1
Correndo tra macchina e macchina alla
fine arrivavo a scuola. Schivavo, saltavo. Le pozze
s’increspavano al mio passaggio. Tra una corsa
e l’altra, col fiatone e la fronte sudata percorrevo
il tratto che divideva casa mia in viale Pratese dalla
scuola media Cavalcanti in via Presciani. Il piumino
stropicciato, i Moon Boot gonfi e giganteschi ai piedi.
Mi sentivo invincibile in quel formidabile scafandro
gommato. Nessuno mi poteva scalfire. Ero grosso e muscoloso.
Stavamo al secondo piano di un palazzo nuovo completamente
bianco che spuntava dietro un distributore di benzina.
Scendevo di fretta le scale passando davanti alla nostra
vicina calabrese. Concettina Pata. Detta Tina. Che letto
al contrario era Pata Tina. E giù risate. Ogni
volta passando davanti al suo uscio ne usciva un misto
ragù pungente che m’inaspriva le narici.
Peperoncino e cipolle di Tropea soffriggevano dalla
mattina fino alla sera. Ribollivano in un pentolone
da strega, da fattucchiera. Un delirio di sapori che
s’innalzava fino ai piani alti e si mescolava
a qualsiasi cosa avesse preparato mia madre. Diveniva
tutto piccante. Anche un brodino sciocco.
La strada per arrivare a scuola era divertente. Corrado
si univa a me da via Monti, Andrea da via Oriani, così
come il Bianca, detto “Tanfo” perché
si vantava di non lavarsi i denti, “così
risparmio tempo”, diceva. Noi però ci rimettevamo
la salute parlandoci faccia a faccia. Non sapeva neanche
giocare a pallone. Adesso abita in Australia. Dal Neto
arrivava anche Jacopo, ma noi lo scansavamo con la dovuta
cura. Era un bambino strano che sapeva tutto su L’Unità,
sulla Resistenza e le Brigate Rosse, sui circoli Arci
e Stalin, Lenin e Mao, Gramsci e Togliatti. Non lo capivamo.
Una volta volevamo scrivere con un gesso sul marciapiede
“Jacopo + Bruno”. La Bruno era una nostra
compagna di classe veramente cesso. Che bocciò,
senza mai sbocciare, insieme ad altri nove in prima
media. Né bellezza né intelligenza. Mentre
stavamo scrivendo sull’asfalto, lui arrivò
di corsa e ci bloccammo di scatto lasciando a metà
l’opera. Fuggimmo a gambe levate sghignazzando.
La scritta che apparve fu “Jacopo + Br”.
Figurarsi il giorno dopo a scuola. Riunioni con i genitori,
assemblee di istituto, indignazione e sbigottimento.
Ma come a dodici anni già rivoluzionari. Noi
non capivamo tutto quel casino. Comunque Jacopo lo scansavamo.
Si scaccolava di continuo. Il professore di Tecnica
diceva “poverino non è che si scaccoli
è che gli fa freddo alle dita”.
Mio fratello aveva quattro anni meno di me. Cioè
ce li ha ancora, non mi ha raggiunto. Mia nonna molti
più di noi due messi insieme. Giocavamo a pallone
in casa ed ogni tanto spaccavamo qualche soprammobile
di porcellana. Mio padre, come mio nonno, è,
era, rappresentante di una manifattura. E lì
erano guai. Erano zoccolate lanciate a struscio per
terra dalla nonna. Saettavano e prendevano velocità
una volta che sfioravano il pavimento. Erano schiaffi
dopo quando rientrava il capo. Il parquet solcato. I
pigiami sudati marci. Intinti come diceva mia
nonna. Era un sinonimo di madidi ma non credo che abbia
mai usato questo vocabolo.
I miei genitori erano giovani. Mia madre attraente.
Alla televisione non si sentiva altro che dolore e morte.
Si passava da Alfredino nel pozzo, il treno scoppiato
a Bologna o questo Mostro. Io aveva soltanto paura.
Le caramelle avvelenate con la droga. Chi ti voleva
rapire. Non accettare passaggi dagli sconosciuti. Se
non ero a casa, a scuola, insomma dentro qualcosa, non
mi sentivo al sicuro.
2
Quell’inverno dicevano che ci sarebbe stato poco
olio ed anche meno vino sulle nostre tavole. Dicevano
che si era bruciato tutto per colpa del freddo.
Mi sembrava impossibile che il freddo potesse bruciare.
Non lo trovavo logico. Le immagini alla tv erano sempre
catastrofiche. Accendevi il telegiornale ed erano guai.
Ma non potevamo lasciarlo spento? “Fammi vedere
il telegiornale” o la variante “Zitti, c’è
il telegiornale”. Era mio padre che rospava sotto
i suoi capelli brizzolati arrivati prima del tempo.
L’attaccatura alta un po’ stempiata.
Uliveti ricoperti di neve. Li ricordo. Campi interi
bianchi come il sale. La gioia mia e di mio fratello
stoppata con un nuovo senso di colpa fresco di giornata.
“Siete contenti per la neve? E non ci pensate
a vostro padre tutto il giorno con la macchina in giro
per le strade? E se poi fa un incidente, non ci pensate
a queste cose? Aprite la bocca e gli date fiato”.
Praticamente era colpa nostra. Magari avessi potuto
far nevicare.
Era gennaio. L’Italia aveva vinto il Mondiale
appena tre anni fa ed io non me l’ero neanche
goduto con l’antenna del nostro televisore che
faceva le bizze quando eravamo in campeggio dalle parti
di Grosseto. E poi ero troppo piccolo. All’inizio
ero per il Camerun soltanto perché avevo dei
pantaloncini verdi. Ma in definitiva non me ne fregava
granché.
Le pozze, il fango, le pallate, le impronte. Andare
a scuola in quei giorni era una goduria. Saltavamo,
gridavamo, ci inseguivamo. Tiravamo le nostre bombe
bianche sui cruscotti delle auto che passavano. Risate.
Ci spingevamo. Felici.
Ad un tratto, non ricordo quando di preciso, cominciarono
a spuntare come cactus nel deserto dei volantini appesi
ai cartelli stradali. Erano soltanto foglietti bianchi
con le scritte nere appiccicate con lo scotch. Terrificanti.
Mettevano paura. Incutevano sgomento. Panico, spavento.
Due grandi occhi neri che ti guardavano. Sembrava lo
sguardo della Banda Bassotti, ma più intenso.
Con la scritta “Occhio ragazzi”.
Io non sapevo da che cosa dovessi guardarmi o da chi
e se era riferito anche a me. Proprio a me. Me li sognavo
la notte questi occhi che mi infilzavano con la loro
espressione malefica e accigliata. Erano cattivi. Forse
mi sarei dovuto guardare le spalle proprio da loro.
Non capivo.
La parola Mostro era sulle tavole, nei giornali, a scuola,
tra le mamme sui gradoni ad aspettarci, ai giardini,
in cortile, al mercato, allo stadio. Era uno che andava
per i boschi ed ammazzava uomini e donne che erano insieme
in quel momento in macchina. Di notte, al buio. Ma che
ci facevano chiusi in macchina tra gli alberi? Non potevano
stare a casa loro? “Facevano l’amore”.
O all’amore. Sembrava un gioco. Io ero
ancora fermo alla definizione che due che si baciavano
per strada stavano facendo all’amore. E questo
mi bastava. Non mi interessava altro. Più che
altro non mi interessava l’argomento.
Ma a volte, dicevano, un uomo e una donna si ritrovavano
al buio per spogliarsi e toccarsi e a quel punto spuntavano
fuori i guardoni. Non avevo mai visto un guardone
dal vivo ma me lo immaginavo come la cosa più
schifosa di questo mondo. Un Andreotti unto, bavoso
e viscido come una saponetta lurida, tutto ripiegato
su se stesso.
3
Alle volte il babbo e la mamma uscivano fuori a cena.
Di solito il sabato, così potevano fare tardi
e la domenica dormivano un po’ di più.
Noi stavamo in casa con la nonna. Prima il solito partitone
in corridoio con la pallina di spugna a spicchi gialla
e nera che perdeva pezzi ad ogni calcio. Poi televisione,
qualche cucchiaio di Nutella di nascosto, l’A
Team. Alle undici ero già a letto. La domenica
mattina mio fratello giocava in campionato. Era bravo
in attacco. Piccolo e furtivo. Centravanti alla Romario.
Io no.
Stavo con gli occhi a guardare il soffitto, contavo
i fori nelle serrande abbassate dalle quali filtrava
la luce del lampione. Accendevo la lampada di camera
mia, guardavo la sveglia. Non erano rientrati. Sentivo
allora se mio fratello respirava. Gli mettevo un dito
sotto il naso per sentirne il calore, il respiro, il
fiato. Meno male, almeno lui c’era. E per giunta
vivo. La nonna era nell’altra stanza. Chiusa a
chiave. Imperscrutabile, imperturbabile. Dormiente nel
letto singolo dopo la morte del nonno.
Mi alzavo, vagavo per le stanze buie a piedi scalzi.
Non erano tornati. Mi affacciavo nella loro camera composta,
tutta in ordine. Le lenzuola tirate su, i cuscini con
le federe ed incise le lettere in corsivo “A”
e “L”. Il corredo del matrimonio. Sui comodini
le nostre foto. Sorrisi, abbracci, due orecchini sul
comò. La abatjour in tinta con le tende.
Vedevo già i titoli del giorno dopo su “La
Nazione”. Me li immaginavo nudi in macchina con
mille occhi a spiarli. Vedevo mia madre spogliata, mio
padre che lottava con i delinquenti. La foto di mia
madre morta, sgozzata. “Tornate a casa, vi
prego”. Fate l’amore qui nella vostra
camera. Noi non vi sentiamo neanche. Dormiamo, stiamo
zitti. Non andate nei boschi, nei campi. Vi prego.
Erano notti insonni fin quando crollavo stremato. Odiavo
il sabato, volevo il lunedì, il martedì,
i giorni normali, giorni di scuola e di lavoro quando
la sera si sta in casa e non si esce. Si mangia la cena,
si guarda il telegiornale, forse un film tutti insieme.
Ma perché mia madre doveva andare nuda nei campi?
Forse non c’è mai andata. Il lunedì
il cartello “Occhio ragazzi”, sullo stradone
per andare a scuola, era ancora lì a dirmi che
forse sarebbe stato per la prossima volta. Un altro
sabato, un’altra cena fuori, un’altra insonnia.
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