contattaci
torna alla home page

"IL BOSCO DI TORRI"
Francesca Matteoni
I luoghi avanzano lenti sulla mia persona, me li ritrovo addosso tra le pieghe dei vestiti, ne emergo contaminata di presenze. Nella mappa che vengo tracciando non sono io a spostarmi da un punto dell’orizzonte all’altro, sono i luoghi a rivelarmi, suggerirmi toni, sfumature, sconvolgere lo spazio vuoto, esatto di un buio nelle terre smosse dell’identità. Da bambina non lo sapevo, completamente immersa nei movimenti impercettibili dello spazio – c’era la mia stanza con le sue molte protezioni: l’angelo riccioluto alla parete, gli occhi-bottone degli animali di pezza, il lume notturno chiuso dentro un pesce giallo che mi dava la certezza di esistere anche nell’oscurità, nell’infittirsi dei suoi aliti freddi, delle sue trame spesse come il sacco dell’orco. C’era la casa scandita nelle regole dei genitori e c’era l’altro, l’esterno. L’esterno non era il giardino, la via dove correvo in bicicletta consumando le suole delle scarpe per frenare, non era nemmeno la città: l’esterno erano le montagne solitarie della Sambuca Pistoiese, la strada zigzagante, da cui sbirciare il fiume sassoso della Limentra e Torri, il paese di mio padre, con i suoi abitanti sospettosi, la desolazione invernale, il rifiorire poco a poco della gente nel primo caldo. Pistoia sta proprio in mezzo alle montagne: a sera s’illumina come una pioggia di lucciole, una costellazione trapunta nell’abbraccio millenario di giganti. Salendo su per la Riola si superano borghi fatti di poche case affacciate sulla strada, il Monachino, l’Acqua, Lentula, dove ci si ferma ad agosto per fare il bagno nel bozzo: si prende coraggio e si fa un passo in quell’acqua gelida, ferma, per cui i raggi solari sgattaiolano in bisce svelte tra i massi. Poi si svolta sulla sinistra e ci si inerpica verso il mio paese inghiottiti dagli alberi, da curiose folle di primule; si supera una certa curva ombrosa dove viveva un folletto e si prosegue fino all’enorme castagno secolare della Torraccia, fino al parcheggio del Carnevale - l’unico luogo ad avere un sapore cittadino. A Torri non ci sono vie intitolate a qualche illustre personaggio, i toponimi sorgono direttamente dalla natura circostante, dalle antiche famiglie, da ciò che l’uomo anonimo ha costruito adattandosi al paesaggio: c’è La Ciliegia, Grotta, Casa Turchi, il Volotto il cui nome forse è un diminutivo di aquila e allude a quei rapaci che a volte ammiravo sollevando lo sguardo, piccoli falchi per lo più, con una gioia struggente, ineffabile.
E Pontevecchio dove lontano negli anni c’era la scuola, dove mio nonno aveva la sua bottega di falegname e robivecchi e dove stavamo noi, arroccati sopra i tetti. La gente tornava sempre con l’estate, un’abitudine, un vizio: si concentrava nel bar, negli interminabili tornei di briscola alla pista da ballo, ma soprattutto in piazza dove si consumavano le giornate, dalla spesa la mattina nella bottega di alimentari, alle ciance instancabili, cucite addosso ad ogni incauto passante fino all’ora di cena, dalle vecchie sedute sul muretto, incorniciate dai gerani. A scuola avevo un libro di lettura dove c’era la novella di una comare impicciona, che segnava su di un taccuino una crocetta nera per ogni pettegolezzo che riusciva a cogliere. Ogni volta che passavo davanti alle signore della piazza mi veniva in mente questa storia: chissà, mi chiedevo, se anche loro tengono un’agendina segreta, zeppa di X, nelle tasche dei grembiuli. Spesso mi sedevo sulla finestra della camera da letto a fantasticare, l’aria sottile m’isolava da tutto: c’era il gran verde e lo spaccarsi dei monti a precipizio, il silenzio irraggiungibile dei voli ed un rimescolio di vite, di segni nuovi, abbandonando il paese per i sentieri.
Ecco l’esterno dunque, la paura, il bosco. Ecco ciò che creava scompiglio a notte nei pollai, rigurgitandovi donnole e faine. Da qualche parte nell’ombra si muovevano i lupi: non li vedevamo mai, ma più d’uno era certo di sentirne l’ululato, la fame, la bellezza mortale che arrossava l’aria dietro il campanile. Durante il giorno però si poteva andare nel bosco, si mangiavano fragole, lamponi, mirtilli senza lavarsi le mani, si giocava tra i castagni, rugosi e pazienti come vecchi benigni delle fiabe, con le cui foglie lunghe e ovali fabbricavo copricapi da indiana. I castagni rassicuravano, stendevano un tappeto d’autunno per le caldarroste, avevano a che fare con la padella forata della soffitta, la stufa di ghisa e il suo bollitore smaltato, quei piccoli riti gioiosi e familiari fuori dal calendario delle festività. Ma c’erano altri alberi misteriosi a suggerire un confine mentre ci addentravamo: i faggi, striati di nebbia, dove si nascondevano i daini, le oscure umide vene dell’abetaia che nutrivano il vermiglio dei funghi velenosi. L’unica traccia umana di queste parti del bosco erano le rovine di antiche case, con i tetti di lastre sdrucciolevoli e irregolari tra cui si nascondevano serpi e nidi di vespa. Una di queste abitazioni la conoscevo bene, sommersa in una nuvolaglia di zanzare e moscerini, era l’antica casa del pastore dove mio padre andava da ragazzo a comprare il latte: scendendo per il sentiero dal Prataccio bisognava passare sotto un alto masso sporgente, aguzzo come il muso di un lupo – era lassù da decenni e non aveva intenzione di cadere, ma io correvo, trattenendo il fiato e guardando poi la roccia con sfida. La capanna di Cappuccetto Rosso, dei Sette Nani – così un luogo devastato dall’abbandono diventava meraviglioso.
Quelle rovine sporche, tormentate dagli insetti, erano perfette: là si spargevano i semi dell’immaginario. Poiché inagibili per l’uomo qualcosa d’altro le popolava, uno spettro bizzarro di sogni e passato, oppure l’addensarsi in un’anima singolare della vegetazione attorno – i rami spezzati sparivano improvvisi in un livore di vipere, zannuti guardiani si profilavano tra le pietre.
Tornando in paese la magia boschiva e la sua ambiguità svanivano nei perimetri ben definiti di ciò che è bene e ciò che è male, nei rimproveri o negli elogi dei grandi; anche le avventure si ridisegnavano, slittando dall’incanto rischioso all’eroico e al giusto. Tuttavia il selvatico non si levava di dosso: si stava ore nella polvere dei lavatoi, attratti dall’acqua saponosa e bluastra, armati di ramoscelli e stecchi del gelato per salvare le farfalle che galleggiavano come foglie stiracchiate.
Si depositava così un pezzetto di noi in paradiso.
I lavatoi erano sulla strada che scendeva alle stalle, lì era tranquillo, si poteva giocare senza essere sgridati, non ci veniva nessuno tranne l’Angela. Angela era l’unica a farci ancora il bucato, un donnone tondo, capelli neri scarabocchiati in un groviglio sotto i nodi del fazzoletto, pochi denti radi nel sorriso. Dicevano che era matta. Aveva cinquantasette gatti.
“Le bestie dell’Angela hanno la rogna, non le toccate!”, stridevano le vecchie scandalizzate da quel connubio animalesco, dalle scarpe rotte, dal riso semplice nel buco della bocca. Per me invece Angela era buona perché si curava dei gatti; goffa, rubizza, mi disarmava nella sua stranezza, mi rapiva. Gli altri paesani non mi piacevano, prendevano gatti e cani a calci, ti guardavano sempre come se in te ci fosse una macchia, una stortura che prima o poi si sarebbe manifestata. Montanini duri, ottusi, senza fantasia – li giudicavo spietatamente nella mia infanzia.
Lei invece era come il bosco: una fiaba imprevedibile, vestita a strati di magliette scombinate come una zingara senza malizia, la fata stracciona che parla agli animali – era il corpo grossolano, randagio, generoso in cui amavo la mia montagna.
Non mi sarei stupita di vederla trattare con la stessa bonarietà volpi o scoiattoli; aveva scelto i gatti perché come lei vivevano in una zona liminare, fragili, ma indipendenti, abituati all’uomo senza appartenergli.
Un tempo aveva avuto un marito, ora era ospite dei felini, in quella catapecchia tetra che era la sua casa: spoglia, piena di scatolette di cibo scaduto per il pavimento, infestata dal tanfo d’urina, da lampi rapidi nelle mezzelune di molteplici occhi. Una rovina di abitazione, uguale all’altra, laggiù nel bosco, ma il suo inquilino stavolta aveva un nome che ancora s’insinua testardo come il rovo quando annotta, quando tutto cede e diventiamo a nostra volta uomini, donne, adulti. Angela parlava poco, non s’interessava di quel misto di affetto, tolleranza, pietà che suscitava negli altri, regalava tutto di sé ai gatti: viveva delle loro baruffe, della loro gratitudine mai esplicita, da conquistare ogni giorno, dei loro corpi caldi e languidi inaspriti da fango, cicatrici – pazzi al cambiare della luna.
Grossa creatura senza pelo, sarebbe fuggita come loro, notturni e sacri, diffidenti della pietà altrui, accalorati di voglia, e invece le toccò morire, traslocare sola dietro il cancello del cimitero, in un paese di montagna dove abitano venti persone azzittite dalla neve nell’inverno e nessuno porta mazzi di gerbere, calle o rose. I boschi non onorano i propri morti, li intrugliano di zampe, becchi, piogge, li assorbono – i piccoli fiori sgusciano taciturni dalle ossa.

Dimmi Angela, sei meno pazza ora? sei meglio vestita? e senti il balzo, l’artiglio mentre trascini i secchi all’acqua nera, là sotto?
Ancora mi togli le parole, come la fede assoluta, l’assoluto buio, l’assoluta luce di quando splendevo crudele, e poi il tragitto avviene, uno strepito breve, un’impronta che si corrode. A rammentarti ti seguo, le mani fresche di sapone mentre vai e non torni, fluida polvere dell’ombra, nella porta scardinata che mi è dentro, che non riparo, finché bramo, finché mi lascio a questi luoghi perché m’incidano un senso: il prurito di una storia in cui mi riconosco, una piaga, un boccio.
Finché ricordo.