Troppo nitidi, troppo statici. Ho provato, quando mia
moglie non guardava, a girarli e rigirarli tra le dita,
gli occhiali, a far ruotare le lenti come trottole sul
legno del tavolo. Niente da fare: dopo un po’
il metallo riacquista il suo peso e la lente rallenta
sempre più fino a restare immobile, un pezzetto
di vetro che riflette le pareti del laboratorio, le
finestre semichiuse, l’enorme orologio a pendolo
appeso alla parete centrale.
A mia moglie è sempre piaciuto il pendolo dell’Ottocento,
l’orgoglio, il simbolo stesso del nostro negozio
di ottica e orologeria. C’è sempre stato,
qui nel corso principale di Lido di Camaiore, questa
città di mare sospesa tra il caos e l'oblio,
la sabbia arroventata della spiaggia e i silenzi delle
pinete. C'è sempre stato. fin da quando ero ragazzo,
forse l’ha comprato mio suocero, o il padre di
mio suocero, o forse anche loro l’hanno trovato
già lì. Scandisce i movimenti, le azioni,
le parole che dici e quelle che non osi nemmeno sognare.
C’è, si fa pensare, e a volte credo che
anche lui pensi a me, e rida, di ogni gesto quieto,
paziente, scandito a bacchetta dalle lancette di ferro
e di ottone dei suoi secondi e dei suoi minuti. Mi raggiunge
continuamente, il tempo, mi piazza un braccio nerboruto
sulla spalla e non si stacca più, come un ubriaco
in un bar che ti chiede da bere e ti racconta una storia
lunga, incomprensibile, costantemente identica a se
stessa.
Mia moglie assomiglia un po’ al pendolo: è
di legno liscio, saldo, smaltato con cura, senza screpolature
e senza ammaccature. E’ precisa, puntuale, ama
il suo lavoro, l’attività che è
chiamata a svolgere. Procede in senso orario senza mai
perdere un colpo, senza una pausa, un’esitazione,
un dubbio. Mi invita ad imitarla, ad essere attivo e
zelante, a prestare attenzione ai clienti, a mostrare
attaccamento. Ha ragione, sì, ha senz’altro
ragione lei.
Una lente ferma tra le dita è uno specchio, due
lenti che girano nelle mani sono un’idea, due
ruote che corrono sull’asfalto lucide come lenti
sono una fuga. Mia moglie ha ragione, è dalla
parte del giusto. Io ho solo una bicicletta rossa fiammante
e corro in direzione opposta. L’asfalto del Viale
Europa non è mai grigio, o meglio, non è
mai grigio allo stesso modo. Non è del colore
del giorno prima, non ha lo stesso profumo e la stessa
consistenza, le salite rincorrono le discese e il sudore
sulla fronte trasforma un tramonto in un’alba.
Esco in silenzio dalla porta laterale del negozio e
monto in sella con l’espressione di un bambino
che sale sul cavallo più bello di una giostra.
Svolto l’angolo ed il negozio non c’è
più. Non c’è lui per me né
io per lui. Solo un rettilineo assolato, l’odore
dei pini e del mare, il riflesso delle macchine che
mi sfilano accanto piene di ragazze in maglietta e di
asciugamani colorati. Respiro a fondo, indosso gli occhiali
da sole presi a prestito nel negozio ed inizio l’inseguimento.
Non c’è nessuno davanti a me, solo un viale
alberato, automobili e moto. Eppure io lo vedo, è
laggiù, a un centinaio di metri da me, ha un
passo regolare, basta aumentare la frequenza delle pedalate
e posso raggiungerlo. E’ lui, il compagno di viaggio
ideale, quello che, a seconda del mio umore, procede
cupo al mio fianco o ride e scherza con me. E’
laggiù, il ragazzo eternamente torturato, vittima
di tutti i regimi. Lo riprendo e cerco i suoi occhi
per un attimo. Non c’è bisogno di parole,
pedaliamo spalla contro spalla unendo forza e fragilità,
fendendo la stessa aria, sognando insieme il traguardo
di una valle silenziosa dove poter distendere le braccia,
posare la schiena sull’erba e chiudere gli occhi
vedendo e pensando solamente il sole.
Oppure, quando sono di buonumore, mi metto sulle tracce
di Mercks, il più forte, l’eterno vincente.
L’ho anche conosciuto un giorno Eddy Mercks, quello
vero, in carne ed ossa. Gli ho chiesto l’autografo,
ho accostato la bici alla sua e mi sono fatto scattare
da un amico una foto che conservo come una reliquia.
Mi ha sorriso il campione, ed ha provato a dirmi qualcosa
in un italiano tagliente come una lama, pieno di erre
appuntite e arrotate. Gli ho sorriso anch’io e
gli ho detto grazie. Non sapeva, il belga, per fortuna,
quello che pensavo in quel momento. Dicevo a me stesso
che era forte, sì, era bravo il cannibale, ma
io, se avessi potuto allenarmi a tempo pieno, lo avrei
battuto prima o poi. E in ogni caso, mi dicevo, l’ho
già battuto tante di quelle volte! Quasi ogni
giorno lo immagino davanti a me, lo inseguo, lo supero
e lo batto in volata. Povero Mercks, se sapesse quante
volte l’ho sconfitto scoppierebbe a piangere come
un ragazzino, come quella volta al traguardo di Sanremo
quando fu costretto a ritirarsi dal Giro d’Italia.
Per sua fortuna non sa niente, e io non ho intenzione
di dirglielo. Lo lascio dov’è, nella leggenda,
nella memoria, e sul viale che costeggia la pineta,
pronto ad essere inseguito e staccato ogni volta che
mi va di pedalare e di fantasticare.
Ne ho conosciuta di gente famosa in vita mia, ciclisti
e atleti ma anche artisti e personaggi famosi. Ho incontrato
la nipote di Puccini, un giorno, di fronte alle acque
lente e sognanti di Torre del Lago. Bella come Tosca,
come Madama Butterfly, vestita di colori accesi, delicata
come un alito di vento, un filo di fumo, una melodia
che danza sull’azzurro e sul verde. Mi sono perso
nel sogno di lei, ed anche lei, forse, si è innamorata
di me. Una cosa è sicura, ho ricorso la sua armonia,
nel ritmo della fatica, nel cigolio dei pedali, nell’ombra
disegnata sugli alberi, nel dipanarsi ondulato della
strada che riflette le pulsazioni del cuore come il
volo di un gabbiano che si specchia sulle acque di Torre
del Lago.
L’ho inseguita, la musica di Puccini, si è
lasciata raggiungere quando ha compreso che non volevo
costringerla a seguire il mio cammino, volevo solo averla
al mio fianco fino all’istante in cui avrei imparato,
partendo da lei, a sentirne gli accordi nelle braccia
e nelle gambe.
Ho inseguito anche un collega, l’occhialaio di
Amsterdam: Baruch Spinoza, un uomo colto, un filosofo.
Io, lo confesso, non sapevo chi fosse, me l’ha
spiegato un mio amico. Sono ignorante, lo so, lo ammetto,
ma lui mi ascolta, mi parla di filosofia, pedala e ride
anche lui al mio fianco, dice cose assurde e cose vere
come me. Non sa se i paesi a cui passiamo di fronte
esistono davvero o sono immaginari, conosce solo le
stille di sudore, l’imprecazione, la voglia di
arrivare in cima alla salita per vedere cosa c’è
lassù e cosa oltre, o magari solo per avere il
vento fresco sulla faccia e sul petto, per quanto male
possa fare.
Mi piace anche, di tanto in tanto, attraversare la città,
sfrecciare sui viali pedonali e lungo la Passeggiata
di Viareggio zeppa di gente. Con la bici luccicante,
contromano, volo e vedo per un attimo breve le loro
risa e le dita che mi indicano e tamburellano allusive
sulla fronte. Corro, ed ogni istante cambia la gente,
anche se la gente non cambia mai. Ma basta un colpo
di pedale, elegante e potente come quello di Adorni,
come quello di Koblet, e sono alle spalle. Spariti,
andati, presenti e lontani.
A volte passo accanto a camion pieni di soldati. Seri,
massicci, con le divise tirate a lucido. Passo a testa
bassa come uno scalatore timido, Battaglin, Ocaña,
Chioccioli. Passo piano e lascio correre i sogni. Immagino
di poter montare a rovescio le ruote dei loro mezzi
blindati e delle loro jeep come a volte faccio in negozio
con le lenti degli occhiali. Mia moglie è convinta
che lo faccia per sbadataggine e puntualmente si imbestialisce.
Non sa che lo faccio apposta. Una lente rovesciata può
essere magica, può far vedere il mondo a sghimbescio,
può farti sbagliare strada e direzione e farti
finire su una spiaggia dove gli unici proiettili sono
gli zampilli che raggiungono la pelle dopo un tuffo
tra le onde. Vorrei poter dire e fare davvero tutto
questo, ma per ora so solo procedere muto. Continuo
a inseguire però, a puntare lento e tenace verso
la Cima Coppi, lo Stelvio, il Mortirolo, la più
dura e la più ambita delle vette.
So correre anche all’indietro, so inseguire, guardando
dritto davanti a me, anche il tempo, lungo viali illuminati
da lampioni potenti come stelle o sulle pietre e la
polvere degli stradoni, ai bivi sperduti delle campagne.
Per chiedere indicazioni ad Alessandro il Grande, a
Giulio Cesare, a Napoleone. Con la scusa di domandare
come si arriva ad un borgo inventato, invitarli a pedalare
con me, ad accorgersi che basta un campo di papaveri
su cui stendersi quando si è stanchi e un ciglio
di strada per vedere orizzonti e confini senza bisogno
di oltrepassarli, senza la foga di sentirli tuoi, perché
restano liberi, sempre, nonostante tutto, nonostante
te.
Anche e soprattutto le donne, la bellezza, ho inseguito.
Ragazze da marito e donne sposate, salite dolomitiche,
erte, insidiose, rosa come la pelle e celesti come gli
occhi baciati dal sole d’alta quota. Le ho inseguite,
paziente, ammaliato, pedalando morbido e seguendo con
le dita le curve dei fianchi e del seno. Mi hanno staccato
spesso, per forza, per necessità, oppure, alla
fine, mi sono lasciato sfilare io, ho fatto l’elastico
lasciando che prendessero metri e filassero via, per
paura, per lasciare spazio a nuove chimere e nuove fughe.
Perché è bello a volte anche guardare
la bellezza che si allontana sapendo che è stata
tua, ha condiviso con te un tratto di strada, la meraviglia,
la lucertola e il gatto che attraversano di fronte a
te e ti sembra che ti sorridano come se avessero capito,
come se conoscessero, loro, la magia dell’attimo:
il rischio e il privilegio dell’asfalto, saper
scivolare senza paura, contenti dell’istante che
scalda di follia e di passione.
La mattina, dopo notti di amore rubato, tornavo al negozio
ad incastrare frammenti geometrici di vetro. Le mani
erano docili, per qualche minuto, riuscivo a guardare
mia moglie e a sorridere alla sua saggezza. Lei capiva
senza parlare, o magari si accorgeva, come me, che era
meglio non capire, a volte è così, per
sopravvivere.
La rispetto, l’ho sempre rispettata, è
parte di me. Mi perdona, non mi insegue, ed io so bene
che se volesse potrebbe raggiungermi in qualsiasi momento.
Potrebbe mettersi di traverso sulla strada e bloccarla,
guardarmi in faccia e obbligarmi a fissarla negli occhi.
Non lo fa. Lascia che io vada, che sparisca senza preavviso
lasciando negozio e clienti, soldi e porte spalancate.
Lei è qui, sempre, la sento, so che c’è.
Ci perdoniamo a vicenda: lei ha le sue ragioni, io la
fortuna di averla e di scappare da lei.
Fuggo, sì, spesso da solo, a volte in compagnia.
Con Enrica negli ultimi tempi, soprattutto con Enrica,
una ragazza che pedala come un uomo, borbotta con una
voce aspra che non riesce a nascondere e fa ondeggiare
le spalle tozze, la testa e gli occhi che sorridono
nel pianto. Vorrebbe raccontarmi storielle da caserma,
barzellette sceme da osteria, da caraffa di vino rosso
da un litro. Invece, regolarmente, finisce per parlarmi
di sua zia, la vecchia Cesira che l’ha tirata
su fin da quando è morta sua madre, tra preghiere,
mani giunte, profumo di naftalina sullo scialle color
Pentecoste e sulla gonna di velluto grezzo che respinge
l’estate, la tramuta in una stanza cieca, una
macchina da cucire dei primi del Novecento con una ruota
arrugginita e una pedana su cui poggiano gambe gonfie.
Mi parla di sé Enrica, del terrore e del desiderio
di diventare come sua zia, delle albe già in
attesa del crepuscolo, della bicicletta appoggiata al
cancello del cimitero quando le ombre preparano la notte
e resta solo il custode all’interno, quasi cieco,
quasi pazzo, sempre preso a pregare e bestemmiare, a
parlare coi morti e ad accarezzare le foto dei bambini
e delle donne più belle. Entra di soppiatto là
dentro, Enrica, con un fiore bianco colto in un prato
da portare alla zia. Per pregare e respirare assieme
a lei il silenzio della notte.
Mi attrae e mi atterrisce la mia compagna di escursioni.
Mi piace, ma ho paura a guardarla in faccia, è
troppo pallida, troppo luminosa, sgraziata e attraente.
Temo di innamorarmene. Mi viene da ridere a confessarlo
ma è così. Provo affetto per lei, vorrei
strapparla alla gabbia dei ricordi, alle tarme nere
che le rodono la mente, al vaso di cristallo della tomba
ogni giorno più giallo ed opaco.
Presto o tardi lo faccio. Anzi no, lo faccio oggi stesso.
La invito a pedalare con me, a buttarci giù per
la discesa del colle più ripido delle Apuane.
Ad occhi semichiusi senza pensare a niente, giù,
più veloci del cuore, del sangue nelle vene.
Oggi lo faccio, io e lei in picchiata lungo i tornanti
leggeri come rapaci, rapidi come ciottoli levigati,
ignari di mura, paracarri, lamiere di auto che ci corrono
contro.
So che lei parte sempre prima di me. Pedala vigorosa,
è difficile da raggiungere. Io sono inseguitore
però, è il mio ruolo, il mio mestiere.
Macino metri sereno e concentrato, so dove andare oggi,
conosco la via e la meta. Tengo un’andatura sostenuta
da passista veloce, aumento ritmo e forza ma non la
vedo, non c’è. Accelero ancora, do tutto
ciò che ho. Niente. E’ fuori del raggio
visivo, una curva oltre. Non ho più forze, la
delusione mi fa sentire ora tutta la fatica accumulata.
Mi pianto, mi blocco di colpo, riesco a procedere con
immenso sforzo solo pochi centimetri alla volta. La
salita ride fiera adesso, coglie il suo trionfo, la
rivincita. Sorrido amaro e metto un piede a terra. In
quel preciso istante sento una mano grande e lieve che
mi sfiora la spalla. Mi volto lentamente con gli occhi
dilatati. E’ lei, Enrica. Mi sorride, e, senza
bisogno di parlare, mi appoggia le dita sulla schiena
e mi invita a riprendere il cammino. Mi ha raggiunto,
ha tenuto con ostinazione estrema il passo folle del
mio scatto. Era partita dopo di me, attardata da un
contrattempo. Mi ha scorto all’orizzonte e si
è messa sulla mia scia, ha aspettato che esaurissi
le energie e mi ha ripreso, pedalata dopo pedalata.
Sono stanco ora. Di tutto, anche della stanchezza, del
sudore che un tempo adoravo. Con lei al mio fianco però
ritrovo la voglia di spingere ancora un po’ sui
pedali, quel tanto che basta per scollinare, rialzare
la schiena dolorante e abbandonarsi alla discesa. La
sento accanto. Mi guarda dolcemente. E’ felice
adesso, e sono felice anch’io, sento il vento
nelle orecchie ed è identico al suo riso. Mi
perdo in lei, nel profumo, nella mano che mi sfiora
la fronte e mi invita a chiudere gli occhi. Non c’è
occhiale ora, non c’è lente, non c’è
parola esatta e graduata che possa convincermi a tenere
le palpebre aperte. Ho corso. Ho respirato la polvere
e il polline dei prati e dei viali, fremendo, imprecando,
cercando di capire e smettendo di cercare per comprendere
davvero. Ho scelto le linee, le traiettorie da impostare,
il margine di rischio, la prudenza e il gusto dell’impatto,
muro di mattoni rosso sangue. Come il mio sangue che
colorerà la strada, come un bacio, una carezza.
Ho conosciuto Enrica, ne ho avuto paura, una paura stupenda.
L’ho fuggita tenendola al mio fianco, mi sono
lasciato raggiungere fingendo di non averla veduta,
di non aver percepito la sua presenza alle mie spalle.
Ora volo con lei in discesa verso il mare, ad occhi
chiusi e braccia spalancate. Le ruote girano, brillano
nel sole. C’è ancora la strada, l’essenza,
l’ossigeno che non vedi ma è ovunque, dentro
di te, nella realtà, nel sogno. C’è
ancora la strada, e la amo ancora. Posso diventare un
granello di asfalto, un cristallo di roccia con cui
gioca una formica. Posso muovermi rapido, inseguire
l’infinito ed esserne inseguito. Essere tempo
e spazio, spazio e tempo: una parete di cemento e il
riflesso iridescente di un attimo che vola nel traguardo
della mente a braccia alzate, gli occhi e le labbra
spalancati in un sorriso, nel flash breve di una foto
che cattura un bagliore di eternità.
|