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Anno 2013
  Nicoletta Mainardi
 
Pascoli, la natura, il mito
 
  Nicoletta Mainardi

Voleva essere il “poeta di lingue morte”, cantore della natura e delle memorie antiche, ed ha inaugurato il nuovo corso della poesia italiana tra Otto e Novecento. Simbolista e anticlassico, immerso in un suo immaginoso mondo alternativo a specchio di un turbato mondo interiore, Giovanni Pascoli si presenta oggi, a distanza di un secolo dalla sua morte, come l’autore di un unico grande libro di poesia, un diario dell’anima intonato all’esperienza del lutto e della perdita: un diario lirico prodigiosamente sintonico con le voci del visibile e dell’invisibile, per potersi affacciare sull’“abisso della verità” – così nel celebre saggio Il fanciullino – senza ritrarsene inorridito. 
La verità umana e poetica di Pascoli, che affonda nei traumi di un romanzo familiare costellato di sventure, è il dramma sempre rimosso di un io dimidiato impedito agli affetti – né figlio né padre –, irrimediabilmente segnato dalla rinuncia alla pienezza vitale e all’eros, e segretamente confidente nell’affidabilità conoscitiva simbolica e visionaria dell’esercizio poetico. Autorizzando di sé l’immagine pubblica ancora tutta ottocentesca ed edificante di cultore di ideali piccolo-borghesi proprio mentre sperimenta il valore operativo dello straniamento e della dispersione, Pascoli porta avanti con esiti sorprendenti la sua “rivoluzione inconsapevole” (G. Debenedetti), ad apertura di un Novecento poetico che gli si riconoscerà ampiamente debitore (dai crepuscolari ai poeti vociani, da Ungaretti e Montale a Luzi e Pasolini, da Saba e Penna a Caproni e Zanzotto).
         L’angoscia genera mostri, e i mostri devono essere assorbiti in esperienza poetabile e così resi innocui. Si profila, al riparo di depressi scenari naturali e domestici, un rifugio imprevisto per il poeta-fanciullino e i suoi ingombranti miti regressivi (l’orfano, il “nido” familiare infranto, la vittima): una poesia della quotidianità interessata a ridisegnare gli orizzonti dell’io lirico, secondo un intento di purezza e precisione verbale (“Tu sei il fanciullo eterno, che vede tutto con maraviglia, tutto come per la prima volta. […] Tu sei ancora in presenza del mondo novello, e adoperi a significarlo la novella parola”, Il fanciullino) che prevede ardite innovazioni formali – la frantumazione del verso e della sintassi, la riduzione fonica, la sperimentazione metrica e ritmica, il plurilinguismo – destinate a larga fortuna novecentesca.
         In Pascoli resiste il mito romantico protettivo e consolatorio della natura, e permea l’intensa stagione di Myricae (1891-1900), dei Canti di Castelvecchio (1903), dei Poemetti (1897, poi Primi poemetti, 1904, e Nuovi poemetti, 1909), configurandosi come privilegiato, assistenziale luogo dell’anima, sacro recinto da dove contemplare, insieme agli altri e separati dagli altri, la verità dell’abisso. Il ritrovato accordo con la realtà quotidiana fiduciosamente e ostinatamente ricercato dal poeta attraverso la normalizzazione tematica e l’abbassamento lessicale, scopre di fatto la realtà del mistero, le inconfessabili pulsioni che agitano tra amore e morte un esistere tragico.
I tersi quadretti bucolici messi in scena dalla lirica myricea, replicabili nelle più effuse misure poematiche dei cicli garfagnini, denunciano sotto lo smalto impressionistico cromatico e acustico delle immagini una densità allusiva e simbolica a tratti ipnotica, rinviano ad una realtà altra indecifrabile e minacciosa testimone del mancato idillio fra il poeta e il suo mondo; episodi di vita agreste che restano sospesi in atmosfere arcane, come osservati da dietro la nebbia “impalpabile e scialba” cui s’intitola una lirica giustamente famosa, Nebbia, dei Canti di Castelvecchio.
Ancora un “nido”, naturalisticamente ricreato dal poeta in sostituzione dell’altro dell’affettività inespressa, è all’origine dell’universo poetico pascoliano mosso all’ascolto continuo dell’unico, onnipresente soggetto lirico che è l’io del poeta, i suoi stupori, i suoi trasalimenti, il suo inspiegabile disagio. Tutto è chiaro e al contempo oscuro nel rituale trascorrere di opere e giorni, tutto determinato e liricamente nominabile con puntiglio terminologico e onomastico, quasi a esorcizzare l’indeterminatezza, l’ambiguità percepita nelle cose e che fatalmente rispunta tra naturalistici “frulli d’uccelli” e brividi metafisici. Modernamente, novecentescamente, in Pascoli – come hanno osservato tra filologia e critica Gianfranco Contini e Cesare Garboli – non si dà poesia senza oscurità.
Basti citare per esteso da Myricae “un capolavoro di impressionismo simbolico” (P.V. Mengaldo) come L’assiuolo, fusione perfetta di linguaggio oggettivo e linguaggio cifrato: “Dov’era la luna? ché il cielo / notava in un’alba di perla, / ed ergersi il mandorlo e il melo / parevano a meglio vederla. / Venivano soffi di lampi / da un nero di nubi laggiù; / veniva una voce dai campi: / chiù… // Le stelle lucevano rare / tra mezzo alla nebbia di latte: / sentivo il cullare del mare, / sentivo un fru fru tra le fratte; / sentivo nel cuore un sussulto, / com’eco d’un grido che fu. / Sonava lontano il singulto: / chiù… // Su tutte le lucide vette / tremava un sospiro di vento: / squassavano le cavallette / finissimi sistri d’argento / (tintinni a invisibili porte / che forse non s’aprono più? …); / e c’era quel pianto di morte … / chiù…”.  
Ma l’esperienza della poesia come “rivelazione” procede in Pascoli anche attraverso altri e più scoscesi sentieri, non arretrando di fronte alle suggestioni di una sensibilità torbida e morbosa che aldilà delle maschere e dei nascondigli reclama suo malgrado di essere evocata. Nei microcosmi georgici allestiti dalla poesia pascoliana germogliano enigmatici “fiori del male”: il vischio parassita che isterilisce l’albero da frutto trasformandolo in repellente ibrido, “glutine di morte” (Il vischio, in Primi poemetti); il “fiore di morte” che insidia come un inebriante sogno erotico l’innocenza verginale (Digitale purpurea, ivi); il gelsomino notturno che si apre in un’offerta d’amore ma non per il poeta, “ape tardiva”, escluso da ogni legame adulto che non sia la fedeltà ai suoi cari morti (Il gelsomino notturno, in Canti di Castelvecchio). Tutta una vegetazione malata, velenosa e immonda tolta in prestito dal repertorio romantico-decadente; lo stesso che un poeta-saltimbanco venuto dopo Pascoli, l’avanguardistico-futurista Aldo Palazzeschi, non esiterà a liquidare con una risata dissacratoria svelando l’oscena imperfezione e immoralità della natura, fino ad auspicare paradossalmente per sé, ribaltando l’assunto pascoliano,  “un nascondiglio / fuori della natura” (I fiori, 1913).
Fiori notturni, mortuari, che attraggono e ripugnano, che invitano coi loro balsami sensuali e respingono in un’accorata solitudine. Simboli onirici che squarciano d’un tratto il velo del candore, dell’ingenua, incantata meraviglia concepita dal poeta-fanciullino come condizione sine qua non della facoltà poetica, e introducono nella dimensione insospettata di un’allucinata profondità.
In questa ricognizione trepida e ansiosa del mondo dentro e fuori di sé può orientare e prestare soccorso, per un raffinato cultore dell’antichità classica qual è per formazione Pascoli allievo a Bologna di Carducci, l’incontro ravvicinato con i personaggi della storia e del mito sottratti alla loro distanza algida di tradizione classicistica e rivisitati all’insegna dell’inquieta sensibilità del poeta. La scommessa di Pascoli nei Poemi Conviviali (1904) è appunto l’idea di fare poesia del passato e sul passato, giusta la convinzione che la poesia autentica è nuova e antica allo stesso tempo, com’è eterno il fanciullino disposto in ogni epoca a “vedere” e “sentire”.
Si tratta di un programmatico ritorno all’antico, alla poetica della memoria, che si situa sostanzialmente parallelo alla poetica delle cose lungo il decennio 1895-1905, il più fertile per il poeta-veggente in cerca di mitografie alternative ad un personale, doloroso destino. E del resto il richiamo citazionale al Virgilio bucolico del verso “non omnes arbusta iuvant humilesque myricae” posto in epigrafe secondo formule varianti in ciascuna delle quattro raccolte pascoliane, indica una continuità pregressa nel passaggio dalla poesia campestre al genere epico-storico. La poesia conviviale intesa come processo di rivitalizzazione dell’antico o se si vuole di “psicologizzazione del mito” (G. Nava) rappresenta insomma per Pascoli un’importante occasione di verifica della propria poetica.
Fa testo, nel senso di un’ispirazione univocamente accordata all’incalzante pensiero della morte, L’ultimo viaggio, il più ampio dei Poemi Conviviali incentrato sul personaggio di Odisseo. Dell’eroe omerico assetato di conoscenza ed ebbro di gloria sopravvive qui una larva, una figura di vecchio che ripercorre a ritroso le tappe del suo avventuroso viaggio per ritrovarsi solo davanti a se stesso a chiedersi “Chi sono?”, senza identità e senza prospettive se non la certezza implacabile di un destino anche più terribile della morte alluso nell’esclamazione finale di Calypso: “Non esser mai! Non esser mai! Più nulla, / ma meno morte, che non esser più!”. E con Odisseo, antiomerico e antidantesco e pure antidannunziano eroe della sconfitta, una folta schiera di figure dell’epos classico è convocata all’appuntamento di una contrastata modernità a cui tocca decidere tra il sogno e il vero (“il sogno è l’infinita ombra del Vero”, Alexandros; “Sogno d’ombra, l’uomo!”, da Pindaro in I vecchi di Ceo), tra le ragioni universali ed eterne della poesia e i nuovi quesiti posti all’uomo contemporaneo. Attraverso immagini di classicheggiante nitore talvolta lavorate da combustioni simboliste (L’etèra, Psyche), Pascoli rivolge al mondo antico la sua pressante interrogazione sul valore attuale, antropologico e letterario del mito, che si trasforma in una vera e propria inchiesta sul significato profondo dell’esistenza umana e sul senso stesso della poesia in un’epoca di certezze ormai al tramonto.
Conclusa l’esperienza conviviale, anche per la grande poesia pascoliana rigeneratrice di “lingue morte”, fiduciosa nel potere immaginativo di una tradizione che si rinnova e nella sua funzione consolatrice, il viaggio tra le ombre del passato e i cari fantasmi del presente volge al termine. Non prima però di avere rilanciato in chiave cosmica, all’unisono con la sua musica morbida e cullante, la sua “soave” vertigine: “–  Chi è? Non so. Chi sei? Che fai? Più nulla. / Dorme? Non so. Sì: non si muove. E il mare / perennemente avanti lui si culla. // […] // E tu chi sei? Noi, quasi miti schiave, / moviamo insieme, noi moriamo insieme / costì con un rammarichìo soave… // Siamo onde, onda che canta, onda che geme… […] // Noi siamo quello che sei tu: non siamo. / L’ombre del moto siamo” (Il naufrago, in Nuovi poemetti). 
“Sono grosso e colorito, ben diverso di riuscita da ciò che promettevo. Non un indizio esterno ch’io conosca l’alfabeto. Molti si sono compiaciuti di affermare che sembro un fattore, piuttosto che un poeta”. Se questa è l’immagine che il poeta dei Canti dava di sé, qual è, torniamo a chiederci oggi, il vero Pascoli? E’ il poeta sentimentale subito approvato dai suoi contemporanei e tramandato da una lunga tradizione scolastica, oppure il poeta decadente di alterna fortuna critica che si confronta con i personaggi dell’immaginario mitico, o ancora il poeta notturno, ambiguo e metamorfico autorizzato dai suoi testi più arditi e per noi così coinvolgenti, inconsapevolmente e scandalosamente disposto a sbarazzarsi del fanciullino che è in lui? Di questo gentiluomo di campagna avvolto nel suo mistero resta il fascino senza tempo dei suoi versi musicali perfetti, come una “voce dai campi” che pare un “singulto”, un “pianto di morte”.

 

Nicoletta Mainardi (Castelfiorentino, 1957) ha dedicato i suoi studi a esperienze letterarie e artistiche del Novecento e di oggi. Ha pubblicato i volumi Il caso Loria. Storia e antologia della critica (1998), Lorenzo Viani. Studi per un ritratto (2004), Viani. Nuovi studi (2010), Dieci variazioni. Scrittori e artisti del Novecento (2011), Tutto è aperto. Parole e immagini di Venturino Venturi (2012). Suoi scritti sono apparsi in riviste e cataloghi d’arte. È nella giuria del Premio Letterario Castelfiorentino.