Chi non l’ha provato non sa cosa voglia dire avere un familiare turnista.
Quando la ditta dove mio marito era stato contabile per vent’anni chiuse i battenti, il nostro secondo figlio aveva quattro mesi, e io un contratto Co.co.co. senza nessuna garanzia di stabilità. Meglio che niente, certo: con i tempi che corrono, chi ha uno straccio di impiego fa bene a tenerselo stretto, dice il mio capo. Zitti e lavorare, altro che diritti sindacali. Specie se c’è la famiglia da mantenere. Noi, quasi tutte donne fra i trenta e i quarant’anni, abbassiamo la testa in silenzio.
Il mio stipendio è stato l’unico in casa per quasi un anno. All’inizio eravamo fiduciosi: in Toscana, si dice, il lavoro non manca. Ma passavano le settimane, i mesi, e niente. Compravamo tutti i quotidiani con le offerte di lavoro; non so quante decine di moduli di domanda io e Paolo abbiamo riempito. Ogni volta che apriva un supermercato, un ipermercato o un centro commerciale, noi eravamo lì con una fototessera e la penna in mano.
Niente.
Grazie alla trappola dei contratti di formazione, un giovane ragioniere dopo l’altro costava alle ditte molto meno dell’assunzione di un contabile solo. (Continuavamo però a vedere persone senza titolo di studio o preparazione specifica trovare misteriosamente impieghi di prim’ordine: chi conosci, si sa, fa tutta la differenza).
Mio marito si rivolse allora a un’agenzia di lavoro interinale. Pensammo fosse una situazione provvisoria, finché non avessimo trovato qualcosa di meglio. Gli offrirono un lavoro per tre mesi, rinnovabili, come operaio turnista alle fornaci di una vetreria empolese.
Non scorderò mai come lo vidi tornare a casa dopo il primo giorno di lavoro: nero da capo a piedi, i capelli appiccicati sulla fronte, gli occhi spenti, sconfitti. Le mani, le sue belle mani rese eleganti da ore di esercizi al pianoforte, graffiate e piene di vesciche. Zoppicando, ce la fece appena a trascinarsi fino al letto per raccontare: otto ore di lavoro ininterrotto davanti alle macchine, un caldo infernale, sporcizia, bottiglie che esplodono, cocci di vetro tagliente dappertutto, macchinari incredibili, mezz’ora di pausa per mangiare: “E se ti scappa la pipì, ti arrangi nella mezz’ora che hai. Ti danno una divisa comprensiva delle scarpe e di un giubbotto (dobbiamo lavarla in fretta nei due giorni di riposo, perché ce n’è una sola). Alla fine del lavoro devi fare la doccia, ma io non lo sapevo e non avevo portato niente, oggi. Neanche da mangiare avevo, e la mensa non c’è. Ho tanta fame, e tanto sonno. Forse mi tengono per sei mesi. Ho portato lo schema dei turni”.
Ci detti un’occhiata. Sabato e domenica liberi una volta al mese, più o meno. Natale in fabbrica. Capodanno anche. Ferragosto idem. Turni di lavoro a partire dalle quattro del mattino, mezzogiorno, le otto di sera. Per gli assunti a tempo indeterminato, undici giorni di ferie all’anno. Pensai alla madre di mio marito, ai sacrifici fatti perché quel figlio delicato studiasse e avesse un avvenire migliore del suo.
I bambini fissavano perplessi e interrogativi il loro babbo: il più piccolo aggrappato ai bottoni del mio golf, l’altro faceva capolino da dietro le mie ginocchia. Per la prima volta da quando erano nati non li guardava, non aveva neanche detto ciao. E non aveva alcuna voglia di giocare.
Chi lavora a turno perde gradualmente il ritmo naturale sonno-veglia. Dopo un po’ si è sonnolenti al lavoro (quando si dovrebbe invece essere vigili perché i macchinari sono assai pericolosi) e non si riesce a dormire neanche quando si può. Le scansioni temporali che hai sempre dato per scontate, come il fine settimana e le feste comandate, spariscono sotto la dittatura dei turni.
Per me, i turni vogliono dire non poter quasi mai contare su Paolo per qualcosa come portare i bambini a scuola, o andarli a riprendere, o accompagnarli dal pediatra: dipende dai turni, e dai cambi di turno, e dai recuperi che ti piombano sempre addosso all’improvviso quando avevi già programmato altro da fare. Quando la notte mio marito si alza per andare al lavoro, nel nostro piccolo appartamento i bambini si svegliano impauriti.
Mi ricordo una scena di Tutta colpa del Paradiso in cui a Francesco Nuti la strada viene indicata da uomini con le mani monche, amputate dai telai pratesi. In vetreria è un po’ la stessa cosa. Periodicamente Paolo torna a casa terreo, e racconta di un collega che si è tagliato una falange, o due dita, o la mano intera. Parla di colleghi con la faccia devastata dalle schegge di vetro. Gente che ci ha rimesso gli occhi. Da quando lavora in vetreria, ha già perso due colleghi. Uno in un incidente mentre tornava dopo il turno di notte: frontale per un colpo di sonno. L’altro, dice mio marito, è rimasto intrappolato in un macchinario. In fabbrica si vocifera che fosse un macchinario vecchio e non rispondente alle norme sulla sicurezza.
Paolo è stato confermato a tempo indeterminato. Dovremmo, suppongo, essere grati al destino per questo. Mio marito non ha mai voglia di giocare con i nostri figli, quasi non li vede più. Quando Paolo c’è, i bambini imparano presto che bisogna fare piano perché-Babbo-dorme. Malgrado la doccia, la parte del letto dove Paolo dorme resta ombreggiata di un nero che non va via con niente. Gli asciugamani ingrigiscono senza rimedio. Negli angoli di casa nostra, sulle tende, sui mobili, sulla maniglia del frigorifero, nel lavandino, si insinua la polvere nera degli altiforni.
Di recente lavorano della sabbia proveniente dalla ex Unione Sovietica. Prima usavano lo stesso prodotto importandolo dal Sudafrica. I prezzi della bielorussia sono più bassi. Quella sabbia viene dalla stessa regione di Chernobyl. Gli operai passano le giornate a spacchettarla dai sacchi, a spalarla, a metterla e toglierla dai silos. Alla richiesta di un rilevatore di radioattività, la R.S.U. si è sentita rispondere di fidarsi dei capi, e che chi non si fidava poteva liberamente andarsene. In cambio hanno concesso loro tre giorni in più di ferie all’anno.
Non parlo mai di queste cose in ufficio. Molte delle mie colleghe credono alla panzana della Donna Liberata, e lavorano per avere due soldi tutti per sé da spendere dall’estetista, dalla parrucchiera, comunque non per mantenere la famiglia. Forse inorridirebbero, a sapere che io non posso neanche permettermi di scegliere una marca preferita di dentifricio o di tonno in scatola. Devo sempre acquistare quello-che-costa-meno. Anche così, grazie all’Euro, i conti non tornano mai.
Paolo è scivolato in una routine di sonno e veglia a ore, come avrebbe detto mia nonna, non-da-cristiani. Infatti la maggior parte dei suoi colleghi sono nordafricani immigrati di recente. Il lavoro alle fornaci è troppo massacrante perfino per gli alacri e infaticabili cinesi. Incontro le mogli di quelli che lavorano con mio marito, o di altri come loro, al supermercato davanti agli scaffali delle offerte speciali. Molte sono velate (e chi glielo fa fare di acquisire i nostri costumi, le nostre abitudini? Che civiltà fatta di bombe e sopraffazione, stupidità e violenza è stata offerta loro?). Stiamo decine di minuti fianco a fianco a confrontare minuziosamente i prezzi, con faticose equivalenze bilingui fra il prezzo al chilo e il prezzo al grammo. Ci sorridiamo, complici. Ci scambiamo consigli e strategie per risparmiare parlando ciascuna nella propria lingua, e ci capiamo.
Abbiamo problemi assai simili. Le coppie benvestite ci squadrano con identico scherno e sospetto. Al parco di Serravalle i nostri figli giocano insieme. Il più piccolo dei miei figli parla in arabo con l’amichetto dell’asilo. Si scambiano la colazione. Hanno identici pantaloni ereditati dai fratelli maggiori, consumati alle ginocchia.
Quelli come noi non hanno paura degli extracomunitari. Siamo extracomunitari quanto loro..
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