Parte I
Buio.
Intervento musicale da P. Mascagni, «Silvano» (inizio atto I, attacco lettura su inizio del «Coro delle Acquajole» «O marinai.», poi sfumando).
Le luci sull'attrice al leggio gradualmente aumentano con l'inizio della musica, oppure, meglio, l'attrice compie un percorso, portando con sé le pagine del testo che leggerà e arrivando al momento giusto al leggio.
Bagheria l'ho vista per la prima volta nel '47. Venivo da Palermo dove ero arrivata con la nave da Napoli e prima ancora da Tokyo con un'altra nave, un transatlantico.
Due anni di campo di concentramento e di guerra. Una traversata sull'oceano minato. [.]
A Palermo ci aspettava la famiglia di mia madre. Un nonno morente, una nonna dai grandi occhi neri che viveva nel culto della sua bellezza passata, una villa del Settecento in rovina, dei parenti nobili, chiusi e sospettosi.
Al porto abbiamo preso una carrozza che ci avrebbe portati a Bagheria. (la musica, sfumando, si interrompe)
[.]
A ricordare quel viaggio mi si stringe la gola. Perché non ne ho mai scritto prima? Quasi che a metterla su carta, la bella Bagheria, a darle una forma, me la sentissi cascare addosso con un eccessivo fragore di lontananze perdute. Una fata morgana? Una città rovesciata e scintillante in fondo a una strada pietrosa, che ad avvicinarsi troppo sarebbe svanita nel nulla?
[.]
Ora sono contenta di averla visitata l'ultima volta poco prima che morisse, la zia Saretta. Oggi non potrei più entrarci nella vecchia villa di famiglia. E poi quando l'ho vista io, c'erano ancora tutti i mobili e i quadri che poi sono stati rubati, compreso il ritratto di Marianna importantissimo per il mio futuro letterario.
Avevo telefonato alla zia Saretta chiedendole di poterla vedere. E lei, a malincuore mi aveva detto: «Vieni pure, se ci tieni». Ma sapevo che non mi amava. Lei, cattolica di rigore, monarchica, conservatrice, mi vedeva come un prodotto spurio della famiglia, un ramo degenere, una escrescenza maligna, se non proprio da estirpare, per lo meno da ignorare.
[.]
Il piede di zia Saretta è di nuovo li che batte, impaziente, annoiato. Possibile che mi perda continuamente dietro ai ricordi? Cosa avrà questa nipote balorda, sembra chiedersi, che non ascolta niente, presa com'è da pensieri lontani e inafferrabili?
«Ecco questo è un quadro di zia Felicita», ci dice. Siamo faccia a faccia con una tela scura che contiene delle grandi calle bianche. È un quadro curioso: dipinto con una mano timida senza maestria, eppure animato da una sua intelligente corposità.
[.]
La zia Felicita è morta da anni. Mentre la zia Saretta è qui viva e ora batte le mani a una ragazzina in tacchi alti e unghie laccate che porta dentro un vassoio con sopra dei bicchieri a calice colmi di tè freddo al limone. Su un piatto prezioso porge dei gelati di Bagheria: minuscoli fiori di crema ghiacciata ricoperti di finissima cioccolata. Si posano con due dita sulla lingua e si lasciano sciogliere fra denti e palato.
[.]
Rientriamo nel salone. I miei occhi cadono sul grande quadro dell'antenata che ricordo vagamente nei miei vagabondaggi infantili per la villa.
È lei, Marianna, a grandezza naturale.
[.]
Anche la zia Felicita nel suo libro parla di questo quadro, ammirata: «elegantissima in guardinfante, ha la lunga vita appuntita a cono sull'abito di broccato argenteo a fini disegni in colori tenuissimi; dalla scollatura alla punta spicca una grande croce argentea ricamata sul triangolo di velluto nero che forma il davanti della vita. La caratteristica croce di Malta che solo i nobili di sangue purissimo, con quattro quarti di nobiltà, potevano portare. Grossi brillanti alle orecchie e altri sparsi sulla appena incipriata gonfia e liscia acconciatura dei capelli che lascia scoperta la vasta fronte con una rosa da una parte, in alto. Un grosso solitario all'anulare e nessun altro gioiello. Tiene in mano un foglio, ché lo scrivere era il suo solo modo di esprimersi. Era nominata: la muta».
[.]
Torno a posare gli occhi su Marianna. [.] Marianna si è costruita, basta osservare meglio il ritratto, un involucro di severità inavvicinabile. Eppure il suo sguardo esprime una sapienza indulgente e profonda che non riesce a nascondersi dietro le «buone maniere». Le pupille sono chiare, luminose, appena attraversate da qualche nuvola di paura.
Quelle mani che si indovinano sempre in moto, fattive, prima di tutto nella scrittura, sembrano intente a interrogarsi sul senso delle cose. Una leggera increspatura delle labbra richiama l'idea di un sorriso trattenuto che irride alla propria severità e al proprio inconsolabile dolore. Un misto di curiosità intellettuali e voglie sopite, di severità militaresca e antichi sussurri voluttuosi.
Intanto, i piccoli gelati di Bagheria si stanno squagliando sul piatto. Trasudano goccioline chiare. «Prendine un altro», mi dice zia Saretta con gentile compunzione. Ma io ho la gola chiusa. Sono lì impietrita, a guardare quel quadro come se lo avessi riconosciuto con la parte più profonda dei miei pensieri: come se avessi aspettato per anni di trovarmi faccia a faccia con questa donna morta da secoli, che tiene fra le dita un foglietto in cui è scritta una parte sconosciuta e persa del mio passato bagariota.
[da «Bagheria», Rizzoli 1993]
Parte II
Immediatamente dopo «passato bagariota» intervento musicale da P. Mascagni, «Silvano» (inizio atto II), poi sfumando durante la lettura.
Le luci sull'attrice gradualmente cambiano con l'inizio della musica.
Un'ora dopo, Marianna si sveglia nella camera da letto dei genitori con una pezzuola fradicia che le pesa sulla fronte. L'aceto le cola fra le ciglia bruciandole gli occhi. La signora madre è china su di lei: l'ha riconosciuta prima ancora di aprire le palpebre dall'odore forte di trinciato al miele.
La figlia guarda alla madre da sotto in su: le labbra tonde e appena velate da una peluria bionda, le narici annerite dalle tante prese di tabacco, gli occhi grandi gentili e bui; non saprebbe dire se sia bella oppure no, certo c'è qualcosa in lei che la indispone, ma cosa? Forse quel suo cedere a ogni spinta, quella quiete inamovibile, quel suo sprofondare nei fumi dolciastri del tabacco, indifferente a tutto.
Ha sempre sospettato che la signora madre, in un lontano passato in cui era giovanissima e immaginosa, ha scelto di farsi morta per non dovere morire. Da lì deve venire quella sua speciale capacità di accettare ogni noia col massimo della accondiscendenza e il minimo dello sforzo.
[.]
Quando la duchessa Maria vede che la figlia si riprendeva verso lo scrittoio, afferra un foglio di carta e vi scrive sopra qualcosa. Asciuga l'inchiostro con la cenere e porge il foglio alla ragazzina.
«Come stai figghiuzza?»
Marianna tossisce sputando l'aceto che le è colato fra i denti nel tirarsi su. La signora madre le toglie ridendo lo straccio bagnato dalla faccia. Poi si dirige alla scrivania, scarabocchia ancora qualcosa e torna col foglio verso il letto.
«Ora hai tredici anni approfitto per dirtelo che ti devi maritari che ti avimu trovato uno zito per te perché non ti fazzu monachella come è destino di tua sorela Fiametta.» La ragazzina rilegge le parole frettolose della madre che scrive ignorando le doppie, mescolando il dialetto con l'italiano, usando una grafia zoppicante e piena di ondeggiamenti. Un marito? Ma perché? Pensava che mutilata com'è, le fosse interdetto il matrimonio. E poi ha appena tredici anni. La signora madre ora aspetta una risposta. Le sorride affettuosa ma di una affettuosità un poco recitata. A lei questa figlia sordomuta mette addosso un senso di pena insostenibile, un imbarazzo che la gela. Non sa come prenderla, come farsi intendere da lei. Già lo scrivere le piace poco: leggere poi la grafia degli altri è una vera tortura. Ma con abnegazione materna si dirige docile verso la scrivania, afferra un altro foglio, prende la penna d'oca e la boccetta dell'inchiostro e porta ogni cosa alla figlia distesa sul letto.
«Alla mutola un marito?» scrive Marianna appoggiandosi su un gomito e macchiando nella confusione, il lenzuolo di inchiostro.
«Il signor padre tutto fici per farti parlari portandoti cu iddu perfino alla Vicaria ché ti giovava lo scantu ma non parlasti perché sei una testa di balata, non hai volontà... tua sorella Fiammetta si sposa con Cristo, Agata è promessa col figghiu del principe di Torre Mosca, tu hai il dovere di accettare lu zitu che ti indichiamo perché ti vogliamo bene e perciò non ti lasciamo niescere dalla familia per questo ti diamo allo zio Pietro Ucrìa di Campo Spagnolo, barone della Scannatura, di Bosco Grande e di Fiume Mendola, conte della Sala di Paruta, marchese di Sollazzi e di Taya. Che poi oltre a essere mio fratello è pure cugino di tuo padre e ti vuole bene e in lui solo ci puoi trovare un ricetto all'anima.»
Marianna legge accigliata non facendo più caso agli errori di ortografia della madre né alle parole in dialetto gettate lì a manciate. Rilegge soprattutto le ultime righe: quindi il fidanzato, lo «zitu», sarebbe lo zio Pietro? Quell'uomo triste, ingrugnato, sempre vestito di rosso che in famiglia chiamano «il gambero»?
«Non mi marito», scrive rabbiosa dietro il foglio ancora umido delle parole della madre.
La duchessa Maria torna paziente allo scrittoio, la fronte cosparsa di goccioline di sudore: che fatica le fa fare questa figlia mutola: non vuole capire che è un impiccio e basta.
«Nessuno ti prende attia Mariannina mia. E per il convento ci vuole la dote, lo sai. Già stiamo preparando i soldi per Fiammetta, costa caro. Lo zio Pietro ti prende senza niente perché ti vuole bene e tutte le sue terre seriano le tue, intendisti?»
Intervento musicale (inizio atto II).
Fuori è buio. Il silenzio avvolge Marianna sterile e assoluto. Fra le sue mani un libro d'amore. Le parole, dice lo scrittore, vengono raccolte dagli occhi come grappoli di una vigna sospesa, vengono spremuti dal pensiero che gira come una ruota di mulino e poi, in forma liquida si spargono e scorrono felici per le vene. E questa la divina vendemmia della letteratura?
Trepidare con i personaggi che corrono fra le pagine, bere il succo del pensiero altrui, provare l'ebbrezza rimandata di un piacere che appartiene ad altri. Esaltare i propri sensi attraverso lo spettacolo sempre ripetuto dell'amore in rappresentazione, non è amore anche questo? Che importanza ha che questo amore non sia mai stato vissuto faccia a faccia direttamente? Assistere agli abbracci di corpi estranei, ma quanto vicini e noti per via di lettura, non è come viverlo quell'abbraccio, con un privilegio in più, di rimanere padroni di sé? (la musica sfuma lentamente)
Un sospetto le attraversa la mente: che il suo sia solo uno spiare i respiri degli altri. Così come cerca di interpretare sulle labbra di chi le sta accanto il ritmo delle frasi, rincorre su queste pagine il farsi e il disfarsi degli amori altrui. Non è una caricatura un po' penosa?
Quante ore ha trascorso in quella biblioteca, imparando a cavare l'oro dalle pietre, setacciando e pulendo per giorni e giorni, gli occhi a mollo nelle acque torbide della letteratura. Che ne ha ricavato? Qualche granello di ruvido bitorzoluto sapere. Da un libro all'altro, da una pagina all'altra. Centinaia di storie d'amore, di allegria, di disperazione, di morte, di godimenti, di assassinii, di incontri, di addii. E lei sempre lì seduta su quella poltrona dal centrino ricamato e consunto dietro la testa.
[.]
Da quando i figli sono andati via ha molto più tempo a disposizione. E i libri non le bastano mai.
[.]
Queste letture che si protraggono fino a notte fonda sono prostranti ma anche dense di piaceri. Marianna non riesce mai a decidersi ad andare a letto. E se non fosse per la sete che quasi sempre la strappa alla lettura continuerebbe fino a giorno.
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I piedi scivolano delicati e silenziosi sui tappeti che coprono il corridoio; raggiungono la sala da pranzo, attraversano il salone giallo, quello rosa; si fermano sulla soglia della cucina. La tenda nera che nasconde il grande orcio dove si conserva l'acqua da bere è scostata. Qualcuno è sceso a bere prima di lei. Per un momento è presa dal panico di un incontro notturno col signor marito zio. Da quella notte del rifiuto non l'ha più cercata. Le sembra di avere intuito che amoreggi con la moglie di Cuffa. Non la vecchia Severina che è morta ormai da un po', ma la nuova moglie, una certa Rosalia dalla folta treccia nera che le ciondola sulla schiena.
Ha una trentina d'anni, è di temperamento energico, ma col padrone sa essere dolce e lui ha bisogno di qualcuno che accolga i suoi assalti senza raggelarsi.
Marianna ripensa ai loro frettolosi accoppiamenti al buio, lui armato e implacabile e lei lontana, impietrita. Dovevano essere buffi a vedersi, stupidi come possono esserlo coloro che ripetono senza un barlume di discernimento un dovere che non capiscono e per cui non sono tagliati. Eppure hanno fatto cinque figli vivi e tre morti prima di nascere che fanno otto; otto volte si sono incontrati sotto le lenzuola senza baciarsi né carezzarsi. Un assalto, una forzatura, un premere di ginocchia fredde contro le gambe, una esplosione rapida e rabbiosa.
[.]
Marianna si scuote dai suoi pensieri quando Saro le stringe una mano con una forza nuova. Sta guarendo, sembra proprio che stia guarendo.
Saro apre gli occhi. Uno sguardo fresco, nudo, uscito allora dal chiuso di un baccello, come un fagiolo ancora morbido di sonno. Marianna gli si avvicina, appoggia due dita sulle labbra screpolate di lui. Il fiato leggero, umido e regolare si insinua nel palmo cavo di lei. Una sensazione di allegria tiene Marianna ferma in quel gesto di tenerezza respirando il fiato amaro del ragazzo.
Ora la bocca di Saro si spinge contro le dita di quella mano e la baciano all'interno, con trepidazione. Marianna per la prima volta non lo respinge. Anzi, chiude gli occhi come per assaporare meglio quel tocco. [.]
Ma il gesto sembra averlo stancato. Saro continua a tenere le dita di Marianna contro la bocca ma non le bacia più. Il suo fiato è tornato irregolare, appena un poco affrettato e convulso.
Marianna ritira la mano, ma senza fretta. Da seduta che era sulla poltrona, si inginocchia per terra accanto al letto, allunga il busto sulle coperte e con un gesto che ha spesso immaginato ma mai compiuto, appoggia la fronte sul petto del ragazzo. Sotto l'orecchio sente lo spessore delle fasciature impregnate di canfora e sotto di esse le mezzelune delle costole? Sotto, ancora il fragore del sangue in tempesta.
Saro giace immoto, preoccupato che un suo gesto possa interrompere i timidi movimenti di Marianna verso di lui, spaventato che possa scappare via da un momento all'altro come ha sempre fatto. Perciò aspetta che sia lei a decidere: trattiene il fiato e tiene gli occhi chiusi sperando, disperatamente sperando che lei lo stringa a sé.
Le dita di Marianna scorrono lungo la fronte, le orecchie, il collo di Saro come se ormai non si fidasse neanche della sua vista. Scivolano sui capelli incollati dal sudore, si soffermano sul rigonfio di cotone che nasconde l'orecchio sinistro, riprendono il contorno delle labbra, scendono verso il mento ispido di una barba da convalescente, tornano al naso come se la conoscenza di quel corpo potesse passare solo attraverso la punta dei polpastrelli, tanto curiosi e mobili quanto lo sguardo è pusillanime e riottoso.
L'indice, dopo avere percorso la lunga strada che da una tempia conduce all'altra tempia, scendendo lungo le pinne del naso, risalendo sulle colline delle gote, sfiorando i cespugli delle sopracciglia, si trova quasi per caso a premere nel punto in cui le labbra si congiungono, si apre un varco fra i denti, raggiunge la punta della lingua. Solo allora Saro azzarda un movimento impercettibile: chiude i denti, ma con una pressione lievissima, attorno al dito che rimane prigioniero fra palato e lingua e viene avvolto nel calore febbrile della saliva. Marianna sorride. E con l'indice e il pollice dell'altra mano stringe le narici del ragazzo. Finché lui non lascia la presa e apre la bocca per respirare. Allora lei ritira il dito fradicio e ricomincia l'esplorazione. Lui la guarda beato come a dirle che il sangue gli si sta sciogliendo. Le mani della signora ora si afferrano alla trapunta e la fanno scivolare giù dal letto. Poi è la volta del lenzuolo che a pieghe disordinate viene buttato da un lato per terra. Ed ecco davanti agli occhi sorpresi dal proprio ardimento il corpo nudo del ragazzo che conserva solo le fasciature lungo i fianchi, sul petto e sulla testa.
Le costole sono lì, sporgenti quarti di luna che raccontano come su un atlante le fasi delle rotazioni dell'astro viste in progressione, una accanto all'altra, una sopra l'altra.
Le mani di Marianna si posano senza peso sulle ferite appena rimarginate, ancora rosse e dolenti. La ferita sulla coscia pare quella di Ulisse assalito dal cinghiale [.].
Marianna vi fa scorrere le dita, leggere, mentre il respiro di Sarino si fa frettoloso e dalle sue labbra chiuse sbucano delle minuscole stille che fanno pensare al dolore ma anche a una gioia sconosciuta e selvaggia, a una resa felice.
Come abbia fatto a trovarsi spogliata accanto al corpo spogliato di Saro, Marianna non saprebbe dirlo. Sa che è stato semplicissimo e che non ha provato vergogna. Sa che si sono abbracciati come due corpi amici e accoglierlo dentro di sé è stato come ritrovare una parte del proprio corpo che credeva perduta per sempre.
Sa che non aveva mai pensato di racchiudere nel proprio ventre una carne maschile che non fosse un figlio o un invasore nemico.
I figli si trovano nel ventre della donna senza che lei li abbia chiamati, così come la carne del signor marito zio stava al caldo dentro di lei senza che lo avesse mai desiderato né voluto.
Questo corpo invece lei lo ha chiamato e voluto come si chiama e si vuole il proprio bene e non le avrebbe portato dolore e lacerazione come avevano fatto i figli uscendo da lei, ma sarebbe scivolato via, una volta condiviso «lu spasimu», con la promessa gioiosa di un ritorno.
Aveva pensato in tanti anni di matrimonio che il corpo dell'uomo fosse fatto per dare tormento. E a quel tormento si era arresa come al «maliceddu di Diu», un dovere che ogni donna «di sentimento» non può non accettare pur inghiottendo fiele. Non aveva inghiottito fiele anche nostro Signore nell'orto di Getsemani? Non era morto sulla croce senza una parola di recriminazione? Cos'era la piccolezza di un dolore da letto rispetto alle sofferenze di Cristo?
E invece ecco qui ora un grembo che non le è estraneo, non la assale, non la deruba, non chiede sacrifici e rinunce ma le va incontro con piglio sicuro e dolce. Un grembo che sa aspettare, che prende e sa farsi prendere senza nessuna forzatura. Come potrà più farne a meno?
[da «La lunga vita di Marianna Ucrìa», Rizzoli 1990]
Intervento musicale conclusivo, ancora da P. Mascagni, «Silvano», inizio atto I, in sottofondo da «Marianna vi fa scorrere le dita..», alzando volume a fine lettura.
Buio.
Luci.
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