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CLAUDIO MAGRIS
"Le fini des mers"


Laura Mazzi legge Claudio Magris
Idea scenica da "Alla cieca" di Claudio Magris di Marco Marchi
Musiche di Richard Strauss

Buio.
L’attrice, già al leggio, è illuminata lentamente con l’inizio della musica (luci e sfondo sul blu, ad indicare il mare, il mare di notte, e attrice quasi avvolta in quel blu cupo e cangiante, protesa, rigida ed instabile come una polena sull’acqua in una fredda luce lunare; ad accrescere il suggerito ”effetto-polena”, un riflettore proietta a lato l’ombra di profilo dell’attrice che legge).

Richard Strauss, “Morgen” (inizio, prima del canto, versione per orchestra)

“Un matin nous partons (…). Et nous allons, suivant le rythme de la lame / Berçant notre infini sur le fini des mers” (Ch. Baudelaire, “Le voyage”, I, in “Les fleurs du mal”; detto su musica, poi inizio lettura da “Alla cieca” senza musica).

Altro che vello e coperte e bandiera, solo Maria sapeva farmi passare la paura, in quel seno che mi riparava dalla furia del mare. In quegli occhi vedevo il mio volto, ora gli specchi sono vuoti. Sapete, per caso, dov’è finito il compagno Cippico (…) consenziente alla decisione del Partito di lasciare Maria dall’altra parte di quella frontiera, di abbandonarla alla vendetta dei boia di Goli Otok, dopo che lei, per me, si era giocata tutto ? Sì, lo so, questo è successo dopo, tanto dopo Milano e Torino e Fossano e Guadalajara e tutti i luoghi dove ci hanno sbattuto – in un dopo assoluto, dopo la mia vita, perché quando ho taciuto davanti a quella decisione del Partito sono scomparso. Irreperibile. Displaced person. Pure questo certificato di diplaced person è venuto ancora più tardi, ma per voi, non per me. Per i morti non esiste il prima e il dopo; nell’Ade tutte le ombre sono insieme e non sono (…).
La mia nave tagliava dritta le onde quando Maria era in prua. Quando mi hanno detto di gettare in mare la polena, ho obbedito. L’ho recisa con un colpo di scure e l’ho lasciata cadere in acqua, per far navigare più veloce la nave senza zavorra. Le onde l’hanno portata via. Ma la nave, quando lei se n’è andata, era di colpo pesante. Una bonaccia mortale la serrava fra le acque e noi a sbracciarci, galeotti al remo, a tuffare le pale nelle acque appiccicose. Ogni tanto ti cercavo, scendevo nei fondali bui dove ti avevo lasciata cadere, alghe melmose mi si aggrovigliavano alle braccia e ai capelli e coprivano gli occhi, solo relitti mi venivano in mano, un sudicio Orfeo emergeva dimentico di Euridice, si rimetteva obbediente al remo e, quando glielo si ordinava dal ponte di comando, si metteva ubbidiente a cantare, a edificazione della ciurma, la gloria dell’impresa. (…)

La notte è bianca, chiara; non c’è notte, solo un giorno perpetuo, in cui il sole sembra essere sempre tramontato ma non sparire mai. Snorri, il poeta che cantava le spade ma ne aveva paura, dice che, nell’ordine delle cose, l’uomo viene subito dopo l’estate. Ho sfogliato quel suo vecchio libro che parla di uomini, di dèi e di metafore che trasformano incessantemente gli uomini, gli dèi e tutte le cose del mondo, facendole scorrere e trascolorare le une nelle altre. Me l’ha mostrato il prevosto Magnussen, nella biblioteca di Bessastadir, traducendomi qua e là qualche verso. Gli scaldi, mi ha spiegato, gli antichi poeti d’Islanda, cantavano il destino e la morte e chiamavano ogni cosa col nome di un’altra. Forse era anche un modo di sfuggire alla morte. Anch’io sono abituato ad avere molti nomi – cadono uno dopo l’altro, ma dopo ognuno ce n’è un altro; se uno è morto, l’altro è vivo e così avanti, confondendo le carte a tutte le polizie del mondo.
Per questo non mi prenderanno, almeno sino alla fine, quando calerà l’eterna notte artica, quel buio finale in cui muoiono le metafore e dunque anch’io, ma ora è estate, il lungo giorno della nordica estate, il mio giorno da re. Prima dell’uomo, dice il libro del vecchio Snorri, nella gerarchia dei nomi vengono gli dèi, le dee, la poesia, il cielo, la terra, il mare, il sole, il vento, il fuoco, l’inverno e l’estate. Io vengo subito dopo l’estate. (…) Mi inoltro in questa estate, in questo perpetuo indugiare nella luce del crepuscolo. Quando ci trasportavano a Dachau era sempre notte, nel vagone piombato. In quel vagone ero nella notte artica del mondo, nel nero più nero che ci sia mai stato. Sapevo che, perché la vita fosse degna di essere vissuta, dovevamo grattar via quel nero dalla faccia della terra. E, perdio, ci siamo riusciti e questo conta più di tutto. Sì, Giasone è ladro e mentitore e, dopo la vittoria, si è comportato da porco. Sì, sono anche un porco. Ma ho ucciso il drago, che avrebbe stritolato e divorato il mondo; si proclamava millenario, quel regno del drago, prometteva mille anni di Dachau, ma l’ho distrutto dopo dodici, l’ho mandato in pezzi come un vaso da notte. Ho trafitto il drago e mi merito, ci meritiamo il vello, compagni; è vero che poi lo abbiamo insozzato, ma quel vello rosso del nostro sangue e di quello del mostro è la rossa bandiera dell’estate. Il nero di quei vagoni piombati pareva eterno e incancellabile, ma a Stalingrado la neve lo ha coperto di bianco e lo ha lavato come un qualsiasi sudiciume. Mi piace il bianco, il bianco della neve, dell’Islanda.
Cavalcavo in quel chiarore opaco ascoltando Brarnsen. Mi raccontava di essere stato una volta per tre giorni su un pallone frenato (…). Lassù è bellissimo, dice. Nuvole si sfasciano come muraglie, grandi onde nere del cielo dissolte da un raggio di sole, la terra che fugge scura e veloce.
Lo ascolto distratto, guardandomi intorno. Fiumi di lava rappresi, bolle che proliferano nel deserto di cenere e licheni, escrescenze maligne. Quel fiato mefitico imprigionato è la flatulenza dell’abisso, rutto della fornace che macina la vita e la morte. Il fetore è l’araldo della morte. Solo a sentire il fiato e l’odore del drago, Giasone indietreggia, il braccio con la spada sguainata ricade. E’ difficile non avere paura quando senti quell’odore. Quando il vento soffiava d’improvviso non verso le baracche del Lager, a Dachau, ma verso le caserme delle SS, portando il puzzo che usciva col fumo dal camino dei forni crematori, i canarini nelle gabbiette smettevano di cantare e si afflosciavano. Li tenevano per questo, i carcerieri, per sapere quando spegnere i forni, prima che quel fetore arrivasse da loro. Non era solo ribrezzo; era anche paura, credo, e tanta, come del resto in ogni ribrezzo.(…)

Richard Strauss, “Ruhe, mein seele” (inizio, prima del canto, versione per orchestra; ripresa lettura senza musica)

Attraversare la notte, attraversare il mare. Non come un albatros dalle ali spiegate. Come un serpente degli abissi. Il treno corre nella notte, le finestre accese nel buio, le scaglie guizzano, perforano le acque delle tenebre. Il suo ventre è zeppo di naufraghi, ma il mostro è longilineo e scattante, siluro che colpisce senza remissione. Trieste Roma Francoforte Hannover Bremerhaven; il viaggio è lungo, giorni e notti ma soprattutto notti. Guardo fuori dall’oblò, è difficile dormire così pigiati in tanti nello scompartimento. Treno, stiva, vagone piombato…
Raminghi, colpevoli e senza casa come galeotti. Acque nere della notte. L’oblò illumina per un attimo ciuffi d’alberi, pali della luce, cespugli subacquei fluorescenti, case spente, carcasse affondate; un enorme pesce luna svanisce in una spuma più densa nel cielo nero.
Il cuore si stringe mentre ti portano via, lontano, e allora ci si mette a parlare, a raccontare. Una manciata di storie frantumate, un pugno di sabbia che si disperde nel mare. Quando l’acqua ti prende alla gola fa bene parlare, anche se in quel gorgogliare si capisce poco e le parole sono singulti, bollicine d’aria che escono dalla bocca di chi è stato tuffato sotto, salgono alla superficie e scoppiano – al mare era doveroso tociar le mule, spingere la testa delle ragazze sott’acqua. Solo al Pedocin, con quella separazione tra maschi e femmine, non si poteva.
Parole nelle tenebre, piccoli pesci sgusciati dalla rete e risucchiati nei gorghi – puoi confessare qualsiasi cosa, pigiato nello scompartimento morto di sonno e incapace di dormire, infamie vere e inventate. E’ uno strano piacere, in quel buio, sentirsi miserabili, immondizie scaricate dalla nave. E’ vietato gettare i rifiuti dai finestrini, gettarsi nel buio. E’ proibito varcare i confini degli Inferi, profanare la divina Samotracia, i misteri tremendi degli dèi indicibili ai mortali. “I riti sacri a noi non è concesso cantare”. Ma nel buio, nel viaggio che ci porta chissà dove, è un maligno sollievo profanare quei misteri indicibili – non ci si vede in faccia, il sacrilegio non ha volto, e allora racconti tutto ciò che hai visto e non avresti dovuto vedere, se a reggere il mondo fossero gli dèi luminosi dell’Olimpo e non le divinità antichissime della Notte e dell’Erebo. (…) Ognuno racconta come è diventato uomo, le orribili iniziazioni di violenza d’infamia e di morte – Gli argonauti a Samotracia ascoltano l’urlo della Grande Madre, quando il serpente la stupra e la feconda, il gemito del dio neonato e fatto a pezzi, il rombo delle acque che scrosciano nel tunnel oscuro e lavano il sangue.
Sozzo e banale mistero che non si può dire – l’iniziazione sacra che ti fa uomo quando tocchi con mano la lurida tenebra che ti avvolge, mefitica esalazione delle paludi stigie, quando ti accorgi dell’infamia e subito la commenti, quando il fango con cui bambino facevi castelli sulla spiaggia si rapprende e diventa il tuo cuore secco e inerte. (…)

Richard Strauss, “Ruhe, mein seele” (come prima, ripresa lettura senza musica)

Questa è Galatea. E’ stata trovata su una spiaggia africana dopo il naufragio, ed è stata adorata dagli indigeni come una dea; altre sono finite a adornare locande e taverne, così i marinai si sentivano un po’ a casa anche quando scendevano a terra.
Vede, le polene le hanno sfrattate dal mare e si barcamenano come possono, ne ho scoperta più d’una sotto l’acconciatura esposta in vetrina da un parrucchiere o sotto il vestito di un negozio d’abbigliamento – ben mascherata, un manichino come si deve, ma a me non è sfuggita. Però ho fatto finta di niente, ognuno si arrangia come può. Una, legga qui, quella della Rebecca, una baleniera di New Bedford, l’abbiamo sepolta fra i sassi in riva al mare. Sotto le ossa dell’onda, si dice in Islanda, abbiamo bevuto una birra in suo onore, la sua birra funebre; pure le donne devono averla, è giusto, ci siamo ubriacati e abbiamo cantato sulla sua tomba di rena e di sassi l’ufficio dei defunti. Anche sconcezze, come è giusto; la morte è sconcia e il dolore è sconcio. Vorrei pisciare sulla mia tomba, su una tomba bisogna annaffiare i fiori, no? Lo faccio anche, quando nessuno mi vede, là, nel parco di Saint David.
Su quella di Rebecca abbiamo solo rovesciato della birra, ma non l’abbiamo fatto apposta, è che eravamo un po’ ubriachi; del resto le onde l’hanno lavata via subito, quell’odore rancido è svanito nella salsedine e adesso non c’è più niente, neanche la tomba, la marea l’ha grattata e risucchiata via, forse ora lei fluttua in alto mare, corrosa dall’acqua, legno che non si distingue più da qualsiasi altro relitto d’un naufragio. Anche un viso di carne si guasta presto, i pesci lo divorano ed è subito irriconoscibile, un’irriconoscibile immondizia del mare. Maria l’ho spinta io, in alto mare e sotto il mare; l’ho buttata in pasto agli squali e così hanno risparmiato me. Feroci zanne l’hanno strappata dalle mie braccia – no, sono io che l’ho lasciata andare, che l’ho ficcata fra quelle zanne, ancora più avide, perché il suo cuore sanguinava e le bestie al sapore del sangue si eccitano ancora di più, gli aguzzini frustano con più allegria quando vedono il rosso colare dalle schiene.
Così è sparita in quel mare scuro, in quell’ombra. Ma ho letto che qualche volta le polene naufragate ritornano. Maria è sparita nel mare aperto, la nave è dileguata all’orizzonte e quando ho sentito dire che stava ritornando in porto ho anche sentito dire che tornava senza di lei – lei non c’era più, l’avranno buttata fuori bordo a tradimento, certo come potevo pensare che una piccola spinta…
Ho letto, nel catalogo, di uno scultore che aveva scelto la sua bellissima donna quale modello per la figura di prua della nave su cui lei partiva per un lungo viaggio – per lei, poco dopo, il più lungo di tutti, è morta. Lui ogni giorno guardava sconsolato il mare, non poteva credere che fosse morta e quando la nave è rientrata in porto ha visto, ritta in prua, la polena, identica a lei, si è gettato in acqua per andarle incontro, smanioso di abbracciarla, ma è andato sotto. Gonfio, stordito, acqua nel naso nella bocca nelle orecchie, impossibile veder passare la nave, se lei c’era o non c’era. Non c’era, Euridice sparisce; guardi che bella, questa Euridice che si asciuga le lacrime con un lembo del mantello che l’avvolge. Sta anche lei a La Spezia, scrivono sotto; vediamo se mi riesce di rifarla bene, quel mantello è l’acqua buia, la notte, il fondo del mare, me lo tirerò sulla testa e staremo là sotto, vicini, abbracciati…

Richard Strauss, “Morgen” (inizio, versione per orchestra)

“Io mi sono mosso insieme con le spume del mare. (…) Io son venuto molto di lontano, avvicinandomi a me stesso; ma non toccandomi mai”. (F. Tozzi, “Allegorie”, in “Barche capovolte”; detto su musica; effetto-flash sull’attrice prima del buio).
Buio.
Fine.

I brani di Alla cieca sono tratti dai capp. 21, 33, 65 e 84. Alla cieca di Claudio Magris è edito da Garzanti.