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Anno 2013
  Elena Gori
 
Una poesia pascoliana: ‘Il naufrago’
 
 

Elena GoriÈ il dicembre del 1906 quando Giovanni Pascoli pubblica per la prima volta il poemetto Il naufrago sulle pagine della rivista fiorentina «Il Marzocco». Dovranno però trascorrere circa tre anni perché il poeta gli riservi, nel 1909, definitiva sistemazione nella editio princeps dei Nuovi poemetti per i tipi di Zanichelli.
Tale raccolta si configura come prosecuzione della vicenda romanzesca a sfondo campestre già affrontata nei precedenti Poemetti e riguardante episodi di vita di una famiglia garfagnanina e della primogenita Rosa, corteggiata dall’innamorato Rigo. Questo nucleo principale, in cui è facile rintracciare ricordi personali e altre impronte della biografia del poeta, è intervallato da due sottoinsiemi di componimenti a carattere meditativo-esistenziale o cosmico. Fra questi uno dei più riusciti è certamente Il naufrago, nato non “di getto” – come Ferdinando Durand aveva sostenuto ne I motivi profondi della poesia pascoliana (D’Anna, Messina-Firenze, 1969, p. 92) – ma da una complessa gestazione oggi ripercorribile grazie agli studi di Cesare Garboli e Renato Aymone.
Garboli non solo include la suddetta lirica nel suo progetto editoriale, comprendente una selezione di Poesie e prose scelte (Milano, Mondadori, 2002, 2 voll.) di Pascoli, ma ne ripristina – per quanto possibile – il primo testimone, assai diverso dal successivo da cui poco discosta la lezione definitiva. Primo testimone – a suo dire – «molto più interessante» fin dallo scenario iniziale, caratterizzato dalla «figura di un esule solitario issato “sopra uno scoglio alto sul mare”, in guerra col mondo e in aperta sfida con la calma e ondosa distesa oceanica. Un’irosa apostrofe dell’esule solleva le onde e incattivisce il cielo; si addensano le nuvole, scoppia una bufera notturna, finché all’alba il mare ritornato calmo sommerge e trascina il poveretto come un’alga. L’ignoto provocatore si è trasformato in naufrago» (ivi, p. 1412). Sebbene la lettura del testimone divenga praticamente impossibile a partire dalla quarta terzina a causa delle numerose lacune, lo studioso apprezza la buona qualità di questi versi marcatamente romantici; versi il cui contenuto, come ben sottolinea lo stesso Garboli, sorprendentemente equivale sul piano verbale al «Viaggiatore sul mare delle nuvole», celeberrimo dipinto di Friedrich che a partire dal 1818 incarna appunto lo spirito del Romanticismo.
Aymone, curatore dei Nuovi poemetti pubblicati da Mondadori negli «Oscar classici», più cautamente di Garboli evita ogni paragone fra testimoni e considera «di indubbio rilievo l’antefatto autografo […], ispirato a un’esemplare figura titanica» (Note, in GIOVANNI PASCOLI, Nuovi poemetti, Milano, Mondadori, 2003, p. 101). Proprio questo titanismo viene meno nella versione definitiva della poesia. Nel poemetto, costituito da quattro sezioni ciascuna delle quali si compone di tre terzine dantesche più un endecasillabo, l’immagine dell’esule, altèra e impavida nel precedente incipit, cede il passo ad un indistinto «lui» che il mare all’alba ha ormai abbandonato esanime sulla riva. Lo stesso mare, «cattivo» (v. 1) durante il «buio» (v. 2) della notte tempestosa ormai trascorsa e icasticamente incorniciata nei soli due versi iniziali, appare «ora» (v. 2) ammansito dalla luce aurorale che tinge di rosa e d’oro la sua «bava» (vv. 3, 5) venendo così a costituire la nota cromatica dominante. All’urlo marino è infine subentrato il più dolce «sussurro» delle onde, il cui lento succedersi con moto incessante risulta evidenziato dall’allitterante «vengono e vanno» del v. 7 e subito dopo rimarcato dal sintagma «l’una dopo l’altra», che ne indica la ripetitività.
Altra differenza da non sottovalutare rispetto al precedente testimone è costituita dall’incalzare delle domande che le onde, palesemente personificate, all’inizio della seconda sezione, rivolgono al naufrago: «- Chi è? Non so. Chi sei? Che fai? Più nulla. / Dorme? Non so. Sì: non si muove» (vv. 11-12). Si noti innanzitutto come le brevi proposizioni, interrogative e non, si accumulino in modo tale da scandire il ritmo con cui le onde si susseguono. Ma si badi anche a come lo sguardo dell’autore si posa su di loro: siamo ben lontani dalla «silenziosa luna» a cui il pastore leopardiano inutilmente si rivolge. In questo caso, infatti, sono le onde stesse a rivolgere la parola – non senza intenzione dialogica – al naufrago, quasi a dimostrarsi presenze curiose e amichevoli nei riguardi dell’essere umano. Un’ottica, a pensarci bene, tutta pascoliana, che vede la Natura non tanto nelle vesti di «matrigna» ma – come risulta più chiaro procedendo nella lettura e in piena consonanza con la poetica del nostro autore – di «madre».  In questo senso, il fatto che le onde accolgano il corpo del naufrago e bacino i suoi occhi aperti non costituisce affatto un elemento lirico-esornativo, ma avvalora quanto sostenuto da Antonio M. Girardi che, cogliendo la distanza che separa Pascoli da Leopardi, sottolinea come per il primo la Natura sia «madre dolcissima che anche nello spegnerci sembra ci culli e ci addormenti» (Due «Nuovi poemetti»: «Il naufrago» e «Il cuculo», in «Rivista pascoliana», 10, 1998, p. 54).
Il sostrato comune agli interrogativi posti al naufrago e alle domande leopardiane rivolte alla luna è piuttosto costituito dalla matrice puramente esistenziale. Procedendo nella lettura del poemetto ci si accorge che il destino delle onde non è in realtà dissimile da quello dell’anonimo esule e, più in generale, dell’uomo: «E tu chi sei? Noi, quasi miti schiave, / moviamo insieme, noi moriamo insieme / costì con un rammarichio soave… // Siamo onde, onda che canta, onda che geme…» (vv. 16-20). Il succedersi dei flutti – come più volte è stato notato dalla critica – non è che una grande metafora del progressivo avvicendarsi delle generazioni umane: se le une sono sospinte verso la riva dal vento, le altre sono indotte verso la morte inesorabile dal comune destino. Pertanto ben si adattano a Il naufrago le considerazioni di Giuseppe Nava a proposito del motto virgiliano «paulo maiora», anteposto da Pascoli ai Poemetti del 1904 e secondo lo studioso allusivo «di un contenuto più alto, di rappresentazione della condizione dell’uomo e di riflessione sui grandi temi della vanità della vita e della ineluttabilità della morte, sola vera realtà, che annulla ogni idea di progresso e persino di movimento, come è fissato dal mirabile ossimoro del Vischio […], “fuggendo immobilmente” […], di cui si ricorderà Montale nell’“immoto andare” di Arsenio» (Giovanni Pascoli, in Storia della letteratura italiana, diretta da ENRICO MALATO, VIII, Tra l’Otto e il Novecento, Roma, Salerno, 1999, p. 668). Pascoli dà allora asilo nella sua lirica ad una cifra esistenziale che muove dal pensiero leopardiano per approdare agli esiti migliori del nostro Novecento e si orienta dunque nella direzione di una modernità che sembra giungere ben al di là del romanticismo comunque suggestivo connotante il primo testimone de Il naufrago.
Non si esaurisce del resto a Leopardi il novero di filtri culturali a cui Pascoli, in maniera più o meno scoperta e consapevole, attinge. Basti pensare per esempio che la metafora del naufragio della vita la si ritrova ne Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer (cfr. ANTONIO M. GIRARDI, op. cit., p. 47), molto apprezzato dal poeta di San Mauro. Secondo il filosofo, l’esistenza è un mare tempestoso disseminato di ostacoli che mettono continuamente a repentaglio l’uomo, il quale, pur evitandoli con prudenza, non fa che avvicinarsi in modo inarrestabile al proprio tracollo. Lo stesso periglioso dibattersi del naufrago in mezzo alla bufera e delle stesse onde, ora «superbe» ora «sommesse» (v. 24), nel vasto mare costituisce l’immagine predominante della terza sezione.
La compresenza della vita e della morte negli elementi naturali («Ora io son quella che già là s’è franta»; v. 27), così come nel destino umano, non è che il preludio della parte finale del poemetto, in cui Essere e non essere vengono a coincidere nelle parole che le onde rivolgono al naufrago: «Noi siamo quello che sei tu: non siamo» (v. 31). Rimane una residuale, labile parvenza di vita («L’ombre del moto siamo»; v. 32), una sorta di illusorio divenire. Finché il vento del destino per l’ultima volta si placa nella bonaccia e dalle acque si libera un’invocazione di pace e di serenità. La morte diviene finalmente per il naufrago un riposo eterno e le sue braccia aperte sembrano protendersi, nel nome della comune sorte, verso la totalità del creato. Impossibile non pensare ancora una volta a Leopardi, alla sua «ginestra contenta dei deserti» che le rassegnate onde pascoliane, «quasi miti schiave» (v. 17), paiono evocare, a quell’eroico richiamo alla solidarietà umana che in questo estremo abbraccio del naufrago trova eco.
Ma nel verso conclusivo, «Onde! Onde! Onda che viene, onda che va», in cui il fluttuante moto del mare è reso magicamente udibile grazie alla sapiente alchimia di ritmi e di suoni, una sola è la fonte alla quale Pascoli può attingere. Si legge ne I vecchi di Ceo (Poemi Conviviali): «E molte vite in fila / salian nel mare, riscendean nel mare: / quindi l’eterno. E dall’eterno altre onde: / i figli. Altre onde dall’eterno: i figli / dei figli. E onde e onde, e onde e onde…».

 

Elena Gori, pistoiese, si è laureata in Letteratura italiana presso la Facoltà di Lettere dell'Università di Firenze e ha qui conseguito il titolo di Dottore di ricerca (Dottorato Internazionale di Italianistica). Ha pubblicato articoli su Manzoni, Tarchetti e Poe, e il volume recentemente edito da Cesati Tozzi e Dostoevskij. La fuggitiva realtà (2012). Sta conducendo nuove ricerche su Tozzi.