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"TERRE ROSSE"
Francesco Camerini

Bisogna decidere in fretta, fuggire più sopra, almeno alla cresta delle Scale Sante, per non farsi trovare, perché stanno arrivando e setacciano la macchia peggio del rezzaglio lanciato sopra il riflesso della luce a gas. Ma serve qualcuno che resti a coprire le spalle alla banda mentre scappa. Così lui si offre, saluta i compagni fumando, senza guardarli e si apposta sulla pancia del fosso nel terriccio che lo scalda.
Vorrebbe piangere come quando morì il babbo a Lorenzo ed era il suo migliore amico. Ma beve dalla fiasca e si fa coraggio ricordando la baldoria della sera prima nel covo col vino e colla lepre appena presa. Però ad aspettare così, senza sapere nulla, gli sembra che non sia davvero lì ma in qualche altro posto che non ha mai visto. Pensa tanto, studia tutti i rumori che fa il merlo raspando a cercare i gremignoli e gli scriccioli rovistando tra i cespugli.
La mattina è sereno e il cielo luccica inquieto. Gli piace guardarlo dal basso tra i rappi pieni dei lecci che ci si buttano a mani larghe come chi chiede l'elemosina davanti alla chiesa. Dev'essere mezzogiorno quando prova a mangiare ma di colpo compare l'ombra delle nuvole che passa una mano sulla nuca delle colline che si accucciano uguale ai bimbi sotto i bombardamenti o il cane che ti fa le feste. Sotto di lui la scarpata si allunga come la gatta al sole e si sente il tuono ruzzolare lontano sulle isole grigie e celesti ferme sull'orizzonte che si stringe.
Poi, improvvisa, il pomeriggio presto, gli viene incontro, da dietro, sulla schiena una pioggia selvaggia che dirupa dal temporale e scende sulle teste dei funghi accasciate nella mota che li inzacchera. Più volte vede lo sprofondarsi del lampo e gli sembra un chiodo piantato di traverso e andato giù male nel tavolone del cielo. È quasi sera quando smette, lui è mézzo sotto l'incerata che si è calata sulle ciglia. Si alza un libeccio acciaioso che sciupa il cielo con scoli di nuvoli simili ai graffi lunghi che fa l'ortica sulla pelle quando passi negli stradelli chiusi dall'estate. Il vento scivola nel trincio della cava, che pare il biacco, venuto su forte dai valloni avviluppati e lì si allenta limaccioso nello slargo bianco. Lo sente tutta la notte strusciarsi agli scivoli dei vallini col rumore che fanno i panni stesi, o quando si ingorga nelle grotte che lo ingoiano in un grugnito caldo, corto ma continuo, che fa paura. La refola fa il rumore del fagiano quando scappa e sotto di lei il bosco monta a cavalloni verso le vette. Le piante si spezzano quasi, si spalancano accasciandosi, perdono foglie verdi e frasche e lui c'è dentro, lo attraversa l'aria nei panni, nei capelli facendogli stringere le palpebre e stancandolo come un giorno di falciatura. Ma è strano, perché quando la tempesta fa le fusa tutto intorno e impazza più forte lo prende la calma e urla zitto nella gola per il godere.
E così si addormenta sulla mattina. Sogna la caccia al colombo pensa a essere sul capanno, pendere dall'appostamento sulle cupole del bosco che declina, che corre, chioma a chioma, al mare e crede di spiare i colombi approssimarsi a branchi di venti o dieci e tra quelli sceglierne uno e quello puntare, mirare, abbattere via dal suo profumo di selvatico.
È già tardi quando si sveglia, ha paura e spera di perdersi in mezzo a tutto quel movimento d'alberi, che non lo trovi più nessuno, nemmeno la famiglia, di dissolversi in tutto quel vuoto d'aria e fare come la nebbia che bagna il mondo di mattina presto. Vorrebbe essere portato via dalla tempesta che l'assorbe nel bosco dal colore di piombo. Perché lì in mezzo, lui non è più lui: par d'essere alla festa con la fisarmonica sguaiata che fischia nelle orecchie e la mazurca che ti fiacca; o a bere, per la svinatura, dalla cannella della botte fino a sentirsi il fuoco in capo e dopo ridere tanto steso sul pavimento. È bello, lui lo conosce quello star solo per l'abitudine imparata dai carbonai di rimanere mesi nella macchia senza ammattire o per le camminate della caccia fatte fin quasi a perdersi e poi mangiare soli nel tascapane il cacio che trasuda nella carta gialla accartocciato insieme al pane duro. Così si fa forte e da un buco nel cuore rivede le case scardinate del paese e ricorda il mare nero col colore della gazza o quando sembra il barbiglione che vola o ha il verde del rogiolo e somiglia al bosco. Ripensa il sole al tramonto che è una pianta di pomi maturi o la corbezzola o la pesca. Così si distrae e si sente in pace, parte di qualcosa che è nelle vertebre del monte e nelle arterie delle piante o nei colombi o nei figlioli e quasi gli cambia pelle a quel pensiero. Guarda avanti: la terra sopra è la pelle della vipera e sbanda nella discesa fino a lui ormai perso lì dentro.

*

Ma un grattare di scarponi lo spiazza, allora si riprende, si raddrizza sulle spalle e mira la curva leccandosi le labbra. Marciano per uno e quando sbuca il primo, lui li lascia uscire lunghi, sfiniti dalla scarpata, pesi, poi spara alla fila intera e ne ammazza molti con la foga per il sangue che ha la volpe o la faina nel pollaio; ma sono troppi per uno solo e gli fa male il dito, non vede più nulla, solo un trinciare di frasche sotto le pallottole che arrivano più fitte della grandine. Poi tutto si cheta e il cecchino, da dietro un cerro, lo sfonda con una fucilata fredda e lo lascia nel fosso mentre s'accanisce su lui ferito la pattuglia superstite e con urli avari di vendetta lo maciulla coi calci dei fucili. Quando hanno finito ripartono tirandosi dietro i morti per le scarpe.
Ha appena il tempo di sentire la luce del tocco che gli sgocciola sul collo e poi gli arrivano davanti, a mozzi, a banchi di meduse le figure dei dannati che ha visto in disegno sulla bibbia del prete. Si spaventa a vedere le teste nella ressa dei femori e dei torsi che si piegano, in cima alle schiene di crosta di pane, con le mandibole sganasciate e gli occhi incavati o di fuori. È brutto lui, impastato di sporco ma da un foro nelle frasche guarda ancora la macchia immensa, sotto lui, che fa uno scivolone e ci si tuffa a capofitto quasi fosse il tordo ucciso a morte dalle fucilate dei capanni, a cercarvi vita, fuga forse dalle sfuriate della tramontana che gli forzava i palmi delle ali fino a portarli via dagli scalmi delle spalle. Così tutto passa, la vita gli esce dai piedi, gli lascia le cosce e sgronda via come tra i calcinacci una pisciata di cane. E gli sboccia una bestemmia sulla bocca che lo libera da tutto quel patire per nulla.

*

È notte e gli mareggia ancora la macchia sopra, piovendo una gioia di ghiande su lui accasciato nel manico della mitragliatrice, smozzicato dai colpi e scorticato dai cazzotti. Passa sui campi ingoiati dalla notte il barbagianni che non canta e in silenzio semina morte come i denti del saracco sulla pianta o i malanni tra i vecchi. Le stelle sono tutte affogate nel nero.
All'alba scende la brancata dei cinghiali, va all'insoglio, ma sente subito la carogna, il puzzo del sangue che ingrassa la terra, così, lo cerca, gli si accosta e trovatolo si blocca come una folla davanti ai banchi del mercato. Per primo gli si fa addosso il verro, lo esplora piano, lo fiuta curioso col grugno fra i panni e poi lo rovescia a musate e dà il via al branco. Subito gli rufolano nello stomaco, lo saccheggiano delle budella forse delle dita fino a che non sono sazi o annoiati e si rinascondono nel folto dove non fiatano fino alla notte dopo.
È l'inizio dell'autunno e il verde diventa cupo. Nel gran mantello della macchia l'ornello arrossisce per primo e diventa uno scheletro di gomma. Tutto muta, solo lui resta lo stesso e gli passa addosso una stagione intera. Nessuno lo scorge là in quel punto dove il bosco si sbrana per lo spacco dei tralicci che portano la luce nel paese. Una nicchia di cortecce lo coccola: si sono accatastate dove la piena si spancia per passargli sopra e l'acqua lo spiana, lo interra, gli scava vicino vene di sabbia, gli zappa i piedi, gli macera l'uniforme. Tutto è trascurato, vogliono scordarla, i sopravvissuti, quell'infamia della guerra, quella via di strage, e i pochi che ci scendono a caccia o a far legna, ci passano senza lasciare traccia e ci scivolano sopra come le pulci sugli stagni. E non si accorgono di loro i pettirossi ritornati da poco sui biancospini e le ginestre a sfamarsi prima di andare a ficcarsi nelle tagliole. Lui funghisce piano, spolpato dai bachi e lo seppellisce un franare continuo dell'argine, un cedimento dell'argilla che si scaglia simile alla pelle, un piovere di polvere e spezzatura di legno, un macinare di rocce, uno sfarsi di calcare. È lì, piallato lentamente dal tempo e dall'intemperie che si sfa nell'uniforme vuota e resta d'ossa e unghie. Solo i cinghiali tornano a scavargli addosso ad ammucchiargli sopra terra che pare riccioli di capelli. È passata la volpe a piluccarlo, il tasso, la ghiandaia a pelargli gli ossi e non c'è più nulla che interessi gli animali. Intorno a lui ancora larghi spazi restano spogli d'alberi, sprovvisti d'erba per le tane delle bombe buttate a cercare gli sfollati nelle buche. Mentre lì si infogna lo stradello nella ricrescita della macchia che scuce i suoi confini e lancia corti germogli tozzi nel freddo accanito che monta, come la chiocciola, sul bosco. Poi la collina si ferma nel letargo del gelo e tutto l'inverno una lumaca gli cancella gli occhi.

*

Maggio lo raggiunge in quell'isolamento perché ha brividi il sottosuolo e si dilata piano nell'argilla un reticolo di dita e lentamente sbriglia barbe che, se sbucano dove si spacca la scarpata, si induriscono in corteccia, si innodano in tronco. Ma sotto, sotto è tutto un capillare di radiche morbide, volubili che corrono a invadere le vene più libere del suolo, a cercare di scheggiare la terra dove cede volentieri. Mentre sopra la pianta s'imporpora di gemme che mette alle giunture, di germini minuziosi. Ed è tutto un verminare sui rami di bocci minuscoli, di foglie accartocciate che esplodono in cocci di petali. Così si squama, si stende, si dilata e assomiglia alla mosca appena nata o all'ala della cicala, ogni chioma che riprende l'aria. E riacquista campo, spazio, regioni all'incolto che gli resta dentro, la macchia. E strappa la sterilità alla sabbia che fa una zanna o una scala dove l'acqua la spolpava, questa mano incerata che incide il cemento; che squassa, corrode, solleva i valichi, sfa le fondamenta; che fora le finestre e passa porte parte a parte; che entra dove la pioggia è penetrata tra le tegole o i travi, dove ha forato i pavimenti e si è placata in pozzanghere, dove ha tramutato in terra la calce, dove ha dissodato i solai e seminato un arsenale, una costellazione di vita pronta a procreare. E dovunque è tutto uno sforbiciare di foglie, uno sdoppiarsi di piante, un fermentare di funghi, un formicolare di fiori che sfidano, nel duello infinito, l'esistenza. E lui è quello, quella la sua trascendenza.