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MARIANGELA SCARCIELLO
"La Zoppa"


L’ultima prostituta di Sant'Andrea fu travolta dal treno delle sei mentre cercava di evocare l’immagine appannata dei suoi innumerevoli amanti. Terminate le prime cinque dozzine, si rese conto che stava riesumando la faccia stessa della morte così ebbe pietà dei suoi vecchi aguzzini e decise di perdonarli.
Quando vide il treno avvicinarsi si sentì mancare il respiro: fece appena in tempo a percepire l’odore del ferro e a dire “Madonna schifa” che il rapido le scompigliò per l’ultima volta i pochi capelli che le erano rimasti.
Si chiamava Fernanda Cassano ed oltre ad essere zoppa e sorda era anche l’ultima esponente di un’emerita famiglia di puttane che aveva intrapreso il mestiere appena messi i denti definitivi. Tutti la chiamavano, secondo i casi e le circostanze, la Zoppa o la Puttana o la Puttana Zoppa perché con il tempo la gente aveva dimenticato il suo nome ma rammentava perfettamente la sua antica professione. L’unica parente era sua figlia Epifania ma, dopo anni di marchette, avevano finito per considerarsi semplici colleghe così, quando la giovane se n’era andata per sposarsi, aveva lasciato alla vecchia il suo corredo di lustrini e il primato della sua solitudine.
Dopo la disgrazia ci volle un mese prima che Epifania fosse rintracciata ed un altro mese perché si convincesse a dare un’occhiata ai resti della madre sparsi impudicamente come le tessere di un mosaico sul tavolo dell’obitorio. Nonostante la stranezza dell’accaduto, le indagini conclusero che si fosse trattato di un incidente anche perché era difficile pensare che una puttana vecchia fosse stata colta dai sensi di colpa mentre portava lo spezzatino in uno strofinaccio.
Fernanda Cassano era diventata prostituta per rassegnazione e per decisione materna perché così le era stato detto di fare un pomeriggio dopo la scuola. Esercitò vicino i binari della ferrovia per cinquant’anni filati, tutti i giorni dalle nove di sera alle tre del mattino successivo con l’abnegazione di un’impiegata modello e la docilità di un animale da macello. Fu una prostituta esemplare e discreta, non si lagnò mai né compromise il buon nome dei suoi amanti. Una volta chiesta la tariffa, per tutta la durata del lavoro, rimaneva muta e assorta tanto che alcuni clienti, abituati ad un turpiloquio d’occasione e ai sospiri convenzionali, restavano imbarazzati da quell'impenetrabile muraglia di silenzi.
All’anagrafe risultava una coltivatrice diretta ma l’unica volta che Fernanda aveva visto i campi fu a vent’anni quando per disgrazia, durante la mietitura, le era rimasta incastrata una gamba sotto un carro ed avevano finito per amputargliela. L’unico cambiamento nella vita di Fernanda fu che si vide costretta ad abbassare la tariffa perché i clienti erano diventati schizzinosi ed alcuni, nel vedere il suo moncone, si sentivano male. Dopo l’operazione restò a casa due mesi ma la madre recuperò le ore d’ozio stabilendo dei turni di straordinario che le fecero perdere per sempre la voglia di ridere. In molti pensavano che la ragazza fosse un po’ ritardata in quanto, anziché nascondere il traffico del suo corpo, diceva candidamente alle amiche di essere la puttana di Sant'Andrea. Nessuna donna onesta le rivolse mai la parola mentre gli uomini, che di giorno la scansavano, la cercavano tastoni nel buio della sala d’aspetto. A quarant’anni sembrava un fantasma perché i reumatismi le avevano imbrogliato i movimenti e il rumore del treno aveva finito per rompergli i timpani.
Il suo unico vezzo fu tenere un diario che ricordava il libro mastro di un negozio di alimentari e dove lei annotò scrupolosamente il susseguirsi di tutti i suoi incontri corredati dalle relative date, dal prezzo pattuito, dall’eventuale sconto e dai nomi di fantasia che lei attribuiva a ciascun cliente.
Quando la fermata di Sant'Andrea fu soppressa le ultime cinque puttane si sparpagliarono per i paesini vicini con il loro corredo di seggioline pieghevoli, i loro ventagli contro il caldo e i giornali per ingannare l’attesa. Fernanda, che in quel periodo aveva quasi sessant’anni, restò a Sant'Andrea e si fece accorciare per la prima volta il moncherino di legno perché col tempo si era rimpicciolita e incurvata così le sembrava sempre di viaggiare in salita col suo ammennicolo che era diventato un pezzo da museo e che i tarli si stavano spartendo. Quando si rese conto che il suo ultimo protettore doveva ormai avere cent’anni e che lei non era più buona neanche per fare il brodo, la Zoppa smise di compilare il suo libro mastro ed abbandonò definitivamente il binario insediandosi nella casa di tre stanze che aveva diviso con una collega e la figlia.
L’ultimo giorno della Zoppa fu uguale a quello vissuto negli ultimi dieci anni: innaffiò il suo giardino essenziale e diede da mangiare ai gatti del quartiere; verso le cinque del pomeriggio sprofondò in un sonno inquieto. Si svegliò di soprassalto per i dolori lancinanti che provenivano dalla sua gamba immaginaria e pensò che sarebbe morta da un momento all’altro per un embolo. Uscì di casa in pantofole portandosi dietro lo spezzatino con la scusa di mangiarlo con una sua collega ottuagenaria che viveva dall’altra parte del paese. Quando bussò alla porta nessuno le rispose. Si accanì contro l’uscio ma dopo dieci minuti dovette desistere perché un bambino le fece “Sciò!” dalla finestra e le lanciò un sasso che la prese dritta in testa. Tornò sui suoi passi sanguinante e terrorizzata e pensò che non avere nessuno con cui dividere la cena era veramente come essere già morta. A casa la sua inquietudine crebbe. Verso mezzanotte uscì nuovamente perché, se fosse morta all’improvviso, almeno l’avrebbero vista per strada e non sarebbe imputridita alla mercé dei gatti. Costeggiò la ferrovia, guardò i binari lisci e scuri come un serpente addormentato e senza sapere come ci si mise in mezzo. Vide le stelle della sera e considerò che il primo treno sarebbe arrivato solo con le luci dell’alba. Aspettò nella quiete della notte finalmente mansueta. Al mattino l’ansia tornò ad assediarla ed ebbe la certezza che non avrebbe più rivisto Epifania e che non le aveva lasciato neanche un bigliettino di saluto. Se la prese con Dio e con la Società ma si rese conto che le puttane non esistevano né per l’uno né per l’altro. Così si assolse da sola dai suoi peccati.
Istintivamente la Zoppa ripensò ai pomeriggi dopo la scuola e passò al setaccio il suo passato alla ricerca di un ricordo che le addolcisse il momento. Si mise a contare con zelo da ragioniere gli innumerevoli uomini, controllò i crocicchi della sua memoria ed ispezionò le pieghe del cuore; quando intravide le luci del treno contò più in fretta ma riesumò soltanto il fantasma di un avventuriero che l’aveva delusa e derubata; non vinta aggirò il ricordo di adolescenti vacui cui aveva insegnato l’apparenza dell’amore e fece l’appello degli uomini della sua vecchiaia; poi, disperata, contò a ritroso fino ad arrivare al padre di sua figlia e ad un suo antico protettore, sentì il dolore delle percosse e la fitta acuta di una pugnalata così augurò la morte a entrambi. Si era quasi rassegnata alla morte quando le venne in mente l’immagine di Piero Toni che un giorno di giugno le aveva chiesto di abbandonare il marciapiede e di andare a vivere con lui. Sorrise all’immagine fresca di Piero Toni cui quella sera, per gratitudine, non chiese nemmeno la tariffa; se lo ricordò contento mentre andava via in bicicletta e ricordò la sensazione di beatitudine provata. Quel giorno imparò il prezzo amaro della disillusione che fu ben più duro delle botte che la madre le elargì per quella sua momentanea infatuazione.
Il macchinista del treno delle sei in punto vide la Zoppa in mezzo ai binari fiera ed eretta come una cariatide e si stupì che quel corpo disfatto potesse reggersi ancora in piedi. Suonò più volte ma solo in ultimo si ricordò che la Zoppa era pure sorda. Quando la locomotiva fu abbastanza vicina, il macchinista giurò di aver visto la sciagurata bisbigliare qualcosa, poi entrambi chiusero gli occhi: la donna per rassegnazione il ragazzo per paura.
L’ultima cosa che alla Zoppa venne in mente fu che tanto valeva morire lì sulla ferrovia prima che l’immagine di Piero Toni se ne andasse per sempre con le prime luci del mattino. Poi bestemmiò e non sentì più nulla.