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TOMMASO CHIMENTI
"Occhio ragazzi"


1

Correndo tra macchina e macchina alla fine arrivavo a scuola. Schivavo, saltavo. Le pozze s’increspavano al mio passaggio. Tra una corsa e l’altra, col fiatone e la fronte sudata percorrevo il tratto che divideva casa mia in viale Pratese dalla scuola media Cavalcanti in via Presciani. Il piumino stropicciato, i Moon Boot gonfi e giganteschi ai piedi. Mi sentivo invincibile in quel formidabile scafandro gommato. Nessuno mi poteva scalfire. Ero grosso e muscoloso.
Stavamo al secondo piano di un palazzo nuovo completamente bianco che spuntava dietro un distributore di benzina. Scendevo di fretta le scale passando davanti alla nostra vicina calabrese. Concettina Pata. Detta Tina. Che letto al contrario era Pata Tina. E giù risate. Ogni volta passando davanti al suo uscio ne usciva un misto ragù pungente che m’inaspriva le narici. Peperoncino e cipolle di Tropea soffriggevano dalla mattina fino alla sera. Ribollivano in un pentolone da strega, da fattucchiera. Un delirio di sapori che s’innalzava fino ai piani alti e si mescolava a qualsiasi cosa avesse preparato mia madre. Diveniva tutto piccante. Anche un brodino sciocco.
La strada per arrivare a scuola era divertente. Corrado si univa a me da via Monti, Andrea da via Oriani, così come il Bianca, detto “Tanfo” perché si vantava di non lavarsi i denti, “così risparmio tempo”, diceva. Noi però ci rimettevamo la salute parlandoci faccia a faccia. Non sapeva neanche giocare a pallone. Adesso abita in Australia. Dal Neto arrivava anche Jacopo, ma noi lo scansavamo con la dovuta cura. Era un bambino strano che sapeva tutto su L’Unità, sulla Resistenza e le Brigate Rosse, sui circoli Arci e Stalin, Lenin e Mao, Gramsci e Togliatti. Non lo capivamo. Una volta volevamo scrivere con un gesso sul marciapiede “Jacopo + Bruno”. La Bruno era una nostra compagna di classe veramente cesso. Che bocciò, senza mai sbocciare, insieme ad altri nove in prima media. Né bellezza né intelligenza. Mentre stavamo scrivendo sull’asfalto, lui arrivò di corsa e ci bloccammo di scatto lasciando a metà l’opera. Fuggimmo a gambe levate sghignazzando. La scritta che apparve fu “Jacopo + Br”. Figurarsi il giorno dopo a scuola. Riunioni con i genitori, assemblee di istituto, indignazione e sbigottimento. Ma come a dodici anni già rivoluzionari. Noi non capivamo tutto quel casino. Comunque Jacopo lo scansavamo. Si scaccolava di continuo. Il professore di Tecnica diceva “poverino non è che si scaccoli è che gli fa freddo alle dita”.
Mio fratello aveva quattro anni meno di me. Cioè ce li ha ancora, non mi ha raggiunto. Mia nonna molti più di noi due messi insieme. Giocavamo a pallone in casa ed ogni tanto spaccavamo qualche soprammobile di porcellana. Mio padre, come mio nonno, è, era, rappresentante di una manifattura. E lì erano guai. Erano zoccolate lanciate a struscio per terra dalla nonna. Saettavano e prendevano velocità una volta che sfioravano il pavimento. Erano schiaffi dopo quando rientrava il capo. Il parquet solcato. I pigiami sudati marci. Intinti come diceva mia nonna. Era un sinonimo di madidi ma non credo che abbia mai usato questo vocabolo.
I miei genitori erano giovani. Mia madre attraente. Alla televisione non si sentiva altro che dolore e morte. Si passava da Alfredino nel pozzo, il treno scoppiato a Bologna o questo Mostro. Io aveva soltanto paura. Le caramelle avvelenate con la droga. Chi ti voleva rapire. Non accettare passaggi dagli sconosciuti. Se non ero a casa, a scuola, insomma dentro qualcosa, non mi sentivo al sicuro.

2

Quell’inverno dicevano che ci sarebbe stato poco olio ed anche meno vino sulle nostre tavole. Dicevano che si era bruciato tutto per colpa del freddo. Mi sembrava impossibile che il freddo potesse bruciare. Non lo trovavo logico. Le immagini alla tv erano sempre catastrofiche. Accendevi il telegiornale ed erano guai. Ma non potevamo lasciarlo spento? “Fammi vedere il telegiornale” o la variante “Zitti, c’è il telegiornale”. Era mio padre che rospava sotto i suoi capelli brizzolati arrivati prima del tempo. L’attaccatura alta un po’ stempiata.
Uliveti ricoperti di neve. Li ricordo. Campi interi bianchi come il sale. La gioia mia e di mio fratello stoppata con un nuovo senso di colpa fresco di giornata. “Siete contenti per la neve? E non ci pensate a vostro padre tutto il giorno con la macchina in giro per le strade? E se poi fa un incidente, non ci pensate a queste cose? Aprite la bocca e gli date fiato”. Praticamente era colpa nostra. Magari avessi potuto far nevicare.
Era gennaio. L’Italia aveva vinto il Mondiale appena tre anni fa ed io non me l’ero neanche goduto con l’antenna del nostro televisore che faceva le bizze quando eravamo in campeggio dalle parti di Grosseto. E poi ero troppo piccolo. All’inizio ero per il Camerun soltanto perché avevo dei pantaloncini verdi. Ma in definitiva non me ne fregava granché.
Le pozze, il fango, le pallate, le impronte. Andare a scuola in quei giorni era una goduria. Saltavamo, gridavamo, ci inseguivamo. Tiravamo le nostre bombe bianche sui cruscotti delle auto che passavano. Risate. Ci spingevamo. Felici.
Ad un tratto, non ricordo quando di preciso, cominciarono a spuntare come cactus nel deserto dei volantini appesi ai cartelli stradali. Erano soltanto foglietti bianchi con le scritte nere appiccicate con lo scotch. Terrificanti. Mettevano paura. Incutevano sgomento. Panico, spavento. Due grandi occhi neri che ti guardavano. Sembrava lo sguardo della Banda Bassotti, ma più intenso. Con la scritta “Occhio ragazzi”. Io non sapevo da che cosa dovessi guardarmi o da chi e se era riferito anche a me. Proprio a me. Me li sognavo la notte questi occhi che mi infilzavano con la loro espressione malefica e accigliata. Erano cattivi. Forse mi sarei dovuto guardare le spalle proprio da loro. Non capivo.
La parola Mostro era sulle tavole, nei giornali, a scuola, tra le mamme sui gradoni ad aspettarci, ai giardini, in cortile, al mercato, allo stadio. Era uno che andava per i boschi ed ammazzava uomini e donne che erano insieme in quel momento in macchina. Di notte, al buio. Ma che ci facevano chiusi in macchina tra gli alberi? Non potevano stare a casa loro? “Facevano l’amore”. O all’amore. Sembrava un gioco. Io ero ancora fermo alla definizione che due che si baciavano per strada stavano facendo all’amore. E questo mi bastava. Non mi interessava altro. Più che altro non mi interessava l’argomento.
Ma a volte, dicevano, un uomo e una donna si ritrovavano al buio per spogliarsi e toccarsi e a quel punto spuntavano fuori i guardoni. Non avevo mai visto un guardone dal vivo ma me lo immaginavo come la cosa più schifosa di questo mondo. Un Andreotti unto, bavoso e viscido come una saponetta lurida, tutto ripiegato su se stesso.

3

Alle volte il babbo e la mamma uscivano fuori a cena. Di solito il sabato, così potevano fare tardi e la domenica dormivano un po’ di più. Noi stavamo in casa con la nonna. Prima il solito partitone in corridoio con la pallina di spugna a spicchi gialla e nera che perdeva pezzi ad ogni calcio. Poi televisione, qualche cucchiaio di Nutella di nascosto, l’A Team. Alle undici ero già a letto. La domenica mattina mio fratello giocava in campionato. Era bravo in attacco. Piccolo e furtivo. Centravanti alla Romario. Io no.
Stavo con gli occhi a guardare il soffitto, contavo i fori nelle serrande abbassate dalle quali filtrava la luce del lampione. Accendevo la lampada di camera mia, guardavo la sveglia. Non erano rientrati. Sentivo allora se mio fratello respirava. Gli mettevo un dito sotto il naso per sentirne il calore, il respiro, il fiato. Meno male, almeno lui c’era. E per giunta vivo. La nonna era nell’altra stanza. Chiusa a chiave. Imperscrutabile, imperturbabile. Dormiente nel letto singolo dopo la morte del nonno.
Mi alzavo, vagavo per le stanze buie a piedi scalzi. Non erano tornati. Mi affacciavo nella loro camera composta, tutta in ordine. Le lenzuola tirate su, i cuscini con le federe ed incise le lettere in corsivo “A” e “L”. Il corredo del matrimonio. Sui comodini le nostre foto. Sorrisi, abbracci, due orecchini sul comò. La abatjour in tinta con le tende.
Vedevo già i titoli del giorno dopo su “La Nazione”. Me li immaginavo nudi in macchina con mille occhi a spiarli. Vedevo mia madre spogliata, mio padre che lottava con i delinquenti. La foto di mia madre morta, sgozzata. “Tornate a casa, vi prego”. Fate l’amore qui nella vostra camera. Noi non vi sentiamo neanche. Dormiamo, stiamo zitti. Non andate nei boschi, nei campi. Vi prego.
Erano notti insonni fin quando crollavo stremato. Odiavo il sabato, volevo il lunedì, il martedì, i giorni normali, giorni di scuola e di lavoro quando la sera si sta in casa e non si esce. Si mangia la cena, si guarda il telegiornale, forse un film tutti insieme. Ma perché mia madre doveva andare nuda nei campi? Forse non c’è mai andata. Il lunedì il cartello “Occhio ragazzi”, sullo stradone per andare a scuola, era ancora lì a dirmi che forse sarebbe stato per la prossima volta. Un altro sabato, un’altra cena fuori, un’altra insonnia.