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"QUATTRO INVERNI SENESI"
Marco Giovenale
Il freddo è piegato come il viso come gioca
con i numeri e se anche
brucia non c’è dispersione, sua
sete di spazio. Anche in poca
ghiaia del viale cammina.

La mattina intera sciupata ai cipressi.
È un discorso di inclinazione, inteso,
dei raggi contro la mica.
Tutti doni, clic dell’Elsa in prua

*

Quasi posato sugli alari, e numerato uno,
è l’atto chiaro, e impallidisce ancora.

Tu lava il filtro, non farlo funzionare.
Riaccesa casa prima
di rientrare - e non hai voglia
di riattare il piano superiore
della foglia dove stani piena
resa. Tutti questi
denti invisibili divorano
il passato di chi ci era già stato
qui nel riparo dentro il bosco
ceduo. Che vuol dire cede
luce quanta più ne cedi
tu se torni, o credi

*

Inverno cala curvato. Siena. A me
dispiace di essere ma sono
diverso da quello che sono -
lui dice e niente
come l’ascia spezza il freddo
e questo spezza quella al filo o taglio.
Tanto che è la ferita a ferire -
buio, gelo giusto, verbo
dire

*

La serra è stanca e nel suo ricordarla
è diventata un tono grigio più sottile -
non sapendo il canale d’uscita,
l’acqua torna a irrigare il crespo
morto, gli spettri di sottovaso.

L’ovale libero dei vetri è tutto
per gli occhi dei cani, dove arrivano,
guardano dentro, battezzano, strisciano
avanti, non c’è da mangiare
e l’odore è di abbandono
finito in persone.

L’impressione della lana buona ha smesso
di stare alle pareti che ricordano.

Allo zenit fa asse, è Orione lui
e dice tutto questo smette e manca
fine