta equità per via di letteratura fra autori e lettori, e in questi termini paradossali, affatto letterari, pacificato, risolto.
Sta di fatto che Italo Svevo non ha mai scritto un’autobiografia (neppure il Profilo autobiografico del ‘28 costituisce in questo senso, come vedremo, un’eccezione apprezzabile),  ma un’opera letteraria a sfondo autobiografico, e che in varie circostanze il problema posto dal ricorso a un genere risulta lucidamente affrontato, ben prima delle attestazioni appena citate (che valgono ad ogni modo da consuntivo e nelle quali peraltro si riassume anche il tardo Svevo «teorico della pace»), nonché della pratica freudianamente anomala sostenuta dal Dottor S. ad apertura della Coscienza, per cui un paziente è terapeuticamente indotto a «scrivere la sua autobiografia», sia pure nell’ottica di un «buon preludio» alla vera analisi.
Sul tema autobiografico, e non da ora, Svevo rivendica competenze acquisite, una preparazione teorica e intellettuale. «L’autobiografia, come è indicato dalla parola stessa e come l’intendevano Alfieri, Rousseau e Goethe - sostiene con assoluto tempismo E. Samigli sull’«Indipendente» del 22 dicembre 1884 -, dovrebbe essere lo studio del proprio individuo e, in seconda linea, onde spiegare quest’individuo, lo studio della propria epoca. The work and mission of my life, titolo dell’edizione inglese dell’autobiografia di Wagner, ha il significato simile: Il lavoro di un uomo, ciò che un uomo è; la sua missione, la sua influenza sull’epoca. Lebensbericht non differisce da autobiografia se non perché non promette uno studio troppo intimo di se stesso ed un poco più del proprio destino; comunicazione (Bericht) è meno che racconto» (L’autobiografia di Riccardo Wagner). Nessuno dei due titoli, ad ogni modo, corrisponde per  Svevo al reale contenuto del volume; migliore l’originale: «è più vago e se anche promette qualche cosa che somiglia ad un’autobiografia, non trovandola, non si può asserire di essere stato ingannato».
Difficoltà titolative, dunque, per un’opera che appare piuttosto un «composto bizzarro di storia, polemica, critica, e, a tratti impazienti incompiuti, di racconto della propria vita». Il rimpianto si visibilizza: «da Wagner ci occorreva un’autobiografia, una storia della sua mente, del suo sviluppo, che avremmo posto a canto a quelle poche altre, romanzi della genialità, studi di un mondo, di cui Schopenhauer fa un essere a parte». È colta una sorta di pudore (virtù degli esseri deboli, candidati alla sconfitta), un «ribrezzo che somiglia al balbettare di persona spinta contro volere a rivelare a degli indiscreti cose che voleva tenere segrete», una riluttanza e sostanziali riserve a raccontarsi direttamente e con chiarezza, a vantaggio invece di alonature derealizzanti e oscurità cui collabora il «misticismo wagneriano», un misticismo fattosi romanticamente vita, che «rende l’autobiografia, in certe parti, simile a quei racconti di sogni tanto di moda qualche decina d’anni addietro». « È una visione! - conclude l’articolista - Wagner è condotto da un Dio, l’arte, a traverso ad un mondo di esseri inferiori e nemici».
Eppure la parte in cui Wagner si propone come critico fa capire come egli «aveva l’intenzione di scrivere l’autobiografia con quella pacatezza, quella tranquillità oggettiva che in merito al solo Goethe si dice tedesca». «Wagner - si aggiunge - avrebbe dovuto attendere e vivere ancora molti anni per poter darci una buona autobiografia. Non è solamente un carattere che si riflette nell’autobiografia di Goethe, ma anche le circostanze nelle quali egli scrisse; quando scrisse Wahrheit und Dictung Goethe era già uscito vittorioso dalla lotta e donava alla nazione che glielo chiedeva, un commento alla sua opera artistica. Invece nel ‘79, quando venne pubblicata l’edizione inglese dell’autobiografia di Wagner, egli si trovava ancora nel periodo della lotta; l’autobiografia fu scritta per un giornale estero a scopo di propaganda. La differenza fra le premesse spiega del tutto la diversità delle due opere».
Il futuro Italo Svevo potrà d’altronde, fin dal suo primo romanzo, sentirsi abbastanza vecchio per incrociare sincronicamente al suo praticato diarismo un programma sostanzialmente autobiografico, ma sarà sempre in lotta, incurante di azioni promozionali a favore di primati antropocentrici, onomasticamente diviso e modernamente incaricato - non da un’occorrenza pratica o da un popolo, ma dal proprio desiderio e insieme dal mondo intero - a narrare se stesso. La nazione non avrà più frontiere, la lotta si farà cosmica, infinita, allineneando, come in un titolo sveviano che fa pensare al Tozzi di Cose e Persone, «uomini e cose» di un allargato, inclusivo «distretto» non di Londra, ma dell’universo. Il riferimento a Goethe appare, in questo, estremamente significativo: l’impossibilità di poter essere Goethe (in seguito, come vedremo, còlta in Goethe stesso) vale come sinonimo - ben oltre quella stessa formazione mitteleuropea sacrificata dall’italianità dal tardo Profilo autobiografico che Svevo ibridamente redigerà - di modernità per via di diasagio: emblematizzando la post-romantica separazione tra l’io e le cose di cui ha parlato William Empson, o la caduta del primato antropocentrico a livello di cose, in quelle cose e in quegli oggetti di cui la crisi testimoniata dalla Lettera di Lord Chandos di Hofmannsthal resta documento letterario della cultura occidentale prezioso e ineludibile. Auree categorie e regole classiche vacillano, l’incertezza mina la compostezza, la pacificazione non è ravvisabile né nelle premesse né nei risultati di un esercizio.
La rottura con l’antico si riverbera sui generi, sulla loro praticabilità. Anche l’autobiografia consigliata dal Dottor S. nella Prefazione della Coscienza sarà testualmente un’«autobiografia anomala», strumentale, impura, volta a contrastare disagi e malattie dell’io come presume di poter fare una elementare e sofisticata «scienza per conoscersi», con la quale non solo il Dottor  S. ma Svevo stesso intrattiene rapporti sufficientemente controversi. La psicoanalisi potrà testualmente accreditarsi, alla fine, come un «balocco» per artisti, al pari di Angiolina, l’antica, aggiornata passione giovanilistica di un impiegato inquieto in cerca d’amore. E tuttavia anche l’avventura sentimentale del senile Brentani con una giovane sarà servita allora a qualcosa: a «sognare» - prima di conoscere Freud - Ange, a rendersi meglio conto, in qualche modo, del sogno della vita e a consentire allo scrittore, con la propria rinuncia all’interezza di una giovane donna corteggiata, altre insperate proiezioni letterarie di sé, nuove strategie di difesa nell’unica vera, serissima lotta da tempo profilatasi.
Sta di fatto che ordine e disordine si stabiliranno quali elementi di una comportamentistica appresa o resa inevitabile da come «madre Natura» si rivela all’osservatore moderno: al filosofo, all’artista e allo scrittore. Ordine e disordine conviveranno ad esempio, secondo lo Svevo saggista e conferenziere al «Convegno» di Milano nel 1927, nella vita e nella scrittura di Joyce. «Ma un altro critico ch’è anche un grande poeta, T.S. Eliot pretende: Questo intendo perfettamente, ed è quasi ovvio. Ogni opera è composta di vita propria e della vita che altri ci insegnò» (Scritti su Joyce): quasi che esperenzialmente, per uno prosaico e antilirico «scrittore di cose» come Svevo, pure l’immaginazione, con il suo potere di sommovimento e di sconvolgimento del già dato, di difesa e di contestazione libertaria dell’io che lotta, che affronta così, in solitudine, la sostanziale crudezza e l’orrore del mondo, costituisse un’esperienza indotta, riducendo la presunta libertà individuale a forme d’obbedienza a una pedagogia decisa e prefissata da altri, ad ammaestramenti largamente previsti da un Autore ineccepibilmente scaltro, spietato e inesorbile come «madre Natura» sa essere.
Anche Renan, che per suo conto si presumeva riassumibile in una epigrafe tombale del tipo Dilexi veritatem, in realtà, alla prova dei fatti, letto nella sua «autobiografia fatta a Tréguier» (dal carattere «tranquillo» perché l’autore vi appare «soddisfatto di se stesso, tutto intento ad allontanare ogni apparenza di contraddizione»), lascia l’articolista precoce della Verità (14 agosto 1884) perplesso: «L’amore alla verità si manifesta in due modi: Affermando il vero e amandolo, o negando il falso e odiandolo. Naturalmente che vero e falso possono scambiarsi, ma amando un’affermazione che si dice vera e odiandone un’altra che si dice falsa, si può asserire di amare la verità, forse ingannandosi». Nemmeno Joyce, d’altronde, scrivendo della propria giovinezza nel Dedalus, ha fatto «una vera autobiografia», come, in definitiva, «non lo è neppure quella del Goethe che pure, sicuramente, la iniziò col proposito di farla. Quando un artista ricorda, subito crea». Rimane il fatto, in Joyce, che «la propria persona [...] resta tuttavia il pernio della creazione», ed essa è «una parte importantissima e vicinissima del mondo», al punto che anche «la virtuosità non arriva a falsarla». Tutt’altro: «Nell’ispirazione - conclude il saggista joyciano - io direi che si muta perché si fa più intera. Ed è un’esperienza vastissima»; o, citando il parere di Dedalo stesso nell’Ulysses: «Nello stesso modo come il nostro corpo è fatto e disfatto giorno per giorno per il lavoro di una spola che aggiunge o leva i fili che lo compongono, così l’artista distrugge e ricostruisce ogni giorno la propria immagine».
Ultima riprova o operazione di verifica immediatamente utile per Svevo, desumibile dalla casistica di artisti sentiti e definiti saggisticamente, autobiograficamente «confratelli»: l’evoluzione dello scrittore irlandese disegna diagrammi paragonabili, autorizzando a cogliere, più che generiche affinità, veri e propri doppiaggi, destini condivisi: «Del resto i primi scritti che il Joyce pubblicò egli li firmò Stefano Dedalo. È una confessione».

 

Mi pare, mi sembra

«Mi pare di aver fatto un lungo viaggio a occhi chiusi, e non ho visto nessun paese, pur sapendo ch’erano dinanzi a me»: così Tozzi in una prosa di Cose. E Svevo, nel commentare da vecchio i suoi percorsi cartacei: « È certo ch’io feci tutto quello che vi è raccontato, ma leggendone, mi sembra più importante della mia vita che io credo sia stata lunga e vuota».
L’ambivalenza e la contraddizione dominano. Un immancabile margine di dubbio è avvertito necessario e costantemente tenuto presente, il credere e il sembrare che dal racconto del proprio io investono per irradiamento tutto il narrabile fanno spazio all’antinaturalismo, alla letteratura che presto e sempre di più - secondo una formula elementare quanto felice, ancora di appartenenza debenedettiana - «narra in quanto non spiega», ma che al contrario, ribaltando possibilità e fiducie tutte presunte, esige - indenne da vanti e aprioristiche convinzioni di primati umanistici - spietate, rigorose e indefettibili registrazioni.  Ci si muove modernamente, nella pagina di Svevo, all’insegna del più assoluto plausibilismo, in sintonia con l’eslege anticonformismo accreditato per via di ipotesi innovative e sconvolgenti dalla ricerca scientifica.
Il ricorso alla cultura psicologica (oltre che filosofica: Schopenhauer) risulta deciso, geograficamente favorito da un mitteleuropeo crocevia di culture come la Trieste d’allora. La scoperta, la concomitanza e la personalissima partecipazione alla nuova scienza psicoanalitica si rivela un tutt’uno - accreditante, scompaginante, foriero dei nuovi coraggi narratologici esperiti dal terzo distanziato romanzo - con la persuasione di poter fare letteratura, magari a sfondo radicalmente autobiografico, promuovendo a materia di racconto insorgenze minute e contraddittorie, fatti in apparenza secondari e stranezze, rifiutando la pretesa importanza di accadimenti clamorosi, escludendo la grandezza insincera degli eventi fatali. Si punta al segreto, al sepolto, si misura e si interroga, promuovendolo a materia narrativa e a vera storia da raccontare, ciò che di visibile quel magma curioso (quante volte il narratore lega, come nelle giornate del sufficientemente disinibito Diario per la fidanzata, con «Strano»), insospettato e potentissimo, lascia cogliere. Si presta ascolto alle voci che provengono - indistinte e cogenti, suadenti e terroristicamente sbaraglianti - dal dostoevskijano sottosuolo, si riporta alla superficie, si inscena e si decifra - capitale, qui come nella scienza inaugurata da Freud, il ricorso al sogno - la comportamentistica sotterranea, complessa nei suoi simboli e nei suoi congegni ma decisiva di quel che siamo: l’inconscio. La Prefazione stessa alla Coscienza di Zeno mira a questo: a scoraggiare anche nel lettore un avvicinamento al testo nei termini di un aproblematizzato resoconto di fatti oggettivi.
Dicevamo dell’autobiografia. Anche il diarismo, altra fondamentale scrittura dell’io praticata da Svevo, in accezioni proprie e improprie, risulta a fine percorso integralmente contestato, dimostrato del tutto fallibile nei suoi propositi di registrazione simultanea, «in presa diretta», della vita, e nelle sue implicite pretese, confortanti e rassicuranti, di atto squisitamente raccolto, intimo e in ciò rivelatore. Andrea Battistini coglie bene nel suo Lo specchio di Dedalo (Bologna, Il Mulino, 1990), proprio alla luce del freudismo, le distanze che intercorrono fra diario e autobiografia: «In termini psicanalitici, il diario rappresenta il rifugio materno, il paradiso artificiale, l’intimità regressiva, tranquillizzante nella ripetitività perodica con cui ci si ripara in esso». E ancora, per opposizioni: «Se l’autobiografo cerca di dominare il tempo, inquadrandolo entro un disegno teleologico che prospetta un significato profondo (una predestinazione, una vocazione, una conversione...) dietro la contingenza, il diarista  si accontenta di lasciarsi condurre dal suo fluire, si adegua al ritmo imposto dall’esterno, galleggiando sull’onda variabile e imprevedibile delle giornate».
Volitivi e malinconici, imperturbabili efficientisti e personalità introverse si confrontano: Cellini e Alfieri, Leopardi e «Zeno Cosini, la maschera letteraria di Svevo». Zeno, non Svevo, e dunque soprattutto un diarismo esponenziale, di secondo grado, simulato e romanzato, garantito nei suoi atteggiamenti presupposti e nelle sue fiducie ascrivibili a tali spazi da un globale e inglobante progetto scrittorio di cui un diarismo letterarizzato risulti, superato il diarismo delle rinunciatarie «scribacchiature», una componente combinabile, un ingrediente o una funzione. È di nuovo Battistini, d’altra parte, a richiamare l’attenzione sui significati legati alla ricorrenza anniversaria, passato e insieme eterno presente: una dimensione ad ogni modo mitica e non storica del diario. E si pensi, a base di ricorrenze e anniversari borghesemente e ambiguamente onorati, all’ossessione che dà luogo per il fumo a promesse e proclami letterariamente e parodicamente solennizzati: mania su mania che veicola in Svevo, attraverso menzogne che il tempo rivela di continuo tali, la smentita della vita rigenerata, l’inattendibilità della cesura resurrezionale operabile, dell’incipit vita nova sempre dilazionato, soggiogato dal fluire immobile e inesorabilmente malato dell’esistenza.
Alle «ultime sigarette» faranno eco nella Coscienza gli «ultimi tradimenti» e gli «ultimi abbracci» per  Carla. Tutto è insicuro, provvisorio. Una sorta di ambivalenza di soccorso, con la sua sostenibile interpretabilità di atto involontario e casuale, coinvolgerà pure lo schiaffo a Zeno, punitivo e colpevolizzante, del padre moribondo. Ciò nonostante - nonostante appunto ambiguità e insufficienze che tutto investono, non esclusa la propria protestata esperienza di una letteratura a sfondo psicologico tesa fin dall’inizio ad indagare l’io e a produrre plausibili, allargati documenti in tal senso - di una cosa Svevo si dimostra biograficamente sicuro: «I suoi amici possono testificare ch’egli mai ammise che i suoi romanzi valessero poco» (Profilo autobiografico). Certezza accampata non solo a posteriori, quasi una furbesca garanzia della continuità di una mai evasa o tradita chiamata dell’arte. È proprio quell’arte irrecusabile, un po’ noiosa e qualche volta perniciosa, che continuerà a parlare per interposta persona attraverso Mario Samigli, il protagonista del tardo racconto Una burla riuscita. Poco crepucolarmente, almeno di notte Mario reagirà ai propri incubi di scrittore sempre colpito, messo a tacere. La protesta viene dal profondo: «Merito altro!». È la verità notturna, la verità del sogno che, sottrattasi a simboli e logiche allotrie, si fa grido.

 

Testimonianze

Testimonianze specifiche su Italo Svevo sub specie anagrafica di Ettore Schmitz non mancano: prima di tutto quelle provenienti da una prospettiva ravvicinata e in ciò privilegiata come l’ambito familiare, dalla classica Vita di mio marito realizzata all’inizio degli anni Sessanta dalla vedova Livia ai successivi ricordi, disseminati in vari scritti e culminati nel testo di accompagnamento all’Iconografia sveviana, della figlia Letizia. Ambedue le rievocazioni, specie quest’ultima, abbinano alle parole un corredo di immagini: quasi un supporto visivo all’attendibilità documentaria di quanto affermato e ricordato. Scritti, parole e immagini della vita privata di Italo Svevo, appunto, secondo il sottotitolo della elegante pubblicazione edita da Studio Tesi nel 1981: un centinaio di immagini - dalle vedute fotografiche della Trieste di fine secolo a una tela di Veruda, dal paiazo che fuma di una caricatura della sorella Paolina ai compassati ritratti parigini e londinesi della celebrità raggiunta - che a loro modo raccontano per tratti salienti quella che è stata la vicenda umana di Italo Svevo.
Perché tornare a «rileggere» quest’album così piacevole, così maliziosamente allettante oltre che, è ovvio, intrinsecamente utile? Perché potrebbe trattarsi, pure per chi ritenga di possedere qualche rudimento di biografia sveviana, della storia tout court di Italo Svevo, la quale in realtà, fino dai suoi esordi, si prospetta modernamente efficiente e rintracciabile all’insegna della divaricazione, della dissociazione, delle apparenze, dell’impossibilità definitoria e risolutiva per accumulo straordinario di possibilità. C’è il rischio, in altri termini, di cadere ancora nella trappola a sfondo stereotipico-illustrativo della storia essenzialmente privata di un buon borghese triestino vissuto a cavallo di due secoli: un industriale come tanti ce ne sono stati, ce ne sono e ce ne saranno, con il complesso della letteratura. La fotografia riassuntiva di Ettore Schmitz è in agguato.
Educato in un collegio bavarese e poi nella sua città, repentinamente passato per via di un crack familiare attraverso le ristrettezze di un ruolo impiegatizio venato di simpatie socialisteggianti e insopprimibili aneliti all’espressione artistica, Svevo approdò, com’è noto, a un radicale cambiamento della propria esistenza nel 1896, con il matrimonio con la cugina Livia Veneziani e l’ingresso nell’importante ditta di vernici sottomarine gestita dai suoceri. Conosciamo così, in stretta diacronia cronistica, la casa in cui Svevo nacque, i genitori Francesco e Allegra, Ettore da piccolo, l’amatissimo Elio prematuramente scomparso e gli altri sei fratelli. Ettore giovanotto appare in compagnia di Umberto Veruda e degli amici del Circolo Artistico: per le strade di Trieste o alle corse di cavalli a Montebello. Ecco quindi Svevo fidanzato (ha già subìto l’insuccesso di Una vita e quello di Senilità è imminente), Svevo e Livia sposi, Letizia bambina, Villa Veneziani con l’annessa fabbrica, il distensivo gioco delle bocce per i ritrovi domenicali e il giardino dalle alte siepi da cui fare cucù nei momenti di serenità domestica. Compare anche la biblioteca dello scrittore, della quale si intravede di spalle - un po’ limitativamente, come davvero si trattasse di uno scrittore della domenica di agiate condizioni e niente più - un patetico armadietto a vetri con le cifre rilevate: la biblioteca. Non mancano infine, geograficamente a portata di mano, le scanzonate gite sul Carso e gli svaghi ai bagni, con l’istantanea che coglie in più di un caso l’esteriore vivacità che dell’uomo ci è stata tramandata, i suoi atteggiamenti svagati e burloni, da campione dell’umorismo, che certo rimangono componente della personalità dello scrittore e tuttavia non la esauriscono.
Ma puntiamo integrativamente, nel ripercorrere il ricco materiale iconografico collezionato, sul vergiliato dei ricordi di Letizia Fonda Savio, su altre immagini memoriali parallele, ancorate al vissuto quotidiano della propria esperienza di figlia, magari limitandosi a trasceglierne solo una, che ci appare più di altre riassuntiva di un rapporto e funzionale al nostro discorso: «Io stessa - confessa con candore e assoluta onestà la figlia di Svevo - quando, adulta, ho letto con attenzione le opere di mio padre, e anche certe critiche acute e penetranti su di esse, ho cominciato a vedere papà in una luce nuova: per me è stata una vera e propria sorpresa, o, addirittura, un’autentica rivelazione». Posizione non troppo distante, d’altronde, da quella della madre, vissuta a fianco e in massima parte estranea all’altro Svevo, a quello Svevo riconosciuto da altri - sia pure con ritardi - nel suo valore e nei suoi significati profondi. Che è un po’ come dovere ammettere che anche in un album così esauriente, dovizioso e filialmente devoto, arricchito per di più da un contributo di Maier e da un’appendice di testi rari, integralmente Italo Svevo non c’è, non si lascia catturare: sfugge, è altrove, necessita dei sussidi speciali di un «chi l’ha visto?» di diverso tipo.
In verità Svevo stesso fin dal suo primo romanzo scarta risolutamente l’ipotesi di una facile identificabilità tra colui che narra (Italo Svevo), colui di cui sono narrate le vicende di una vita (Alfonso Nitti) e colui che, oltre l’atto scrittorio in cui chi narra rifiuta in copertina l’identificabilità, vive (Ettore Schmitz): là, nella scrittura, l’io biografico sopravvive, ma è consegnato solo in senso tipologico preliminare alla realtà che ne fa progressivamente un personaggio protagonista di valore incoativo, proteso verso nuove identità e nuovi racconti di sé, continuamete mutevole e cangiante, inafferrabile e complesso, avido di trasposizioni.
Gli stessi argomenti valgono e risultano per così dire perfezionati pure per i rispecchiamenti ulteriori che la scrittura di Italo Svevo realizzerà. A queste ibridazioni e a questi incroci giocati fra autonomia e dipendenza costantemente praticati da Svevo a dispetto di qualsiasi commerciale, biografico e semplificato «rifiuto della letteratura», a queste basilari fiducie riposte nella pratica stessa dello scrivere, riconducono del resto le riflessioni della critica.  Se - come ha scritto con pertinenza Giorgio Luti in uno degli studi ora confluiti in L’ora di Mefistofele (Firenze, La Nuova Italia, 1990) - «la complessa personalità di Ettore Schmitz non fu mai nascosta dai fantasmi suscitati dalla penna d’Italo Svevo», l’approdo definitivo cui rivolgersi sarà quello di «una nuova, sperimentale, visione del mondo e della storia, caratterizzata dalla sfiducia nella razionalità e nella conoscibilità della vita». In questo, soprattutto, risiede la modernità novecentesca di un autore che non ha esitato - al pari di Pirandello, al pari di Tozzi - a fare di una battaglia consapevolmente perduta in partenza il suo residuo conflitto vitale, la sua rinuncia orgogliosa, finanche la sua garanzia di disumana e incorruttibile fuoriuscita dalla patologia del vivere.
Possiamo dunque chiudere l’album che ci ha raccontato non la vita, ma una delle vite di Svevo, e tornare a immaginare la nostra, delegata da Svevo stesso ad astratti caratteri di stampa, convertita in arte e così ritrovabile. D’altra parte, è proprio lo scrittore a confortarci: «Bisogna credere nella realtà della propria immaginazione». Così la nostra «vita scritta» prevederà al suo interno morti e resurrezioni dei suoi personaggi, prima di tutto quelle del suo multiforme, inafferrabile personaggio protagonista. Ecco l’inettidudine, le ambizioni frustrate, la malinconia e l’atto suicida di Alfonso, la rinuncia al reale e le sublimazioni immaginative di compensazione di Emilio, le astuzie di Zeno. Anche in questa accezione varrà la massima di Wilde, uno scrittore appunto, che suona: «Chi ha più di una volta vissuto, deve più di una volta morire».

 

Altre testimonianze

Ettore Schmitz e Italo Svevo: perfino il ricorso al non de plume, se all’insegna della spersonalizzazione e del contraffazione anagrafica sembra promuovere il distanziamento e contrabbandare, così esibendola e marcandola, l’alterità di chi scrive, riconduce, comunque lo si voglia interpretare, alla vita: «Al suo pseudonimo "Italo Svevo" fu indotto non dal suo lontano antenato tedesco, ma dal suo prolungato soggiorno in Germania nell’adolescenza» (Profilo autobiografico). La spiegazione potrà esssere variata, ma dietro la maschera, scissione e assimilazione, autonomia e affratellamento convivono, si riconfermano, forse cooperano.
 Sarà questa l’esemplare divaricazione sostanzialmente riproposta a livello di macrostruttura dalla nostra rievocazione: nelle parti in corsivo (i «cappelli» alle quattro sezioni del libro, in cui peraltro gli studi di Enrico Ghidetti risaltano per attendibilità di riferimenti e valore) le occorrenze biografiche del primo; nelle altre, la ritrattistica cangiante e complessa, diacronica e sincronica, progressiva e ritornante sulle proprie caratteristiche primarie, di uno scrittore pronto a sfaccettarsi in innumerevoli personaggi e, attraverso di loro, a cercare volta a volta di raccontarsi e in definitiva, così facendo, di garantirsi con sufficienti margini di plausibilità un’esistenza. Ma torneremo anche a contestare il drastico, perentorio e quasi senza scampo aut-aut di Gide secondo cui la vita o la si scrive o la si vive, credendo invece - come ha scritto di recente Antonio Prete - che «tra esperienza e narrazione non ci sono percorsi lineari, e neppure visibili (Poesie und Leben, Poesia e Vita, era il binomio su cui s’affannavano gli scrittori di una generazione, dal poeta George al raffinatissimo Hoffmansthal, dal giovane Benjamin a Rilke» (A. Prete, La scrittura di una vita , in "La Voce del Campo", 8 maggio 1997). Secondo un’idea non esteriore dell’autobiografia, tutti i libri di Svevo potranno raccontarci la sua vita. Così un’antologia più o meno classica aspirerà a traformarsi in moderna autobiografia.
In realtà - almeno a partire dai tempi di E. Samigli, e cioè quasi subito - Ettore Schmitz non si accontenta di restare tale, attestandosi a ciò che per altri è la vita reale, risolvendosi in essa, aderendovi pienamente e combaciandovi: sogna e lotta, complicando per via di letteratura quell’immagine troppo facile e insoddisfacente di torva e bestiale creatura impaniata nelle maglie della vita pratica, non rinunciando mai ai patrimoni fantastici e rappresentativi della letteratura, sentendo di potersi affidare con essa, con la pratica alternativa di un esercizio che coinvolge mente e cuore, idealità e realtà, aspirazioni e frustrazioni, limiti e altezze, alla messa a punto di più fedeli ed esigenti maschere del proprio io. Con la penna in mano - sia pure per «scribacchiare», per annotare sparse riflessioni sulla stranezza del proprio io, produrre scherzi e promesse di rinuncia tabagica o redigere una lettera - Schmitz si trasforma in Svevo, presupponendo il riferimento a un’espressione drasticamente circoscritta delle proprie risorse, una maniera di esistere più piena solo forzatamente messa a tacere da sfavorevoli circostanze accondiscese e così abolita.
Un’intera opera letteraria, letta da autori di «critiche acute e penetranti» o meno, non tarda del resto a mettere in luce aspetti inediti, divergenti ed estranei al ricordo e alla conoscenza stessa consentiti dalla frequentazione familiare. Svevo non è Schmitz, l’opera alla fine non è un’autobiografia, ma un racconto, un unico grande romanzo a sfondo autobiografico anche diacronicamente rispettoso del percorso di una vita: i vari personaggi letterari che corrispondono agli Ettore Schmitz in progressione biologica, come in quadri celebri o nelle popolari stampe colorate di fine secolo, còlti secondo le stagioni di un’esistenza che annovera giovinezza, maturità e vecchaia, ma anche, grazie alle facoltà evocative dell’atto scrittorio su cui poggia la modernità novecentesca dell’autore, infanzia e adolescenza.
Ma c’è anche, certificato di sfuggita dalla figlia Letizia, uno Svevo per noi interessantissimo, su cui converge la testimonianza altrove dislocata e reperibile dello scrittore stesso: lo Svevo còlto nei tentativi volontari di «calarsi nel personaggio», del provare a essere quel personaggio, nel valorizzare o estremizzare sue possibilità e nel depotenziarne o scartarne altre. Al ricordo biografico - ci si chiede - già si confonde, attivo, quello cartaceo, letterario? Fra i testimoni, fra gli autori di «critiche acute e penetranti» utili a capire, si segnala senz’altro, e non solo per diritti di priorità d’interessamento, Eugenio Montale, cui Svevo scrive da Charlton il 17 febbraio 1926: « È vero che la Coscienza è tutt’altra cosa dai romanzi precedenti. Ma pensi ch’è un’autobiografia e non la mia. Molto meno di Senilità. Ci misi tre anni a scriverlo nei miei ritagli di tempo. E procedetti così: Quand’ero lasciato solo cercavo di convincermi d’essere io stesso Zeno. Camminavo come lui, come lui fumavo, e cacciavo nel mio passato tutte le sue avventure che possono somigliare alle mie solo perché la rievocazione di una propria avventura è una ricostruzione che facilmente diventa costruzione nuova del tutto quando si riesce a portala in un’atmosfera nuova. [...] Sapevo la difficoltà di far parlare il mio eroe direttamente al lettore in prima persona ma non la credevo insormontabile. [...] io so di uno o due punti dove la bocca di Zeno fu sostituita dalla mia e grida e stuona». Un tentativo, uno «sforzo», che sigla la diversità di questo romanzo dai precedenti, compreso Senilità che Montale, come Larbaud, per il momento predilige.
La testimoniata immedesimazione propiziatoria in Zeno, dunque, realizzata in solitudine, non disturbato o distratto dal rumore del mondo e degli altri, prevede similarità e distanze. Le linee di demarcazione delle scritture dell’io si confondono: è difficile dire se a «zeneggiare» sia solo Svevo, o se a «sveveggiare» non sia anche il commerciante Schmitz, pur ammettendo che gli impiegati-letterati dei precedenti romanzi non prevedessero analoghe forme di comunicazione e di interscambio. Sta di fatto che il trucco, il travestimento e la maschera si ripropongono pure, prima dell’invenzione del personaggio di  Zeno e ancora in solitudine, nel firmare scherzosamente e letterariamente lettere a Livia e a Letizia, saldando ad esempio l’Ettore in maschera caricaturalmente proposto da un quadretto della sorella Paola del 1897 allo Svevo scrittore che pensa per un suo romanzo, prima che a Senilità, a un titolo come Il carnevale di Emilio (un carnevale - Giacinta di Capuana e L’eredità Ferramonti di Chelli a parte - tragico e foriero di morte come per il demarchiano travet milanese  fratello di Demetrio, Cesarino Pianelli?). Storie di impiegati, oltretutto, secondo individue occorrenze biografiche e modelli letterari attivi tra Otto e Novecento che aggettano su un topos condiviso: da Balzac e Flaubert a Bersezio, da De Marchi a D’Annunzio, da Tozzi e Jahier a Kafka.
Già in Senilità, del resto, in chiave di riflessione metaletteraria, assume rilievo il giudizio di Emilio che rilegge se stesso, i frutti momentaneamente rinnovati di quell’«arte» del romanzo che anni prima «gli aveva colorita la vita sottraendolo all’inerzia in cui era caduto dopo la morte del padre»: «- Incredibile! - mormorò. L’uomo non somigliava affatto a lui, la donna poi conservava qualche cosa della donna-tigre del primo romanzo, ma non ne aveva la vita, il sangue». È la sostanziale inadeguatezza della letteratura, è la sua forza di strumento in bilico tra sogni e realtà, contraffazione e intransigente rivelazione di verità, per cui anche la «lettera» servirà per la biografia di Ettore Schmitz e per la letteratura a sfondo autobiografico di Italo Svevo, secondo una doppia utilizzabilità, qui potenziabile, segnalata dall’editore dell’Epistolario Bruno Maier. A volersi attenere alla casistica dei ritratti familiari che si lasciano immediatamente apprezzare in questo senso ibrido e miscidato, Ettore è al pari di Zeno distratto e svagato, cleptomane e geloso, fumatore e burlone. Zeno, questo sì, apparirà impegnato su altri fronti, ben più consapevole della gravità del problema, e proprio per questo disposto a coalizzare e potenziare, per via di assimilazione letteraria dell’umorismo, attingendo dalla freudiana «grande schiera dei metodi costruiti dalla psiche umana per sottrarsi alla costrizione della sofferenza». Ma tutto contribuisce al formarsi del racconto, ogni ingrediente porta il suo sapore, ed è in definitiva lo scrittore ogni volta a decidere di modalità restitutive, tra copia e modello, del proprio io da raccontare, da identificare e sottoporre a cattura: il più implicante tra i suoi io, l’Io.
Scriveremo dunque, come Zeno e come Svevo, un lungo monologo, puntando sul reale e immaginando anche ciò che è irreale, scrivendo non della malattia ma delle cure, e attraverso di esse, sfiduciati nella guarigione risolutiva cui si aspirerebbe, di margini di adattabilità e di compromessi ipotizzabili per l’essere umano. Sarà così possibile giocare nel montaggio dei materiali estrapolati - nel testimoniare appunto della «malattia a lungo corso» di cui Zeno si considera portatore - sull’intercambiabilità di terapie e guarigioni tutte presunte, pronti a cogliere gli eventuali, effettivi progressi nella messa a fuoco di un problema che ritorna. Riuscirà il personaggio sveviano a superare - terapia e tentazione ricorrenti - l’ambiguo filantropismo dell’avventura sentimentale, l’umanitarismo a sfondo classista-socialista volto in realtà all’autoaffermazione, al risarcimento dell’insuccesso, alla cura del proprio rimpianto di innocenza e efficienza, forza e naturalezza: Carla avvicinata con il pretesto del canto e della musica, la bella fanciulla presto risolta in teoria filosofica, Felicita, l’«ultimo amore» di cui è alla fine è inutile parlare se non per rivelarne la culminante, tautologica posizione lavorativa di salvatrice incontrata e quasi subito lasciata perdere: proprietaria di un appalto di tabacchi. Ad ogni occasione, tuttavia, anche nella mente smemorata e fallace del «vecchione», puntualmente rispunteranno con l’attraente figura femminile - sulle vesti, sugli oggetti di una casa, su tutto ciò che circonda la sua figura al momento dell’apparizione - i colori, la gioia variopinta, spregiudicata e carnale, dell’incosciente giovinezza.
Immetteremo fra i brani scelti o ne sottintenderemo comunque i significati anche il testo in cui Svevo confessa che per tutta l’esistenza, né più né meno del suo eroe più maturo, ha scherzato con la moglie e la figlia essenzialmente per difenderli dal «vero» della vita, per proteggerli - forse più di quanto non competa a un buon marito o a un buon padre - facendo intuire quel «vero» e insieme occultandolo. E terremo presente che, in perfetto italiano o nella lingua disastrata di un «barbaro», «una confessione in iscritto - comi si dice nella Coscienza - è sempre menzognera». Persino il Profilo autobiografico - lo accennavamo -, al di là della circostanza davvero pratica di una richiesta commerciale, e nella fattispecie di uno scritto a scopi promozionali voluto dall’editore Morreale, si rivela delegato dall’autore all’intervento coadiuvante altrui, riservando a se stesso la revisione rielaborativa e la finale approvazione autenticante del tutto: qualcosa di più, per un vero scrittore, di una furbizia o di una innocua prova di stile. Ne deriva un ritratto, nonostante tutto, un po’ paludato e  in posa (anche la difensiva «nazionalizzazione» dell’autore operata dal fascista e retorico Giulio Cesari tatticamente vi permane), una fotografia in cui Svevo come al solito c’è e sfugge. Il «profilo autobiografico» di Svevo rimanda, con quozienti di veridicità e complessità certo più alti, alla sua opera.

 

Un falso

L’incidenza della vita sulla scrittura di romanzi e racconti, saggi e testi per il teatro, è innegabile. La cronologia e le principali tappe evolutive del personaggio protagonista che vi si accampa appaiono, attenendosi a progressioni e scansioni romanzesche, rispettate: sostanzialmente speculari, improntate alla vita, esemplate sull’esperienza di vicende e status vivendi relativi a precise epoche e circostanze biografiche. Ecco - fatti salvi i margini di finzione e invenzione differenzianti della ricreazione artistica, sempre attivi - il giovane impiegato di una banca triestina soggetto agli effetti alienanti di un lavoro cui di necessità ha dovuto sottoporsi, ma anche le sue frequentazioni riparatrici della Biblioteca Comunale e la sua necessità -  oltre che di sognare, abbeverarsi di natura e innamorarsi -  di scrivere romanzi; ecco il già più rasserenato, ancorché abulico e grigio, inetto e sognatore, Emilio di Senilità: un nuovo squallido impiegato triestino, trentacinquenne, che ha pubblicato con scarso successo un romanzo ma che per questo gode nel contesto cittadino di una certa notorietà, amico di un pittore e innamorato di una ragazza del popolo che vorrebbe, oltre che amare, educare. Ecco un maturo uomo d’affari, fumatore incorreggibile, che, nonostante la conservazione delle sue precedenti inadattabilità alla vita e dei suoi difetti, ha imparato a sorridere e ridere dell’esistenza, preferendo all’amore appassionato per una donna di poveri natali da educare il realistico fidanzamento con una ragazza che è un buon partito, borghesemente sposatosi e  presto diventato padre di una figlia, e così entrato a far parte, con il ridimensionamento delle passate ambizioni letterarie, dell’agiato mondo dell’industria e di una nuova classe. Ecco infine quello stesso personaggio diventato anziano, ritiratosi dagli affari e ormai nonno, alle prese con le figure di un ampliato quadro di rapporti (la Letizia «monachella» scolara per un anno al «Notre Dame de Sion» di una lettera del ’10, ad esempio, fornisce solo l’avvio alla storia di Antonia recuperabile nelle Confessioni del vegliardo) e con le permanenti ossessioni di vecchiaia e malattia: condizioni biologicamente inveratesi con il passare degli anni.
Questo e altro, con incidenze capillari che sarà possibile enucleare e discutere in dettaglio, attestano i romanzi. E i racconti? Da quelli di ambientazione veneziana come Cimutti e In Serenella ai tardi L’avvenire dei ricordi e Una burla riuscita, molti si rivelano ispirati a vicende biografiche, siano esse la rievocazione del viaggio di Svevo ragazzo in compagnia dei fratelli al collegio bavarese di Segnitz o il «come vivere il successo tardivamente e insperatamente arrivato» di uno scrittore ultrasessantenne autore di fiabe di argomento animalesco, ma in gioventù di un romanzo, e se non intitolato Una vita o Senilità, per contaminazione e opposizione, Una giovinezza. Persino il naturalistico e signorile facchino Giorgio dell’Assassinio di via Belpoggio,  «malcontento di sé e degli altri», con il suo «carattere poco energico, inerte» e i suoi sensi di colpa, ha carte in regola per rientrare in questo quadro di suggestioni e dipendenze.
Ma anche il resto dell’opera presuppone la vita di Svevo. Come non trovare la vita rifranta in pièces teatrali come Un marito o La rigenerazione, o nelle pagine del precoce articolista dell’«Indipendente» che firma E. Samigli, nell’imminenza di un atteso debutto al Teatro Comunale di Trieste, considerazioni sullo shakespeariano ebreo mercante di Venezia Shylock, o un articolo espressamente dedicato al fumo? James Joyce sarà pronto nel 1924 a segnalare tra i suoi maggiori motivi d’interesse per La coscienza di Zeno l’impressionante potere del fumo nell’esistenza di un uomo. Ma, anche prima della conoscenza sveviana di Freud e della conseguente revisione cui le forme del romanzo andranno incontro, il fumo si propaga: la sua «nebbia» insalubre e alleata investe - come certificato da una lettera a Silvio Benco del novembre 1895 - corrispondenza epistolare e resa linguistico-psicologica del romanzo ivi discusso. L’articolo sul fumo cui alludevamo, occasionato dalla letteratura sul tema e infarcito di pareri letterari, risale a cinque anni prima, mentre «fasci di carte e fumo», assedianti e liberatori, compaiono in un biglietto affettuoso alla moglie datato «Trieste, 2.9.’96 ore 12 ant.».
All’opera partecipano appunto - con concomitanze e interferenze rilevabili - anche le zone paraletterarie dell’epistolografia, specie quella di carattere familiare occasionata dai frequenti viaggi e soggiorni di lavoro che portano Svevo lontano dalla moglie, non soltanto per comunanza di temi e motivi rilevabili (una comunicazione da Charlton, ad esempio, è presupposta dall’episodio del gatto inglese che graffia nel salotto di casa Malfenti), ma in senso più ampio e profondo: contribuendo cioè, non meno che negli ambiti del residuo «scribacchiare» degli anni del silenzio e successivi (il vecchio cui, nonostante l’«età della calma», è negato di prendere sonno ad apertura di Vino generoso dipende da due distinte annotazioni di taccuino), a predisporre e sperimentare stilisticamente, passando appunto attraverso l’igienica pratica scrittoria, proiezioni di sé che sono già maschere e figure.
La rievocazione di Ettore Schmitz e delle sue vicende, persino la loro immediata registrazione esperenziale operata a caldo, si atteggiano così in modo letterario, assumono inevitabilmente, facendosi scrittura, i caratteri di un racconto. Talché, già per il fatto di ricorrere alla scrittura, dalle annotazioni alla tedesca del Diario per la fidanzata alle abilissime lettere che potremmo definire della celebrità solo in parte raggiunta, la galleria dei personaggi si amplia, e in essa rientrano di diritto, all’insegna di uno pseudonimo presto attivato nelle sue funzioni conoscitive e distanzianti mai del tutto venute meno, lo sconsolato diarista che registra la sua rinuncia letteraria, l’«uomo circa celebre» impegnato ad intessere fitte relazioni epistolari, il corrispondente familiare burlone e sempre in vena di scherzi, il disimpegnato favolista per bambini ed adulti, il memorialista vegliardo che, sulla base di quegli appunti e registrazioni che per tutta la vita ha continuato a scrivere potrà chiedersi: «E ora che cosa sono io? Non colui che visse ma colui che descrissi». Un meticoloso atto imbalsamatorio mai interrotto, riagganciandosi al quale la vita - la vita della e nella  scrittura - ogni volta da capo ricomincia.
Le più segrete e insondabili correlazioni tra vissuto e scrittura potranno dunque essere raccontate dallo stesso scrittore: «restando - sono ancora parole di Antonio Prete - nella trasparente oggettività, e umbratile soggettività, della narrazione», secondo un’autobiografia nuovamente «ancorata in quella zone della conoscenza che confinano col non sapere, con l’oblio, e che la scrittura sa ripescare, riportare alla sua superficie vitale e trasparente»  Si tratterà, munendoci di una meticolosa, inevitabile familiarità alternativa di tipo testuale, stilistica e filologica, di allestire un falso, un ambiziosissimo saggio-racconto en artiste che pretenda di poter scrivere con la penna di Svevo stesso - per frammenti, stralci, estrapolazioni, ma anche attraverso una struttura organizzante che crei un nuovo testo, un testo finora mai esitito - la vita di Svevo.
Una volta individuate le essenziali linee aggregazionali e portanti del racconto (il padre, il fumo, la donna, il sogno, la malattia, la vecchiaia, il tempo, la letteratura, la stessa autobiografia...), tenteremo, seguendo le raccomandazioni dello scrittore a non cristallizzare e idealizzare la vita, di conservare il più possibile a questa «vita scritta» fluidità attraverso il ricorso a strutture narrative tese a cogliere e valorizzare, in un’ottica da filosofia antica tra Parmenide ed Eraclito non estranea a Svevo, una vita che è e che scorre. Su quella superficie liquida e potenzialmente inenarrabile, misteriosa e come il mare ingannevole, i passaggi del Profilo saranno boe, indicatori utili alla navigazione; ma vorremo considerare la «vita» anche come un percorso mobilissimo, aperto agli incontri e agli imprevisti, un altro «viaggio sentimentale» curioso e avventuroso, un altro «lungo serpe» potenzialmente inesuaribile, incompiuto e infinito.
Sarà giocoforza imporci l’imitazione nei riguardi di un complessivo «personaggio Svevo»: un mimetismo da falsari ma interessato alla verità, un plagio sintetico che tenga insieme, nella prospettiva memorialistica di un vegliardo che ripercorre a ritroso la propria esperienza e riattraversa così la propria opera, sincronia e diacronia. L’umorismo appannaggio di Zeno - più di un’integrazione o un mero controcanto alla «serietà» e ai colori scuri domininanti nel nuovo testo - apparirà diffuso, redistribuito nella forme di rappresentatività precocemente rintracciabili nelle zone pararomanzesche dell’esercizio epistolare e della saggistica, ben prima della sua promozione ad ingrediente costitutivo del raccontare come sarà nel terzo romanzo: come se la serietà profonda della vita avesse imposto dapprima allo scrittore autocensure, circoscrivendo l’intrattenimento ironico e giocoso tipico di un carattere in spazi limitrofi al romanzo se non del tutto paraletterari, e determinando così l’ingresso tardivo del comico negli ambiti narrativi per eccellenza, ufficiali e ufficializzanti (altro fatto che il dramma e non più la tragedia di Emilio costituisca già, nel ‘98, oltre che un avanzamento, una rievocazione). Eppure - lo dicevamo - Svevo è anche, da sempre, il paiazo di un quadretto della sorella Paolina; eppure di burle e di scherzi, con relativi annessi espressivi, si nutre una fitta aneddotica della giovinezza: a partire dal timbro di certi articoli dell’«Indipendente» o dalla pubblicazione-strenna «La Famiglia», e perfino dal clima precocissimo di una rivista da ragazzi, manoscritta e a diffusione familiare, quale «L’Adotajéjojade di Trieste», che presenta Ettore nelle inedite vesti animalesche (ma in seguito, in un suo racconto, Svevo sarà anche il cane Argo) di uno smarrito «cane ciccio» da riconsegnare ai suoi legittimi proprietari.
«Il pessimista - teorizzerà, semplificando, lo scrittore - è un intelletto e l’ottimista un temperamento» (Ottimismo e pessimismo). E tuttavia il «tragico» triestino, mitteleuropeo e spesso ebraico - nordicamente romantico, inquieto e psicologicamente contorto, spiritualmente torbido e tormentoso, assetato di giovinezza e a sfondo mortuario-sacrificale alla Slataper e alla Oblath - subito controbilancia, e anzi sembra dapprima lasciare poco spazio, prevalere incondizionatamente: Alfonso si uccide, Emilio fa di Angiolina - «- M’è fuggita la vita» - un simbolo solennizzato e onanistico, l’immagine «triste e pensierosa» di un sogno fattosi monumento votivo e altare. Sorridendo e ridendo, tuttavia, si potrà borghesemente proteggere la tranquillità dei propri cari, difenderli giorno per giorno da crudezze e orrori dell’esistenza, ma anche scrivere romanzi: romanzi che tornino a farsi palinsesti menzogneri e veridici di quei rinnovati adattamenti alla vita.

 

Alla ricerca dell’Io
 
Tenteremo dunque, come già con Federigo Tozzi ma ovviamente secondo modalità e strategie mimetiche diversamente calibrate, un autobiografismo dalle «ragioni profonde, magmatiche» (L. Baldacci, Per una «vita scritta» di Tozzi, in «Nuovi Argomenti», n. 12, luglio-dicembre 1997); ricercheremo nelle pagine di un’altra opera letteraria valutabile altrettanto straordinaria e quanto mai disponibile a un simile approccio quell’«Io possibile, non documentariamente reale» di cui ancora Baldacci ha parlato in Tozzi moderno (Torino, Einaudi, 1993), che equivale alla miriade di io disseminati che una strana e sorprendente biologia cartacea realizza per figure e traslati, fino ad autorizzare una contaminazione di generi letterari, a fare delle selezionate emergenze di un’antologia e delle intermittenze di una spuria autobiografia virtuale una sola cosa, una coincidenza: fiduciosi in un procedimento rapsodico, estrapolativo, inevitabilmente parziale, effettuato in assenza ma in ascolto dell’autore, che consenta alla fine di intravedere la saldatura tra esistenza e pagina scritta, l’esatto riconoscimento di un vincolo.
L’obbiettivo sarà rappresentato dalla costituzione di un tessuto narrativo monologante guadagnato per via di agglomerazione e montaggio, come modernamente avviene in Svevo autore della Coscienza, ma anche nel decentrato Svevo conferenziere joyciano, alle prese - secondo una notizia dall’officina partecipata a Montale - con un «materiale disforme», frantumato, con «connessure» da rifare in vista di un testo: una sorta di sceneggiatura romanzesca basata su nuclei tematici essenziali, realizzata poi, tra libertà e calcolo, tra sincronia e avanzamenti, per via di mobili aggregazioni che non escludano prolessi e analessi, ribaltamenti, omissioni, occultamenti e ripetizioni, sovrammissioni ed ellissi, scambi e sostituzioni, conformandoci magari alle regole di una comportamentistica onirica e del paradosso, ma anche ai modi febbricitanti dell’alterazione, della disfunzione e del disordine: modi «altri», che sfuggano al comodo e rassicurante esercizio di troppo logiche concatenazioni, di meccanismi tutti previsti.
Così, in alternativa alla dissolvenza di immagini quasi cinematografiche, sospensiva e non di rado suggestiva, o al più piano raccordo analogico di un racconto per paragrafi, faremo nostro anche un montaggio per imprevedibilità, a scatti, a base di arlecchinesche sortite, con guizzi e nervosismi alla Charlot, del tipo «Eccomi di ritorno dal mio quarto viaggio a Londra»; faremo nostro, soprattutto, nella prospettiva di un’integrale opinabilità del reale e di un’invenzione legata alla scrittura in cui è accondiscesa la realtà profonda, l’abreazione e la dispersione, un rifiuto deciso del «naturalismo» a favore di un realismo possibilistico di insorgenze rappresentative combinate e così fatte reagire, magari per lapsus e atti mancati, fino a un’allegoria fantastica che è forse vera realtà. Plageremo Svevo in una sorta di tecnica del sogno, che prevede ad esempio stanze oniriche da cui si esce e in cui si rientra per via incongrua di spaesamento, di annullamento o sovrapposizione di cronologie, di discontinuità e di scambio fisonomico di personaggi: per cui data la morte della madre di Svevo, essa sarà letterariamente preceduta (come nella biografia di Svevo) da quella della madre di Alfonso Nitti, e ancora letterariamente differita e rivissuta  in quella di Amalia Brentani, personaggio peraltro biograficamente ispirato a Maria Rossi, la sorella di Cesare Rossi. In modo analogo, all’insegna dei significati resistenti di un unico episodio intitolabile «malattia e morte delle madre», ad attendere concorrenzialmente e traumaticamente il personaggio che abbandona a tratti il letto o la poltrona dell’ammalata, c’è un’altra donna, poco importa se Annetta o Angiolina, con le sue richieste e le sue elargizioni di frustrazione per chi, uscito da una delle ricostituite e labirintiche stanze della morte, stenta a ritrovare, nei lineamenti di una ragazza da amare o in altro, il proprio conforto.
Agiremo per segrete e finanche casuali associazioni, per repentine sostituzioni e imprevisti ribaltamenti: faremo una sorta di rudimentale filologia dell’inconscio, per cui Joyce che inaugura il «caso Svevo» e rinnova per lo scrittore il «miracolo di Lazzaro» (così nella Prefazione alla seconda edizione di Senilità) diventerà all’istante, in chiave simbolica, la fata in vena di magie che colloquia con l’eroe di una favola; analogamente, le «grotte» di Vino generoso, valorizzando un accenno epistolare, potranno diventare quelle diurne, spettacolari e potenzialmente piacevoli, di Postumia, da visitare in compagnia dei Crémieux nel corso di una del resto solo immaginata e mai avvenuta gita turistica. Altra tecnica onirica di riferimento sarà costituita, in obbedienza alle fiducie talvolta concorrenziali nel sogno e nell’arte, dalla smentita totale di ciò che si è fino ad allora detto o autorizzato a credere: valga l’esempio della psicoanalisi, confessata e almeno strumentalmente approvata da passi della «vita» e subito dopo risentitamente confutata, invalidata, ironicamente ridotta a «balocco» per artisti. La ricorrenza stessa del termine «sogno» dovrà apparire biograficamente concresciuta, stratificata e storicizzabile, anfibologica per via di cultura maturata: dal rêve simbolista e romantico a Freud, alla semplice aspirazione umana ad evadere dalle rigidezze pratiche dell’esistenza, a reagire alla scontentezza di continuo promossa da quelli che Tozzi avrebbe chiamato, in opposizione e a integrazione dei «misteriosi atti nostri» che costituiscono il succo della sua poetica culturalmente e scientificamente confortata (da William James a Pierre Janet, da Ribot e Binet alla «Revue philosophique», da cinque testi posseduti di Henri Bergson a un sunto d’autore dei Tre saggi sulla sessualità di Freud datato «Vienna, Giugno 1905»), gli «atti reali».
Ecco infatti, nelle zone di pertinenza dell’invenzione letteraria sveviana, non necessariamente la più tarda, le ricorrenze e la duplicazione dei casi (Zeno e Antonia, padre e figlia analogamente obbligati a doversi accontentare di ironizzabili «surrogati» nelle loro scelte nuziali), la scissione in figure (i due fratelli Samigli della Burla), le possibili ibridazioni (Umbertino che è, per contaminazione, più nipotini e bambini della biografia sveviana), le varianti basate su aspirazioni e possibilità realmente balenate (l’azienda muranese cogestita con fratelli e non nell’ambito della famiglia Veneziani), i destini, combacianti o capovolti, ritrovati (ancora Umbertino che racconta proprie storie in assenza del padre,  Umbertino che chiede al nonno se si può dare un calcio a un uomo mentre muore). Così, nella letteratura, la giovane e bella Livia dalle bionde chiome potrà avere sorelle plasmate su Nella, Fausta e Dora Veneziani, e tra esse diventare Augusta, la meno piacente, mentre in un racconto Svevo potrà cancellarne la presenza di benestante moglie al fianco, sostituendola con quella di un umbratile fratello convivente: un fratello vecchio, per suo conto ammalato, comprensivo e interessato a fortune e sfortune letterarie altrui, letterariamente vivo, oltre che come ulteriore alter ego dell’autore, in funzione dialogica di confronto, come personaggio troppo presto venuto a mancare  della propria vicenda biografica. È come se Elio, il fratello di Ettore Schmitz che nella Coscienza è adombrato nel fratello minore di Zeno, non fosse mai morto. Grazie alla letteratura, d’altro canto, Augusta e prima di lei, in una prosa meno nota, la bella Livia, potranno assistere anzitempo alla morte del loro marito, dato che la scrittura del defunto, violando cronologie e instaurando nuove regole del reale, potrà addirittura, della neovedova, seguire puntualmente reazioni e pensieri all’indomani della perdita.
 E cercheremo di fare nostri pure gli inviti alle sintesi e ai corto-circuiti usati da Svevo per suggerire la doppiezza del reale e l’ambivalenza dei sentimenti, testualmente e quasi didatticamente ricapitolati da un Alfonso che piange la madre a morte non ancora avvenuta, non accorgendosi invece, poco dopo, dell’effettivo decesso (ma anche restando relativamente tranquillo al momento dell’accertamento, di fronte a una morte che, ancora per smentite, doppiezze e ambiguità economicamente convogliate dalla narrazione, torna a sembrare sonno). Opereremo per sintesi, suggerimenti e suggestioni anche in senso formale, talché, ad esempio, il «teorismo» della Novella del buon vecchio e della bella fanciulla sarà succintamente ricreato ricorrendo a una semplice, concentrata ma filosoficamente articolata, riflessione in tre punti.
 Presenza tematica fortissima, indefettibile e alla quale non si sfugge a partire dai primi documenti letterari e pre-letterari dello scrittore, si rivelerà d’altra parte, in questa «vita», proprio  quella della morte. A darci ragione di un «taglio» e delle scelte testuali privilegianti che abbiamo accondisceso, sarà il terribile e suggestivo presagio funereo legato a un’automobile e a uno chauffeur magicamente ritrovati, a posteriori, ad apertura di libro, nell’inizio del Vecchione: occorrenze di preavviso (ribadite peraltro, poco dopo, nel bellissimo frammento delle Confessioni del vegliardo tratto dall’Appendice prima, laddove mediante involontari segnali di morte si parla di ricordi infantili e di nascita), prediligendo per altre ragionate ragioni esordi di sezione sostanzialmente affidati alla voce narrante di uno Zeno terminale e a porzioni così dislocate di un unico, omogeneo testo: tranches strutturalmente e musicalmente raccordanti, secondo agganci e complessivi montaggi svevianamente operati anche per via di «suono», contro ogni eccessivo naturalismo ricostruttivo di tipo critico-documentario, ogni forma filologistica di una fedeltà solo in apparenza scrupolosa, finanche capziosa, in realtà incapacitata alla proposta di un falso ambiziosamente presupposto en artiste, intonato. Senza dovere o voler essere affatto William Pater, Angelo Conti o D’Annunzio, non coinvolge Svevo nelle sue scritture, oltre che nelle sue valutazioni estetiche, il riferimento ad elementi di teoria e tecnica musicale, come pure, parodizzando o prendendo sul serio, alla nona sinfonia di Beethoven, alla Valchiria  o a una romanza del Ballo in maschera di Verdi?
Dicevamo delle stanze della malattia e della morte, delle loro inevitabili, insistite ricorrenze da incubo, con incroci e con anticipi che la letteratura talvolta rivendica sulla vita. A tali interni faranno riscontro esterni generalmente altrettanto cupi: una Trieste per «lembi di città», da panorami notturni, lontani e sufficientemente indistinti di «città del lavoro»; una Trieste dalla metreologia rigida, emergenza terraquea contesa alle acque e sferzata dal vento, algidamente lunare, città ammalata e magicamente sospesa, letargica e mortuaria come le stanze dei suoi torbidi e foschi abitatori che hanno momentaneamente finito di lottare; una Trieste, alla fine, stemperata in mare e «colori crudi», da fulminante evocazione terminale, come nelle pagine dell’appena iniziato Come non si deve guidare che letterariamente contestano, attraverso il personaggio solo abbozzato del signor Refossi, la fatale occorrenza biografica di un incidente automobilistico accaduto a Motta di Livenza. E così per Venezia: una Venezia oscura e limacciosa, dispersa e stagnante nei suoi canali, sgorata e consunta, dissolta in essi, mannianamente in sospetto di colera e insicura anche per i morti, come quella muranese in cui vive e lavora il signor Perini, o come in una tappa del viaggio di nozze di Zeno e Augusta, andando in gondola da innamorati sotto i ponti, in un momento sadico e giocoso, amaramente intriso di scherzi e lacrime.
A contestazioni analoghe abbiamo parallelamente sottoposto, oltre che il luogo, il tempo, in questo sostenuti dallo Svevo che fa del tempo un suo tema di trattazione prediletto, fino ad allargare narratologicamente con il «tempo misto» della Coscienza e del post-Coscienza la propria sfiducia nell’autobiografia ai territori statutari e giurisdizionali del diarismo, o fino a risolutivamente affermare, proprio in una delle sue pagine diaristiche: «Ma il presente non è espresso da una data». «Forse quando usciremo dallo spazio e dal tempo - scrive ancora Svevo il 25 ottobre 1917, fornendo implicitamente ulteriori indirizzi e autorizzazioni al nostro apocrifo - ci conosceremo tanto intimamente tutti che sarà quella la via alla sincerità. Ci daremo subito del "tu" e c’irrideremo a vicenda come ci meritiamo. Morirà finalmete la letteratura che fu purtroppo tanta intima parte del nostro animo e ci vedremo tutti fino in fondo. Prospettiva macabra...». Morirà la letteratura, ma lo scrittore è già pervenuto a quell’insostituibile compimento datore di senso, retrospettivo e visionario, individuato con acutezza da Pier Paolo Pasolini parlando di cinema, di vita come materiale di un film da sottoporre a montaggio: « È dunque assolutamente necessario morire - così sostiene Pasolini in uno scritto di Empirismo eretico -, perché finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita è intraducibile. [...] Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci».
La giustificazione risolutiva e quasi l’assenso, il placet di Svevo a un operato condotto costantemente «in ascolto» (come lui in ascolto di fantasmi), li recupereremo infine nell’ambigua comportamentistica specifica da lui adottata, allorché almeno in due sensi egli ci apparirà avere delegato ad altri la gestione della propria autobiografia: a estensori fiduciari di tracce arruolati in veste di condiscendenti collaboratori (nella circostanza specifica del Profilo, l’amico Giulio Cesari), e a ben più intimi e implicanti personaggi immaginari: personaggi portatori d’esistenza letterariamente incaricati, complici.

 

Affaire Svevo e caso Samigli

 Quando la pubblicazione della traduzione francese della Coscienza di Zeno ritarda, Svevo scrive a Paul Henri Michel: «Proprio mi sembra d’esser divenuto Mario Samigli». Anche la tardiva, inaspettata e clamorosa affaire Svevo finisce con l’apparire nel suo complesso, in questo quadro di rapporti, di convergenze e divergenze vita-letteratura, estremamente significativa: un episodio da studiare.
Dicevamo di Vittorio Alfieri, della sua Vita e della sua classica concezione dell’autobiografia resa artisticamente operativa, con piena attinenza alle rigide regole di Lejeune. Nell’ex-libris di Alfieri compare, com’è noto, un vecchio alato: una falce gli è caduta di mano, lo sguardo sdegnato è rivolto ad un’ara su cui una scritta (Aeternitati sacrum), una corona d’alloro e tre libri sono assieme. Nel margine superiore si legge: «Vinto non mai se non daí libri il Tempo», un endecasillabo che è una didascalia. Il tutto in un’immagine replicabile, come le fotografie di Svevo uomo quasi celebre. Con il tempo (con o senza la maiuscola) Svevo ha in realtà cominciato a fare i conti molto presto, e in vari modi. Con la vecchiaia, tuttavia, la lotta si è fatta selvaggia, all’ultimo respiro, senza quartiere e senza confini (su questo tema ha scritto pagine suggestive e importanti Claudio Magris), tanto che un’allegoria ampliata, un’ipotiposi-memento paludata come quella alfieriana, non appaiono fuori luogo: una patologia nel tempo, che rimanda - per via letteraria - al dopo-tempo, a quel vecchio mitologico e un poí repellente, cartaceo come i libri che lo debellano, che gli fanno cadere la falce per terra. Le cure per Svevo non finiscono mai. «Zeno - parole di Svevo autobiografo sopravvissuto alle rivalse e ai bilanci di un suo personaggio - si crede un malato eccezionale di una malattia a percorso lungo. E il romanzo è la storia della sua vita e delle sue cure».
È tardi, adesso. Ma proprio allorché nietzschianamente l’opera si congeda dal suo autore, la sua storia non finisce, anche se essa incontra dapprima una «incomprensione assoluta», un silenzio glaciale che contrasta a sufficienza con i suoi intenti espressivi, di comunicazione. La storia della Coscienza di Zeno, venuta dopo le storie di Una vita e di Senilità, rischia di farsi persino monotona. Ma è lei che riannoda i rapporti di complicità (più che di vantabile distanziamento) che sussistono tra scrittore e personaggio protagonista: Svevo e tre «fratelli», di cui nessuno dimostra di essere del tutto cresciuto. «Lo Svevo diceva - ancora secondo la testimonianza in terza persona del Profilo del ’28 - che ad onta della sua lunga esperienza tale insuccesso lo stupì e lo addolorò tanto profondamente da danneggiare la sua salute. Aveva 62 anni e scopriva che se la letteratura era nociva sempre, a quell’età era addirittura pericolosa»: come, potremmo aggiungere, l’ultima sigaretta perennemente rimandata, come un’avventura amorosa immaginata o vissuta poco importa.
Svevo continua a rispondere così alla vita e alla morte, agli unici argomenti che in definitiva sembrano interessargli da sempre; continua a praticare terapie di autosoccorso da vecchio signore benestante, tabagico, in preda ai vizi, in balia di giovinette che sfuggendogli rientrano in un suo disegno. Tutto si risolve in acquisto di conoscenza, in rilancio di curiosità che impedisce alla vita di essere risucchiata, come la vecchiaia vorrebbe, dall’inerzia. Ci si rassegna, ma solo alla sperimentata necessità delle cure.
Svevo, per amore di uno Zeno che non comunica, scrive ad un critico, va ad incontrarne un altro (un suo concittadino) a Milano, rimanendo di nuovo stupito e addolorato dei risultati conseguiti. Ma anche la «vera ostilità» è preferibile al «silenzio». In nome di Zeno se non in nome dei suoi fratelli, e in nome di se stesso, dei propri diritti tallonati dal tempo, Svevo si appella a un suo «confratello» più fortunato. Il «caso Svevo» risoltosi in una inimmaginata e leggendaria affaire Svevo nasce da questa disperazione non del tutto rassegnata e inerte: un indilazionabile atto di rivolta che incrementa l’azione. «Perché si dispera? - rassicura Joyce il 30 gennaio 1924 - Deve sapere che è di gran lunga il Suo migliore libro». Segue nella lettera un servizio-stampa ambiziosamente internazionale, essenziale ma da capogiro: Francia, Inghilterra, America. L’Italia viene dopo (lettera del 20 febbraio), con i suggerimenti per aree geografiche (Roma e Milano) di De Bosis e Ferrieri. Il 1° aprile (sì, proprio il 1° aprile, come negli scherzi, e curiosamente nella luttuosa ricorrenza anniversaria della scomparsa di Francesco Schmitz, il padre di Svevo - le notizie comunicabili da parte di Joyce sono davvero «buone»: «M. Valery Larbaud ha letto il suo romanzo. Gli piace molto. Ne scriverà una recensione nella Nouvelle Revue Française». Svevo ringrazia subito, divertendosi a dire, raggiante, scherzoso ed abile com’è, che Larbaud «può fare del suo romanzo tutto, persino tradurlo per intero»; delega tuttavia opportunamente a Joyce l’incarico di una trattativa così delicata e per lui decisiva. «Fatto questo passo presso il sig. Larbaud, lasciamolo correre ambedue (il romanzo)»: il romanzo, appunto, di cui lo scrittore ha «il grande torto di occuparsi ancora». Svevo, intanto, sta partendo per Londra: veste gli abiti attivistici e garanti di un qualche successo acquisito nei bilanci della vita dell’industriale Ettore Schmitz.
L’estate del 1924 passa, passa l’autunno. A Natale Joyce invia a Svevo e alla sua famiglia la consueta cartolina di auguri, davvero generalizzati e generici: «ogni bene». Migliori auguri per l’anno nuovo provengono a metà gennaio. Il «devoto ammiratore» che scrive a Svevo da Parigi, rivolgendoglisi in italiano e chiamandolo Maestro, è Valery Larbaud. La lettera dell’11 gennaio 1925 si rivela ampiamente rievocativa: riassume per noi anche il «quasi silenzio» finora guadagnato da altri esemplari inviati di uno stesso libro. «Propaganda solamente orale, ma efficace, come Lei vedrà»: promesse per un romanzo, però, testualmente definito «ammirevole».
Svevo non mette tempo in mezzo: collabora. Il 15 gennaio, del tutto libero, grazie al suo puntiglio e alla sua agiatezza economica, da vincoli contrattuali con Cappelli («oro» e ideali come nella n. 4 delle Favole del dicembre 1897), lo scrittore può consegnarsi anima e corpo al suo critico: «Sono qui interamente a Sua disposizione per tutto quanto mi riguarda e per qualunque altra cosa se in questo cantuccio di terra ci fosse qualche cosa che potrebbe interessarla. Dico parole prive di senso intese a significare la mia gratitudine". Svevo è sufficientemente colpito: un «Suo devotissimo» in risposta a un già deferente «Suo devoto» è il minimo cenno di ricevuta che ci si possa aspettare da lui.
Ma anche un destino può ripetersi e aggravarsi: se non quello dell’ostilità (perché pensare così, Larbaud è stato chiaro, Joyce nonostante i suoi guai agli occhi è attivo, «sta bene e lavora»), quello del silenzio. È la «furia» dei vecchi, la fretta impaziente e l’urgenza di verifiche che li tallona «perché la legge di natura sui limiti di età incombe loro»: «Ebbene! - disse il buon vecchio. - Venga questa sera perché domani sono impedito» (La novella del buon vecchio e della bella fanciulla). Notiamo come con contabilità commerciale più che scrupolosa, piuttosto rigida, Svevo faccia passare in questa circostanza un mese esatto. Poi, il 16 febbraio,  prende carta e penna e scrive ancora a Larbaud, cui nel frattempo ha inviato i suoi precedenti romanzi. La colpevolizzazione personale è un nuovo modo di dimostrarsi deferenti, elegantemente e sobriamente preoccupati. L’ansia di riscontri, ciò nonostante, giunge ai paradossi esibizionistici di una affermazione del genere: «Raccomando la presente per poter esonerarla dal rispondermi». La dichiarazione di riconoscenza affidata al finale della lettera, poi, per esibirsi, disarmata e disarmante com’è, non ha bisogno di trucchi: «Io vivo ancora della Sua lettera. Non la feci vedere a nessuno. Così conserva meglio il suo valore».
Larbaud stavolta è tempestivo (risponde il 20): si scusa (è stato «occupatissimo»), ragguaglia ad abundantiam sui programmi della campagna intrapresa in favore dello scrittore: dà, come si dice, assicurazioni, anche se tutto può suonare, a chi riceve, decisamente ipotetico, vago, e soprattutto tremendamente dilazionato nel tempo: «forse cominceremo con un articolo, di uno di noi, sopra un giornale italiano questa estate»; per la Francia vale l’importante appuntamento di «Commerce», fascicolo di ottobre. L’impazienza, si assicura fra l’altro, non è solo dello scrittore, e il già «devoto ammiratore» diventa, a specchio di Svevo, «devotissimo».
Estate 1925 (forse), ottobre 1925. Per Svevo anche il mese computabile sulla base della sua ultima missiva, preoccupata e raccomandata, è lunghissimo, infinito: il 16 marzo, rispettando la scadenza mensile, si può tornare all’attacco. Svevo, che scrive adesso - si noti - in francese, coglie la «bonne occasion pour être rappelé à votre bon souvenir» dalla nomina a Cavaliere della Legion d’onore di Larbaud. Ed è soprattutto una variante tra la redazione definitiva della lettera e la più che mai necessaria minuta conservata nell’Archivio Svevo a rivelarsi indicativa di come il pretestuoso discorso formulato dallo scrittore per compiacere l’insignito Larbaud tenda inesorabilmente a riportare alla propria biografia: il distacco di Svevo vecchio dalla vita letteraria francese si trasforma (non solo per evitare spiacevoli ripetizioni contenutistiche) in distacco tout court dalla vita, più implicante e funzionalizzabile ad una propria immagine da imporre. Il legame periodale si rafforza, l’argomentazione segretamente suasoria affidata a informazioni si fa più stringente, e si può lodare meglio Larbaud: «Si vous saviez quel bouleversement ont produit dans ma vie vos deux lettres». Svevo ha riletto intanto Senilità, ha riletto Una vita: tempo e salute permettendo, dovrebbe soprattutto rifare il suo primo romanzo, «mal écrit». Comunica anche del suo doveroso aggiornamento in fatto di letteratura francese, cita il Proust che in molti citeranno per lui. 
Breve esitazione, e la lunga lettera è spedita. Nessuna risposta, silenzio: il carteggio parla così. Tre giorni dopo l’inoltro epistolare, tuttavia, di letteratura contemporanea in Francia si parla pubblicamente a Trieste, nel «cantuccio di terra» in cui Svevo resta - tutto sommato silenzioso anche lui, costretto al silenzio - a disposizione di Larbaud e di altri fantomatici artefici di celebrità. Il 19 marzo 1925, pubblicato dal quotidiano «La Sera», esce l’articolo-intervista di Dora Salvi Un instancabile italofilo: Benjamin Crémieux. Un articolo di giornale, in effetti, non è una lettera: non lo si può nascondere dentro un cassetto, non lo si può preservare gelosamente nel suo complesso e ambiguo valore vitale: un articolo va in pasto alla gente. L’intervistato - nonostante le ponderate e intimidatorie premesse di discrezione - divulga a sufficienza la sua idea di voler tradurre e lanciare in Francia un autore triestino ignorato persino nella propria città, un «secondo Proust»: « È necessario per ora il più assoluto silenzio affinché la rivelazione a suo tempo sia fulminea ed efficace [...]; vorrò essere io a rivelare questo italiano agli italiani. Se il suo stile non è puro, tradotto in francese, perderà il suo peccato d’origine ed egli apparirà, qual’è, un autore di genio». Crémieux afferma tra l’altro, ancora implicitamente, che la segnalazione gli è pervenuta da uno scrittore suo amico.
«Assoluto silenzio», «a suo tempo», anonimati di contorno, e ciò nonostante, senza mezze misure, «un autore di genio», di Trieste, da lanciare in Francia, da rivelare all’Italia. Tutte queste cose, dette e non dette, misteriose e inappellabili, appaiono su un giornale cittadino «poco letto». C’è di che essere contenti?, ci si chiede. È a questo punto sensibilissimo del suo itinerario di scrittore in attesa da una vita (da Una vita) del riconoscimento pubblico, di scrittore alle soglie della notorietà reso impaziente dalla vera vecchiaia di un’esistenza, che Svevo smette di rileggersi e di attendere lettere che non arrivano. Non l’inerzia che scolora in nostalgia, in nostalgica insoddisfazione anche del proprio passato fissatosi in caratteri di stampa. La sua strategia di risposta a promesse e silenzio che ancora ammantano la sua gloria (annunciata in loco prima che sia giunta a maturazione, e quindi tanto più compromessa, dolorosamente minacciata) si divarica esemplarmente. Il ricorso valutato efficiente è, in parallelo, a modalità che incrinino comunque la pericolosa situazione di stallo venutasi a creare: tale e quale la vecchiaia, preludio alla malattia mortale, quella davvero seguita da morte: preparazione a non muoversi più e a non sapersi più riposare, come in un pensiero acutissimo confluito in Pagine di diario e sparse, poi rielaborato in termini narrativi - lo accennavamo - in una riuscitissima, irresistibile pagina di Vino generoso. La morte, proprio così, risulta in agguato, paralizzando e agitando, combinando pasticci anticipati, talché tempo e salute si ripropongono come un binomio inscindibile, da sottolineare alle più varie articolazioni.
Si profilano due soluzioni. La prima: Svevo reagisce meglio del suo eroe romanzesco più disinvolto, più sicuro di sé: il più rappresentativo della propria condizione di pendolare tra Ettore Schmitz e Italo Svevo, il più attivo nonostante gli anni, il più agguerrito e vincente contro l’inerzia che fa combaciare una stagione della vita con la vita stessa. Svevo lascia passare (capiremo in che modo) marzo, aprile e maggio. In giugno, nelle vesti di Ettore Schmitz (recandosi come tale a Charlton in Inghilterra, in compagnia della moglie) decide di accertarsi di persona, empiricamente, con una sosta a Parigi, dello stato effettivo e dell’esistenza stessa della sua affaire Svevo data per imminente, divulgata per cronache a stampa e non passibile a questo punto di dilazioni o, peggio, di smentite. Ai primi di luglio, di ritorno dall’Inghilterra, l’opera di verifica e di stimolazione effettuabile attraverso incontri e contrattazioni risulta incrementata, perfezionata. «Io partirò di qui fra una settimana - annuncia Svevo da Londra a Larbaud, che nel frattempo ha risposto al ringraziamento del triestino per le tante gentilezze riservategli nell’accoglienza - e mi fermerò a Parigi per due o tre giorni. Poi vado a Gleichenberg (Austria) per una cura di 3 settimane di cui ho urgente bisogno». In realtà la cura di cui Svevo urgentemente necessita - chi scrive lo sa - è già svolta e si svolgerà ancora a Parigi: con esiti alterni (e comunque anti-inerziali), se Larbaud adesso risponde ma la Principessa di Bassiano, che a suo tempo aveva «regalato un sorriso» a Svevo a alla quale Svevo aveva prontamente inviato i suoi libri, non riceve lo scrittore. Si ordiscono inganni, porte e cancelli si chiudono. Ancora: dopo la «grande gentilezza» dimostrata dal Crémieux nel corso del secondo passaggio parigino, due lettere di Svevo al suo indirizzo rimangono poco gentilmente inevase. Risultato della prima soluzione, di tipo efficientistico-contrattuale: Svevo, a cui Crémieux aveva scritto il 22 giugno chiedendo pazienza e comporti di tempo, il 15 settembre si dimostra già disposto ad attaccarsi contemporaneamente ai ricordi di «giorni indimenticabili» e alla loro cancellazione: «Ma io il ricordo non voglio perderlo - scrive Larbaud - ed ecco che cerco Lei»; ma anche, ridimensionando il successo ad esperienza già soddisfatta: «Devo ammettere di aver esperito che anche l’insuccesso ha i suoi vantaggi. Io vivo qui restituito interamente alla mia pittura sottomarina e alla mia modestia. / Il successo (io lo ebbi per qualche ora e Lei lo sa) rende subito petulanti e invadenti coloro che non vi sono usi dalla gioventù: Un bambino di 64 anni non sopporta senza danno una cosa simile. Venga dunque a vedermi come sono ora. Vorrei cancellare il ricordo mio di quei giorni. Non ero io». E si noti soltanto come il «bambino di 64 anni», indubbiamente motivato in base a una poetica, aggiorni, rendendolo ancor più patetico e compassionevole, il «vecchio di 62» altrove autorizzato.
Il gioco riprende in effetti come prima: la risposta di Larbaud come al solito, si fa attendere. La lettera del 28 ottobre inizia per di più in maniera poco incoraggiante: «Cher Monsieur, le temps me manque pour vous écrire aussi longuement que je voudrais». Il tempo, insomma, manca a tutti. Da «Commerce» si è passati al «Navire d’Argent»; studio di Crémieux e traduzioni slittano «probablement» ad anno nuovo, gennaio 1926. Svevo a sua volta torna a stare al gioco, ripristina le parti stabilite: risponde immediatamente, il 3 novembre, e, sentendosi riconciliato con l’immagine di scrittore a lui più favorevole («Del letterato una persona è compiacente e lo acclama. L’altra è più dura e irride», secondo un appunto in Pagine di diario e sparse), si scusa per la sua «impazienza [...] veramente infantile», dichiara di non essere «ansioso di réclame o di gloria», di avere già ottenuto più di «quanto poteva sognare». «Adesso son buono per varii mesi e griderò aiuto quando mi sentirò crollare di nuovo». Merito, tutto questo, di Larbaud e - nuovo personaggio entrato in scena, fruttato dall’operazione Parigi - della signora Marie Anne Comnène, moglie di Crémieux a cui Svevo si è rivolto il 21 ottobre (Larbaud, come Crémieux, tacendo) nel tentativo di accerchiare il silenzioso, sfuggente, presumibilmente «troppo occupato» pure lui Benjamin. Anche i reiterati inviti a Trieste a cui Svevo borghesemente tiene sono caduti nel vuoto, si sono risolti in assenze ingiustificate e inquietanti: «Il tempo passa e non vedo nessuno» è il finale di lettera felicissimo, quanto mai efficace e poliedricamente allusivo, vittimistico. Se Larbaud e Crémieux non scrivono neppure cartoline, Svevo trova nella signora Marie Anne, finalmente, un corrispondente degno di tal nome. La signora Crémieux diventa «la metà di gran lunga migliore del signor Crémieux», l’unica strada per rimanere in contatto con i «grandi amici francesi» che, invece di sottrarre Svevo all’oblio come sarebbe loro dovere, finiscono con il turbargli i sonni.
Seconda soluzione al problema della gloria solo annunciata (mentre anche il problema delle varianti di Senilità trova preciso riscontro nelle pagine di Una burla riuscita). È una soluzione altrettanto parziale, da recuperare a ritroso, da rintracciare partendo proprio dalle lettere che nello scorcio del ’25 Svevo può inviare con una certa sicurezza di risposta a un destinatario francese. «Ma le assicuro - è la missiva del 17 novembre - che dopo la Sua lettera e quella di Larbaud io stavo già benissimo». Perché? Perché Svevo - lo spiega lui stesso a ruota - sta e stava scrivendo non lettere ma una novella «lunga come una serpe lunghissima», tra le cui spire si sente allontanato da ogni forma di deleteria letteratura come «commercio di libri». È la rinuncia della letteratura che ad inizio dei cosiddetti anni del silenzio Svevo aveva già sottoscritto: la riconferma dei valori più resistenti in cui continuare a credere, l’unica misura di igiene cui con fiducia, quotidianamente, attendere.
In realtà, per quanto Svevo parli di caratterizzante inattività scrittoria nel periodo che separa la pubblicazione della Coscienza dall’attualità (così nella lettera a Larbaud del 3 novembre 1925: «Passai questi tre anni dalla pubblicazione del romanzo senza far nulla. Incuorato dopo la mia prima visita a Parigi, cominciai a Londra una lunghissima novella: Corto viaggio sentimentale»), non è con Corto viaggio sentimentale che Svevo è tornato letterariamente a confessarsi e a curarsi, a tentare di risolvere in questi termini le «rane» in lui sistematicamente prodotte anche dalla gloria nascente. Proprio nel momento più incerto e compromesso della incipiente affaire Svevo, la strategia più segreta ed incisiva a cui l’autore fa riferimento, dissociando più radicalmente Svevo dall’industriale Schmitz, consiste nell’esercizio narrativo, nella proiezione di se stesso in un nuovo personaggio letterario: uno scrittore ultrasessantenne, rimasto povero, inetto e declassato a un ruolo impiegatizio di basso livello, non sposatosi ma illuso nei suoi sogni di gloria, protetto dal «cantuccio» familiare, dalla stanza in cui vive, scrivendo disinteressatamente favole clandestine e rileggendo il suo giovanile romanzo Una giovinezza a un fratello ammalato. Un’altra possibilità vitale autorizzata dalla letteratura, un’altra evenienza prevista  e aggravata anche nei termini sintetici di un apologo con finale cruento già scritto: «Senza propria colpa un uomo perdette le proprie sostanze e cadde nella più dura indigenza. Già avanzato in età non aveva speranze di rialzare mai più la testa. Eppure visse. Spesso desiderò la morte, mai, però la disperazione fu bastante ad armargli la mano contro sé stesso. / Un giorno s’imbatté in Erberto Spencer che gli spiegò come la sua aventura fosse evidentemente la conseguenza della sua incapacità e come non meritasse né compassione né aiuto perché l’aiuto dato a lui avrebbe corrotta la legge sociale che vuol la soppresssione del vinto. / Allora, appena, in via di conclusione, il povero uomo si uccise» (Favole).
È il momento, adesso, di Una burla riuscita, una novella che se nell’impostazione del personaggio protagonista Mario Samigli («ammalato per la lunga, vana attesa» della gloria) sottintende una piattaforma di carattere autobiografico di tipo, diciamo così, generale, addirittura biograficamente regressivo, ben più da vicino rimanda, nella dinamica stessa degli accadimenti in cui il personaggio è calato, a un’attualità strettissima, puntuale e bruciante, della biografia sveviana databile primi mesi del 1925, e più in particolare post 19 marzo 1925. Il discorso della duplice reazione che dicevamo sarà in qualche modo suffragato da Svevo stesso negli scambi epistolari finalmente regolarizzatisi tra lui e i suoi patroni stranieri. Ma il valore terapeutico cui Svevo fa esplicito riferimento nella lettera al Crémieux del 15 marzo 1927 («mi consolai scrivendo») risulta preminente, rinviando al silenzio fattosi intollerabile e poi addirittura angoscioso («lungo tempo», ricorda Svevo a due anni di distanza) di quei mesi del ’25: di quei mesi pesanti, specialmente, intercorsi tra la pubblicazione dell’articolo della Salvi sulla «Sera» di Trieste e l’intervento parigino di Svevo. «La pensai - confessa Svevo a difesa della sua novella - quando quella giornalista triestina invase la Sua abitazione e scrisse a Trieste. [...] La feci e la rifeci ed è quello che è, né potrebbe da me essere migliorata».

 

Fu vera gloria?

Con un avvilente rifiuto di pubblicazione, l’aggiornamento dei significati di cui Una burla riuscita si fa depositaria porta al 1927 e oltre («Se non serve ad altro la mia novella su quel povero Samigli può darle la prova di come io aspetti la traduzione del mio libro. [...] Se la Burla [...] non potesse essere piazzata, ne conserverei la traduzione come un caro ricordo», così nella citata lettera al Crémieux del 15 marzo). L’assimilazione stessa di materiali integrativi e i nuovi svolgimenti richiesti portano, d’altra parte, alla procrastinata datazione in calce della redazione definitiva: «14 ottobre 1926». Una burla riuscita, dunque, come la favola rassicurante, fatta e rifatta, scritta e riscritta, cui anche Svevo, come il Samigli, si affida a protezione dei suoi sogni e delle vicende che li accompagnano. Diventati parzialmente realtà, ingigantiti costantemente dall’attesa e dalla loro imminenza attuativa, anche i sogni si rivelano fonte di dolore; anche il sogno letterario nel suo complesso, per non perdere di purezza, consente solo di tornare a percorrere queste strade paradossali, comiche e patetiche, del «rifiuto della letteratura» e della vera conoscenza. Una burla riuscita come la favola di un grigio scrittore di favole divaricato tra azione e parole, affetto da sindrome di riconoscimento, tradito dalla propria ingenuità; come una cronaca che per finzioni e per interposta persona ingloba e salvaguarda il problematico, incredibile e mai del tutto arrivato, successo di Italo Svevo: un’altra gabbia, «gabbia d’oro» ma gabbia, non immune da danni alla salute veri o presunti.
«L’aggettivo di burlato - scrive Svevo nella novella che solo nel 1928 vedrà la luce su «Solaria» - non s’attaglia in pieno con la vittima di una burla che abiti una città non grande abbastanza per correre le vie sicuro, cioè sconosciuto. Ogni sua nota debolezza lo accompagna per via insieme alla sua ombra. [...] Ognuno ha il suo destino quaggiù, ma, quand’è noto a tutti, si rincrudisce per un incontro, per un’occhiata. Mai più si sarebbe potuto liberare dal marchio di quella burla». Ecco in filigrana, mentre i confini di Trieste si allargano e si riconfermano duramente proprio quelli, i profili di Joyce, di Larbaud, di Crémieux, del mitico editore Gallimard incontrato nel luglio del ’26: «Egli respirò profondamente, e gli sembrò che mai in vita sua avesse avuto di quell’aria. Tentò di sedare la grande agitazione che lo affannava e si sforzò di considerare quell’avvenimento come cosa nient’affatto straordinaria. Semplicemente la meritava e gli accadeva, ciò ch’era la cosa più naturale di questo mondo. Era straordinario che non gli fosse accaduta prima. Tutta la storia della letteratura era zeppa di uomini celebri, e non già dalla nascita. A un dato momento era capitato da loro il critico veramente importante (barba bianca, fronte alta, occhi penetranti) oppure l’uomo d’affari accorto, [...] ed essi subito assurgevano alla fama. [...] E finché durò la burla, egli sognò di tale critico, ne costruì l’aspetto e l’indole, attribuendogli tante di quelle virtù e tanti di quei difetti da farne una persona più grossa delle solite viventi. [...] Egli non cianciava, ma agiva [...]. Era più sicuro dei soliti critici, perché non era soggetto che ad un errore solo (piuttosto grosso) e non a tanti da riempirne varie colonnine di giornale. Una potenza! [...] Dopo letto il romanzo del Samigli, il critico era andato dal Westermann e gli aveva detto: - Ecco l’opera che fa per voi. Vi consiglio d’acquistarla a qualunque prezzo. Così il suo compito era esaurito. Che cosa gli sarebbe costato d’inviare al Samigli una cartolina postale per dirgli la parola intelligente ch’egli solo era capace di formulare? Così, proprio così era fatto il miglior critico del mondo». Ecco, minimamente variato, il riserbo a doppio fondo - incrementato dall’intervista della «Sera» al Crémieux - con cui Svevo tiene segreta la prima lettera che Larbaud gli ha scritto: «Per il momento non bisognava dire a nessuno della buona fortuna toccatagli. Quando il suo libro fosse stato pubblicato in tedesco, la meraviglia in città e in tutta la nazione sarebbe stata maggiore se inaspettata»; ecco le esortazioni alla pazienza (ai nervi saldi) che persino Svevo riesce a rivolgere a se stesso: «A lui che aveva atteso il successo per tanti anni, non doveva essere grave di restarne privo qualche tempo ancora».
Si affacciano presto anche le preoccupazioni stilistiche legate ad obbligate riletture di se stesso, che impongono allo scrittore «circa celebre» persecuzioni a base di voluminosi e pesanti «Riguttini» e «Fornacciari», dubbi, consultazioni vocabolaristiche affannose, vere e proprie ricerche di soccorsi esterni come sarà, ancora tra il ’25 e il ’26, nel ritorno al passato di Senilità, con un parente (il genero Antonio Fonda Savio) e con il professore e studioso triestino Marino Szombathely: «Rifattosi vivo, il romanzo provocava la critica inquietante di Mario. Ad ogni tratto il lettore s’interrompeva per domandare: - Non sarebbe meglio dire altrimenti? - E proponeva nuove parole, esigendo che il povero Giulio l’aiutasse a decidere». Ed ecco infine, ritornante, l’impazienza disposta a tutto, comprese le forme della retorica e del «saper vivere», che i corrispondenti francesi di Svevo rilevano come una fastidiosa prerogativa dello scrittore che hanno rassicurato abbastanza di volere scoprire: «Dapprima emise il dubbio che Westermann si sarebbe potuto seccare di tante pretese [...]. Attendere ancora? Che cosa avrebbe fatto tutto quel tempo? Le favole non si fanno che in giornate ricche di sorprese. Aspettare è un’avventura, anzi una sventura sola, e può dare una favola sola, ch’egli aveva già fatta: la storia di quel passero che moriva di fame aspettando del pane là ove, per caso, una volta ne era stato sparso [...]. Mario era esitante. Cercò e non trovò qualche altra parola (non troppo forte) per insistere nella propria preghiera. E ci fu perciò un’altra pausa nelle trattative».
Potremmo continuare ad estrapolare, a ridurre a cronaca giornaliera brani e funzioni più o meno sotterranee svolte dalla novella, sino a quel «Mentitori!» di presa di coscienza riabilitante, sino al «manrovescio enorme» (ci ricordiamo immediatamente dello schiaffo subìto da Zeno al capezzale del padre) di cui il Samigli inaspettatamente, alla fine, si dimostra capace. Ma basterà riassumere in questi termini l’obbiettivo della strategia letteraria continuativamente ritenuta valida, ripresa, rielaborata: l’incubo fugato attraverso la scrittura è che la verità (freudianamente notturna, elementarmete e liberamente esplicitata da «alti gridi») di «meritare altro, di meritare meglio» possa risolversi in quel mondo diurno, di «dolore» e di «ira», ritrovato al risveglio: «Il mondo, ove tuttavia imperversava la bora sotto un cielo fosco, gli appariva ben triste, perché la letteratura è una cosa che si vende e si compra».
  Epilogo. Esce finalmente, in luogo del prima previsto fascicolo della rivista «Commerce», il «Navire d’Argent» (ambiguità dei titoli). «Esimia Signora e cara amica - scrive Svevo a Marie Anne Comnène all’indomani della pubblicazione del numero e della risonanza da esso provocata in Italia (dove già, nel frattempo, il giovane Montale ha inaugurato nel dicembre del ’25 il «caso Svevo») -, chi Le scrive ora è un uomo circa celebre. [...] A Trieste - persino - cominciano a compiacersi di avermi fra di loro...ancora per breve tempo. / Se le dicessi che stavo meglio prima, Le direi una bugia perché ricordo la mia torva impazienza che m’induceva di seccare il prossimo. Posso dirLe però che allora mi figuravo che ora sarei stato meglio di quanto ora sto. Si vede da me che a questo mondo non si sta mai bene. Dicono che da ciò viene il progresso. / Ed io voglio il progresso!». Ma anche in questa sede epistolare in apparenza pacificata, sotto il segno dell’accettazione e della saggezza, la «torva»-«infantile impazienza» di Svevo-Schmitz-Samigli non può essere promossa ad etichetta inventariale di un periodo conchiuso, di un episodio una volta per tutte esaurito e archiviabile. Svevo vuole il progresso. «Lavorerebbe Lei alla traduzione? Se sì, non perda tempo ma mandi una cartolina vuota magari senza firma». E si noti come anche l’aspettativa scherzosamente avanzata, davvero minimale, di un’allusiva cartolina priva di parole che valga da muto riscontro, serva a decantare una situazione altrove dolorosa, tutt’altro che sotto controllo.
L’ansia non si placa, la storia o meglio le storie continuano, procedendo su binari paralleli, dandosi efficacemente il cambio, influenzandosi a vicenda. Persino un’altra novella, una «vecchia novella» come La madre (così dal carteggio con Montale, lettera del 24 gennaio 1927) vede attualizzati, ampliati e specificati i suoi molteplici, pessimistici significati allegorici affidati alla storia dell’inconsapevole e sventurato pulcino Curra, tanto da far apparire come del tutto pertinente e sottoscrivibile una chiave interpretativa proposta da Maier nell’introdurre i Racconti: «quella «dolorosa convinzione di sentirsi incompreso e trascurato dalla critica che non lo abbandonò completamente nemmeno dopo la "scoperta" montaliana del 1925 e il numero di omaggio del "Navire d’argent"».
«Si capisce che una cosa immaginata con tanta precisione non abbia bisogno di succedere», rincalza d’altra parte lo scrittore coevo, rabdomante non sedato, non indenne da agitazione, sfortunatamente dotato di troppo energica capacità di sentire e presentire (Pagine di diario e sparse). In altri termini, quel «circa celebre» di un’autodefinizione all’insegna della fama e dell’ironia non si risolve in un espediente per divertire una signora a cui si deve riconoscenza o in un’abile risorsa per poter continuare, compiacendo, a chiedere: il simpatico Svevo - come il tenacissimo Alfieri che crede a un vecchio alato - è troppo «ingegnoso nemico di se stesso» per potersi accontentare di questo. Il prosieguo delle corrispondenze suggerisce piuttosto, fino all’ultimo, il miraggio (insalutare anch’esso non appena divenuto realtà) di una tranquillità conquistata vuoi con il sempre riabilitante grande lavoro commerciale, vuoi con l’anonimato e la vantabile serenità degli affetti, vuoi con il successo letterario, che ha però l’identico sapore poco gradevole delle vernici sottomarine e dei crucci familiari, e può essere talvolta, non usufruendo di antidoti, velenoso.
«In fondo io sto abbastanza bene ed è certo che il successo mi fece piuttosto bene», afferma conclusivamente Svevo, ancora ricorrendo a cautele avverbiali nell’accettare nel 1928, se non l’immaginata banda alla stazione ad attenderlo, l’invito del Pen Club a Parigi: nuovi soggiorni salutistici, come la signora Crémieux ha svevianamente ben capito, nuova gioventù sostitutiva, magramente compensatoria, da accettare anch’essa - come tutta la vita - tra rassegnazione e protesta, pessimismo e ironia: « È vero che in fondo - si nota per inciso perfino alla vigilia della consacrazione - che non c’è alcun segno (fuori delle Sue parole) che io vi sia desiderato». Non ci sarà la «banda alla stazione» ad attendere lo scrittore italiano rivelato, e farmaci miracolosi e «specifici del dottor Menghi» - dai blandissimi liquerizia e bromuro alle teorie di Freud -, sembrano in effetti non esistere: come nel finale di quel racconto, un applauso può far ringiovanire, ma non chi con tanto zelo si è dato alla ricerca della misteriosa sostanza dell’«annina». O la gloria sarà deliberatamente sottoposta a rinuncia , come ancora previsto dallo Specifico del dottor Menghi, per la gravità stessa della scoperta effettuata?
L’aprotagonismo biologico con il quale la vecchiaia prelude alla morte ha pure i suoi pregi, se saputo prendere. Il successo forse non c’è mai stato, forse è stato uno svagolamento della mente di un vecchio o un’astuta trovata di Svevo stesso - ibrido autobiografo di propri casi letterari, fino alla critica sostituita e all’autobiografia delegata all’aiuto di altri - per vivacizzare la Prefazione alla seconda edizione di Senilità e il Profilo del ’28. «Risi di cuore - si legge in una lettera di poco anteriore al letale incidente di Motta di Livenza - che ieri sul "Corr. d. Sera" Borgese rimproverava Crémieux di non essersi occupato nel suo Panorama abbastanza di me. A lui non vanno che rimproveri». Adesso all’illustre italianisant su cui anche Svevo ha scritto un articolo si può dare comodamente di «pigrone», e non tanto perché lui, facendo male il suo mestiere non ha scritto subito su Svevo, quanto perché non si decide mai a recarsi a Trieste, ospite di un gentile signore che semplicemente, da più di tre anni, gli sta ripetendo l’invito. Svevo, là, ancora vive e scrive, curioso di sé e sufficientemente convinto che anche il successo, come la vita, non è né bello né brutto: «originale» - secondo la parola sfuggita al padre morente, trovata e pronunciata da Zeno con implicazioni originalmente conciliative in faccia al Guido della Coscienza e compiutamente realizzata da un’intera formidabile opera letteraria -, come una burla non tutta da inventare, di cui per questo si possono conoscere solo in parte modalità e circostanze, moventi e responsabili. Sulla propria letteratura non meno che sulle analisi di Sigmund Freud, Svevo è disposto addirittura a dubitare in blocco, a dire conclusivamente, rilanciando il problema della vita e della sua permanente inesplicabilità: «Io non ci credo», come si dice di «certe ideucce che ci capitano nel riposo» in una «scribacchiatura» silenziosa, a margine. Oppure, come si dice nella Coscienza: «Io chiudo gli occhi e vedo subito puro, infantile, ingenuo, il mio amore per mia madre, il mio rispetto ed il grande mio affetto per mio padre».

 

Inguaribilità della vita

Scomparsi i suoni dei festeggiamenti parigini per i quali l’autore potrebbe continuare a vivere come anni prima aveva vissuto per una lettera, abituato anche da Parigi vista per l’ultima volta allo studio solitario di cani per le strade, Svevo, tra pittura sottomarina e un romanzo lasciato incompiuto in cui di nuovo scrittura e purganti si allineano, si congeda riconoscendo: «E così questi miei ultimi anni o mesi vanno via anche più inerti di quanto mi sarei aspettato».
È con questa immagine terminale di Svevo per le strade di Parigi, solo e  in compagnia di qualche cane (un’immagine che accresce per contrasto il suo fascino, allorché della letteratura di Svevo, attraverso il festeggiamento, proprio lì si sono ufficializzati un accoglimento e un riconoscimento pubblico densi di prospettive), che lo scrittore esce di scena e torna a scrivere. Si pensa al Tozzi di Bestie e del cane Toppa di Con gli occhi chiusi, si pensa a Svevo autore di un racconto come Argo e il suo padrone e di favole animalesche, sue, nonché - con sintomatiche sovrammissioni per reimpiego - di Zeno Cosini e di Mario Samigli; si pensa addirittura a D’Annunzio (il detestabile, antipatico D’Annunzio), alla stupenda poesia che qualche anno dopo, nel 1935, saprà dedicare ai suoi cani, facendo di essi, visionariamente e per sostanziale parificazione di destini, famelici roditori sepolti dei loro ossi e del nulla. Una Parigi all’alba, desertificata, periferica e «domenicale», allegoria di un’umanità vacante, inattiva e irrintracciabile, di una vita sopravvissuta. Svevo e le sue creature di carta si allontanano, scompaiono dal nostro sguardo, si ricongiungono al loro «doppio» biografico di partenza. Restano biograficamente gli ultimi giorni di vacanza in compagnia della moglie e di un nipotino, un incidente automobilistico, le parole estreme di un borghese e affettuoso pater familias, rassicuranti e familiarmente dialettali ancorché impossibilitate all’inaugurazione - nonostante l’Imitation di Livia e una protratta polemica religiosa che debolmente si riattiva anche al letto di morte - di un dialogo ripartore: un Dio sempre escluso, un Dio ebreo o cristiano anche recentemente irriso in una lettera alla Comnène, al massimo un «Dio degli avi», un «qualcuno» contraddittoriamente invocato da un personaggio romanzesco - Zeno - in raccomandazione dell’anima di un altro.
«Non più braccia da levare al cielo - scriveva Svevo il 10 ottobre 1899, intendendo laicamente per cielo, come in un’ironica lettera alla moglie, solo «quello stellato o annuvolato» - , non piedi per fuggire, non occhi per piangere, né mobilità di fisionomia. Il dolore in solitudine perfetta senza la coscienza per cribarlo senza speranza. Nei sensi ottusi si asside trionfante e il sollievo - la morte della bestia - capita inaspettatamente. Ultimo ricordo della vita resta il dolore solitario». A proposito della morte, del resto, il suo esercizio letterario ha alla fine previsto tutto o quasi: per il se stesso che alle finzioni e alle menzogne della scrittura si è fiduciosamente affidato (lasciamo le verifiche testuali e la sorpresa al lettore di questa «vita scritta»), e per il mondo. Resta, appunto, un’opera: una grande opera, un’opera tra le maggiori della letteratura italiana del Novecento, nelle cui pagine destinate a durare e a valere risuonano parole che citavamo quasi ad inizio del nostro discorso, e che sembrano ora assumere un significato diverso, più intimo e profondo: « È certo ch’io feci tutto quello che vi è raccontato, ma leggendone, mi sembra più importante della mia vita che io credo sia stata lunga e vuota».
Dal vuoto e dalla solitudine era nata la letteratura di Svevo, il vuoto e la solitudine avevano deciso di volontaristici allontanamenti da essa e di ricadute nel vizio. E due figure continuano in definitiva a fronteggiarsi: uno Svevo che presume di poter escludere la letteratura come una cosa dannosa e di poterle sostituire un’appartata, igienica ed autoterapeutica confessione asistematicamente diaristica, e uno Svevo che in realtà non smette di pensare a una divulgazione del suo messaggio formalizzatosi in scrittura: magari forme spurie, declassate, ma mai del tutto sottratte ad un impegno, a una progettualità e una speranza di valore più ampio. La «seconda nascita» per Svevo, a un certo punto e una volta per tutte, è avvenuta: letteraria, e compiutamente tale presupponendo, oltre che un suo passato biografico di vorace consumatore di libri e finzioni romanzesche, un pubblico non commerciale di lettori cui rivolgersi. Fin dai tempi di Sogni di Natale, in un articolo apparso sull’«Indipendente» del 22 dicembre 1889, E. Samigli testimonia di avere fatto precocemente della propria vita (prima dell’incontro esperenziale con un altro vagheggiato fantasma del suo anelito al riscatto: la salutare e completa donna da amare) letteratura, suicidandosi per amore e sogni, a tredici anni, come il romantico Werther goethiano, e confabulando di lì a poco, risorto, con il sommo Dante circa l’opportunità di potere letterariamente inscenare, in luogo del solo auspicabile e spolpato Paradiso, un’altrettanto mutila e ben poco divina Commedia, prosaicamente a base di solo Inferno.
Al «vivi celato», voce di Epicuro (in realtà, precisamente, di Epitteto), viene presto a contrapporsi un irrefrenabile sogno di gloria, un desiderio di distinzione e di riconoscimento testimoniato efficientissimo già dalle preziose note «in diretta» del Diario di Elio: proprio fra queste pagine, prima di diventare E. Samigli, Svevo si chiama Erode ed E. Mugliano. È giocoforza, dunque, che anche successivamente la segretezza sia stata infranta, che al «silenzio» autoimposto abbiano fatto seguito «scribacchiature» quotidiane e, con esse e in esse, un’opera che non tace, una vita costantemente in cerca di altri suoi eventi narrabili e di sue forme che le conferiscano senso: di racconto. E tuttavia il vuoto e la solitudine sembrano per altro verso non essersi mai spezzati. Anche le favole che dicevamo - disimpegnate improvvisazioni all’Esopo, minime «operette morali» del riserbo e della privatezza - sono intrise di morte: il loro insegnamento non è risolutivo, la loro morale inamidata non placa ma riattiva semmai, come in Mario Samigli, la ricerca di nuove favole. Leopardiane «mummiette», esse confermano, con la loro scrittura leggera e sentenziosa, il sospetto che tutto l’esistente nasca con il pianto, e che all’uomo cosciente spetti la convinta, inappellabile consapevolezza che alla malattia della vita non si sfugge. Svevo a Parigi, una mattina, solo e in compagnia di cani... La previsione, la profezia (o è già il day after?) si completa leopardianamente, cosmicamente, nel famoso finale della Coscienza di Zeno. L’«errore antroprocentrico» di «credere che l’uomo possa andare immune dalla morte catastrofica» è scongiurato (Ottimismo e pessimismo), ogni concezione umanistica - si veda anche, tra i saggi, La corruzione dell’anima - radicalmente messa in crisi, sfiduciata.
In un testo come Considerazioni attuali sulla guerra e la morte. Caducità, secondo l’antinomia scienza-arte o filosofia-arte presente a più riprese nella riflessione di Svevo,la caducità è vista oppositivamente da Freud con gli occhi del poeta e con quelli dello psicologo. Anche il poeta, obietteremo in nome del laico e antilirico Svevo, facendo seguire qualcosa di positivo e di propositivo al disgusto del mondo si ribella, costruisce letterariamente, con il ricorso alle sue parole semplici e complesse, la propria alternativa: la anima, la alimenta. Nel suo oltranzismo creativo che è già confidenza riposta in valori, il poeta si dimentica - come avviene mirabilmente nel Leopardi estremo - di sé: supera svevianamente il bello o il brutto della vita nella scoperta di un’«originalità» strana e straordinaria che gli consente, sottintendendo l’accettazione della morte e dando per scontata la propria scomparsa, di riaprire di continuo un discorso sugli uomini e sulle cose.
Le modalità e le strategie della conoscenza letteraria che dal mistero dell’io si dipartono per investire il reale potranno presentarsi, come la scrittura di Svevo insegna, in accezioni estremamente variate e divise: dalla concentrazione più raccolta alla più sistematica dispersione. Ma da vicino, non appena sotto la lente di chi scientificamente scevera e indaga o sotto la penna dello scrittore pessimista in rivolta, le leopardiane «meravigliose larve» torneranno a rivelare la loro vera identità: si mostreranno per quel che sono, ci faranno capire senza idealizzazioni e inutili infingimenti, in un quadro antiantropocentrico privo di privilegi e aperto alla vita universa, quello che siamo.
Scrive Svevo in Soggiorno londinese: «Ora io credo di sapere qualche cosa a questo mondo: Su me stesso. Gli antichi facevano un gran caso del fatto che anche il proprio io è un mistero. Ma anche ogni altra cosa vivente è misteriosa e l’accesso ad essa è ben più difficile che al proprio essere». Dall’io al mondo: un’opera di decifrazione e comprensione impervia ma potenzialmente solidarizzante, già indirizzata alla compassione di ogni aspetto dell’esistente e in ciò remunerativa. Partito da tali premesse e giunto fortificato e cosciente a queste resultanze, Svevo continua a raccontarci una delle sue tante storie, magari la sua vita: a ciglio asciutto, però, con il sorriso sulle labbra.

(Introduzione a Vita scritta di Italo Svevo, Le Lettere, 1998, poi in Novecento. Nuovi sondaggi, Le Lettere, 2004)

 

Marco Marchi insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. Ha esordito come saggista nel 1978 con Sul primo Montale, edito da Vallecchi, e ha curato per Mondadori il «Meridiano» delle Opere di Tozzi (1987). Tra i suoi libri: Palazzeschi e altri sondaggi (1996), Vita scritta di Federigo Tozzi e Vita scritta di Italo Svevo (1997 e 1998), Invito alla lettura di Mario Luzi (1998), D’Annunzio a Firenze e altri studi (2000), I mondi di Loria (2002), Novecento. Nuovi sondaggi (2004), Immagine di Tozzi (2007), Altro Novecento (2009), In breve (2010), Per Luzi (2012). Ha curato importanti edizioni, antologie e mostre documentarie. Autore di «drammaturgie critiche», ha scritto testi scenici per Piera degli Esposti, Marco Balani, Iaia Forte e David Riondino.