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È davvero affascinante riflettere su quanto affermava Pier Paolo Pasolini, peraltro fin dagli anni universitari autore di una tesi sulla lirica pascoliana, a proposito della poesia italiana del Novecento: la derivazione di tale produzione letteraria è chiaramente obbligatoria, sviluppandosi o dal lascito dannunziano o da quello pascoliano.
Il poeta di San Mauro di Romagna interiorizza tutto, fino ai più umili accadimenti quotidiani, naturalistici ed onomatopeici della manifestazione delle stagioni, e lo trasforma in controcanto ossessivo della sua disperata e lugubre simbologia familiare. Come dimostra Il giorno dei morti, componimento introduttivo di Myricae, si potrebbe parlare di una forma di “impressionismo” visivo ed acustico che diventa strumento rappresentativo del dolore annichilito di Pascoli.
Il senso di precarietà e di morte travolge anche i ricordi più sereni e trasognati. Così, ad esempio, il mondo contadino e patriarcale di Romagna, tanto amato dal poeta ed in cui ancora si avverte un influsso lirico carducciano e quasi una visionarietà macchiaiola, diventa teatro di un'occasione delittuosa e tragica:
[…]
Ma da quel nido, rondini tardive,
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or è dove si vive:
gli altri son poco lungi; in cimitero.
Così più non verrò per la calura
tra que' tuoi polverosi biancospini,
ch'io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozïoso i piccolini,
Romagna solatìa, dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta. (da Myricae)
L’immagine del cadavere del padre ritorna prepotente seppur sfumata nelle più diversificate composizioni e raccolte, da Myricae a Canti di Castelvecchio e ai Poemetti. Facilmente si possono addurre esempi. Uno fra tutti, capace veramente di far rabbrividire, sostanziato anche di un’elaborata ed immaginativa morbosità sessuale, è costituito da alcuni versi del Gelsomino notturno: “sotto l’ali dormono i nidi, / come gli occhi sotto le ciglia” (da Canti di Castelvecchio). In L’assiuolo un gioco onomatopeico, ricavato da una patetica riflessione umana, diventa simbolo raccapricciante di morte e quasi parola misterica, veicolo onirico verso il misterioso mondo dei defunti:
Dov’era la luna? Ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù…
Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù…
Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?…);
e c’era quel pianto di morte…
chiù… (da Myricae)
Il dolore e l’incubo si nascondono nella natura, trasfigurati nell’anafora ossessiva di “sentivo” e in un lugubre e laconico “pianto di morte”. Altrove, ad esempio in Il lampo, il simbolo visivo o uditivo è dirompente e, come direbbe Ungaretti, lacerante il “naufragio” della vita:
E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto;
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera. (da Myricae) Certo l’opera pascoliana è anche molto altro, basti pensare ad una poesia come Valentino, che celebra la povertà e la semplicità della vita agreste (qualcuno ci ha anche visto l’immagine trascesa del “fanciullino”), o ai Poemi conviviali; ma senza dubbio la linea dominante è il richiamo dolente e macabro agli affetti familiari che ne fanno punto di riferimento ineludibile del Simbolismo italiano, sospeso sull’impossibilità di ricostruire una vita fuori dal “nido” che non sia materializzata in rappresentazioni allucinate della morte. Ad epitaffio di tali considerazioni sulla sconvolgente e straordinaria poesia di Pascoli sembra utile citare alcuni versi da Digitale purpurea, altro fiore pascoliano insieme al gelsomino notturno, dove in una limpida ed agghiacciante immagine si ricordano “dita spruzzolate di sangue”. Surrettiziamente si propone la figura del padre morto e l’idea che l’amore uccide:
[...]
« Maria! » « Rachele! » Questa piange, « Addio! »
dice tra sé, poi volta la parola
grave a Maria, ma i neri occhi no: « Io, »
mormora, « sì: sentii quel fiore. Sola
ero con le cetonie verdi. Il vento
portava odor di rose e di viole a
ciocche. Nel cuore, il languido fermento
d’un sogno che notturno arse e che s’era
all’alba, nell’ignara anima, spento.
Maria, ricordo quella grave sera.
L’aria soffiava, luce di baleni
silenziosi. M’inoltrai leggiera,
cauta, su per i molli terrapieni
erbosi. I piedi mi tenea la folta
erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!
Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
tanta, che, vedi… (l’altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta
con un lungo brivido…) si muore! » (da Primi poemetti)
Del resto, pur in questa disincantata e macerata visione esistenziale, Pascoli stesso è consapevole che, per ogni essere umano, rimane la bellezza lucente della poesia, come anche il componimento di apertura dei Canti di Castelvecchio, intitolato appunto La poesia, sembra testimoniare:
[…]
lontano risplende l'ardore
mio casto all'errante che trita
notturno, piangendo nel cuore,
la pallida via della vita:
s'arresta; ma vede il mio raggio,
che gli arde nell'anima blando:
riprende l'oscuro viaggio
cantando.(da Canti di Castelvecchio)
Duccio Mugnai è nato a Pieve S. Stefano (Arezzo) nel 1972. Si è laureato in Lettere moderne all’Università di Firenze con una tesi in Letteratura italiana moderna e contemporanea su Bergson, Papini, Tozzi e Ungaretti. Ha poi studiato a Londra e di nuovo a Firenze, pubblicando saggi e articoli letterari di argomento novecentesco. Un suo scritto su Alda Merini si legge tra i testi di “Aspettando il Premio” 2010.
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