Stavo
sotto pressione come una pentola, sbuffavo e mi usciva
aria calda. Macinavo ore e ore in ditta e le giornate
svoltavano una dopo l’altra,
si rincorrevano leste, come un branco di cani dietro
una lepre. Ordinavo tonnellate di solventi, pigmenti,
barattoli e altre diavolerie simili. Camionisti stanchi,
con la catenina d’oro che ballava sul petto sudato,
arrivavano dalla Francia, dalla Lombardia, dalla Slovenia
o chissà da dove! Esaudivano le richieste conducendo
docili autotreni verso lo stabilimento. Autobotti argentate,
rosse, blu varcavano il cancello, spinte dal ronzio
del motore al minimo e si fermavano davanti al casotto
della pesa, piene di materie prime sfuse. Mi sentivo
un mago! Abracadabra missingribi missingraba! Alzavo
il telefono, mandavo un fax, una e-mail e giù camionate
di troiai prendevano la via del padule del Bientina.
Un grande manovratore! Il materiale, come d’incanto
veniva inghiottito negli stretti e sudici meandri della
fabbrica. Branchi sterminati di barattoli di diluenti,
smalti, idropitture, uscivano in fila indiana dalle
macchine confezionatrici e riposavano sui bancali,
stretti dalle strisce di cellophane. Autotreni ruggenti
ripartivano per le consegne in tutte le parti d’Italia.
I più coraggiosi percorrevano la via del grande
Annibale, al contrario, arrivavano in Francia, Spagna,
Portogallo. Un po’ di melma sfusa partiva per
qualche paese arabo. Containers s’imbarcavano
dal porto di Livorno per gli Emirati Arabi Uniti, Qatar,
Oman, Arabia Saudita, Giordania. Fusti da duecento
litri, bianchi come il latte, pieni di smalti verdi,
gialli, arancioni, solcavano il Mediterraneo, attraversavano
il canale di Suez e arrivavano a destinazione. Pagamento
30-60, fine mese, bonifico bancario, valuta fissa.
Cartellino d’entrata,
otto e trenta. Ero un autentico impiegato modello,
mi sentivo un masso di razionalità, di umiltà,
di buona disposizione d’animo. Andavo incontro
alle pene del giorno, cercando di scansarne qualcuna.
Viaggiavo spedito sulle solite corsie, dal lunedì al
venerdì, fino alla fine dell’anno, al
lume della luce artificiale, nel mezzo del padule del
Bientina, solcato da fossi d’acqua putrida. Sveglia,
colazione, casa, ufficio, pianti, risa del bimbo, qualche
urlo sul lavoro, corse. Noia! Noia…noia...Un
sentimento fine come la polvere che s’infilava
negli interstizi della vita, di tutti noi. Seguivo
la logistica. Programmazione giornaliera, rapporti
coi fornitori, riunioni operative col magazzino e la
produzione. Sgomitavo come chiedeva l’azienda.
Davo del tu e del lei, secondo la posizione gerarchica.
Stile libero, avevo una grande bracciata, andavo a
fondo nell’acqua putrida, autentico bottino.
Correvo per non rimanere indietro. Mi specchiavo negli
altri che giravano intorno e non vedevo una bella faccia.
Procedevo con le ruote sgonfie, avanzavo carponi nella
vita, mese dopo mese, galleggiavo nei giorni, tiravo
avanti.
Un pomeriggio capitai
a Lucca, per un corso d’aggiornamento alla Camera
di Commercio. Camminavo a passi spediti, con la borsa
di pelle, le scarpe incerettate, tirato a lucido. Vidi
le mura massicce, mattoni e terra, che si stagliavano
davanti, gli alberi s’innalzavano regali, a corona,
oltre svettava il campanile bianco, merlato, di San
Martino. Mi fermai sotto il portico del duomo, mi incuriosirono
i bassorilievi medievali, alzai la testa, presi a fissarli
attentamente. Ogni mese una formella. Ianuarius, in
gonnellino, seduto su un panchetto, un uomo filava.
Februarius, sempre un tizio in gonnellino, senz’altro
della medesima famiglia, pescava con una canna e un
cestino a tracolla. Martius, il solito ometto di gennaio,
col gonnellino che potava una vite. Aprilis! Maius!
Iunius, un contadino triste, segava il grano con la
falce. Li avevo visti anch’io, schiere di donne
e di uomini, piegati, giù per le piagge, a segare
a mano, legare le manne e tirare su le barche del grano.
Le mani nodose, callose, gonfie, sbucciate, le unghie
forti, nere, le stoppie che grattavano la pelle a sangue.
Mio padre, mia madre, e gli altri della truppa che
grondavano al sole, mentre aspettavano un mondo migliore.
Il fiasco dell’acqua all’ombra d’una
quercia, la zuppa di fagioli, il desinare di mezzogiorno,
nella borsa di paglia. Iulius! La battitura del grano
col correggiato. Augustus! Il contadino raccoglieva
i frutti. September pigiava l’uva nel tino, come
facevo io, coi miei cugini al podere I Massi. L’uva
si schiacciava, morbida, sotto i nostri piedi. October,
il vino nelle botti. November si aravano i campi. December,
il contadino in gonnellino ammazzava il maiale. A capo
all’ingiù, la bestia allungata gocciava
sangue. Il maiale ha pianto prima d’essere scannato.
Iiiiih! Iiiiih! Iiiiih! Iiiiih! Iiiih! Io l’ho
sentito! I suoi lamenti ci rincorrevano. L’avremmo
dimenticati, davanti alle salsicce, alla grassa pancetta,
al mallegato con l’uva passa e i pinoli, ai fegatelli
cogli spinaci, al bicchiere di vino nero come la pece.
La sera, al ritorno, sulla strada per Laiatico svuotai
il serbatoio. La brezza dolce arrivava dal mare. Tempesta
all’orizzonte,
presto sarebbe girato a scirocco, vento alle spalle,
il birillo spingeva lungo. Una cappa infinita di stelle
sopra la testa. Lari, Laiatico, Orciano, Santa Luce,
il vento spazzolava il grano verde, ancora qualche
boccata d’aria e poi sarei ripartito per Colle
Bazzano. Buio fitto! Ballavo nel mezzo della strada
deserta tra le colline d’erba, ballavo come Cassius
Clay, il più grande. Muhammed Alì aveva
il destro, il sinistro, sul quadrato si muoveva come
un angelo, parlava come un diavolo, e teneva qualche
quintale di sale in zucca.
Ho sempre avuto un bel
gancio sinistro, picchiavo sodo! Da ragazzo, se qualcuno
mi stuzzicava, in quattro e quattr’otto lasciavo
partire dei briscoloni. Ero tra i più bassi
del gruppo, mica un nanerottolo! Uno e settantacinque.
Quadrato come Joe Frazier, mancino come lui e piacevo
alle donne. Un gran bel mancino, l’unico della
mia famiglia, mancino in tutto. Da dove ero uscito?
Sapevo scrivere indifferentemente da sinistra a destra
e da destra a sinistra, come gli ebrei e gli arabi,
anche se da sinistra a destra mi macchiavo le mani
e sporcavo le camice.
Rientrai in macchina,
le stelle immobili in cielo, non passava anima viva.
Terra! Intorno solo terra! Qualche casa e terra! Terra!
Terra! Mezzadri da quando? Dal millecinquecento, forse
prima. Tutti in fila, e alla fine ero nato io. Ragazzi,
dormite tranquilli! Non mi dimenticherò di voi.
Partendo dal millecinquecento, quattro generazioni
ogni cent’anni, sono una ventina di Solatii che
m’avevano preceduto. Mica scherzi! Contadini,
mezzadri. Colle Bazzano, Guardistallo, Pomarance, Colle
Val d’Elsa, Rosignano e poi chissà, sempre
lì intorno, un bel pezzo di Toscana, non c’è che
dire! Qualcuno era rimasto contadino! La maggior parte
abbandonarono le bestie, i campi di grano, la sulla,
le vigne. Mio padre nel 61 lasciò i campi e
diventò manovale, avrebbe finito la carriera
come muratore di seconda.
Da Colle Bazzano gli
uomini entravano all’acciaierie di Piombino e
alla Solvay di Rosignano. I più partivano alle
sei, in motore o in bicicletta, imbacuccati, con un
foglio di giornale sotto il maglione e la borsa del
mangiare dietro. Con lo stesso giornale preparavano
il cappellino, mentre impastavano la calcina. Rena,
calce e acqua. La pala spingeva. Manovali dalle spalle
robuste, in calzoncini corti, bassi in vita, mezze
mele abbronzate, vecchi muratori sdentati che ci davano
di mestola, con la bolla, il filo del piombo, che smazzolavano
sulle pietre. I visi screpolati dal sole, la pelle
dura, la barba lunga di una settimana, bianca e nera.
Nacqui di sette mesi e mezzo, un chilo e novecento.
Non ero Maciste! Piccino picciò, sembravo un
coniglio spellato. A quindici mesi davo già delle
belle soddisfazioni. Chiamavo mamma, babbo, nonno.
Dicevo bombo, pappa. Bubu era il cane. Avevo messo
sei denti, quattro sotto e due sopra e sapevo camminare
a due zampe anche se non riuscivo a curvare, andavo
solo avanti e indietro e per girare mettevo il culo
in terra. Acqua, vento, ghiaccio, sole. Le rondini
che andavano e venivano, gli scioperi politici, le
tessere in tasca, le bandiere sbatacchiate dai venti,
pettirossi sui cipressi, i mezzadri diventavano muratori,
i pescatori operai. Si continuava a tagliare le macchie,
il bosco ceduo. Accette, pennati, motoseghe, segacci.
Si buttavano giù ornelli, querce, lecci, cerri,
scope. La legna si scollettava coi muli dalle macchie
sulle strade. Un metro, due metri, cento metri di legna.
I carbonai facevano il carbone, gli stranieri dal nord
Europa arrivavano sul mare, la notte si continuava
a stendere i tramagli e pescare con la bilancia. Si
coglievano le olive e si mangiavano le nespole, l’uva
spina, quella fragola, lo zibibbo, il trebbiano. La
malvasia seccata diventava vin santo. Le verghe la
notte si armavano, andavano su e giù in bui
cunicoli caldi, liquidi lattiginosi a giro, una via
di mezzo tra il brodo e il latte. Da quel seme nascevano
i bambini! Le cicogne? Balle! Nelle nostre terre non
si ricordava più una cicogna da cent’anni
e i bimbi continuavano a nascere lo stesso! I richiami
dei caprioli echeggiavano nelle valli umide come cani
fiochi. Il cuculo cantava solitario, prigioniero del
suo vigliacco destino. Gli usignoli ricamavano coi
loro canti la notte, salutando la vita.
Nel dopoguerra
a Colle Bazzano arrivarono da giù, a branchi,
famiglie di vecchi, giovani, marmocchi, braccia in
cerca di terra, di lavoro, gente forte. Dalla Sicilia
i Candelise, gli Anastasia, gli Scalisi, i Biancone,
i Bellanti, dalla Basilicata i D’Aria, dalla
Campania i Mastroquattro, i Cucchiaro, dall’Abruzzo
i Nerotti, i Mazzia. Scesero anche dall’Appennino
reggiano come pastori, venivano d’inverno per
la transumanza, cercavano i pascoli e trovarono le
mogli. Si infilarono a Colle Bazzano, erano come noi,
pazienti, allegri, scontrosi, ignoranti, sapienti.
La famiglia di Pietro Buscemi detto il Monaco arrivò da
Montelepre, quattro fratelli, tre maschi e una femmina,
la mamma vedova. Lui, una roccia, Ercole in terra,
portava delle fascine sulle spalle come un mulo, un
siciliano dal sangue normanno. Fu ricoverato all’ospedale
di Volterra per un esaurimento, da lì passò al
manicomio.
Noi Solatii eravamo
fantastici, pescavamo tutti meravigliosamente. Rezzaglio,
canna, tramagli, barchino da terra con tre, cinque
o quattordici ami. Spalla a spalla, l’orchestra
Solatii suonava la sua musica, come mancino uscivo
di rovescio rispetto agli altri. La foce era piena
di gente con le spalle larghe e il cervello fino. Amos
Favilli, contadino, Renato Bianchi, operaio, Alberto
Cicalini, contadino, Armido, Guido e Mario Ulivi, tre
fratelli, operai e contadini, e una altra quarantina
di querce dalle braccia robuste. Suonavamo sulla foce
della Sterza una melodia misteriosa, solo noi la sapevamo
ascoltare. Conoscevamo le correnti, le secche, le buche,
le alte e le basse maree, quando il fiume con la torba
avrebbe portato le spigole nelle reti. L’alba
e il tramonto erano i nostri momenti, carichi di borse,
prigionieri dei sogni, i piedi affondavano sulla battigia,
le dita raspavano nella rena, l’acqua ci rinfrescava.
In fila indiana camminavamo verso le buche. Il fiume
d’inverno sfondava diretto, la bocca larga come
cento balene. D’estate piegava pigramente, camminava
per un chilometro a poche centinaia di metri dal mare,
e si tuffava con un rigagnolo stretto, timido, nell’acqua
salata. Pescatori di terra! Guardavamo il mare con rispetto.
Tutti avevamo la baracca sul fiume, il barchino di palude
e tiravamo il rezzaglio secondo le buone creanze, da
più di duemila anni.
L’unico di noi
che non pescava era mio zio Corrado Macchiatelli, primo
spazzino del paese e becchino all’occorrenza.
Un giorno d’estate io e Francesco Volterrani
scendemmo nell’ossario insieme a lui. Dovevamo
recuperare due teste di qualche nostro antenato. Il
sindaco aveva dato il benestare. Un teschio lo prendeva
Massimiliano Semoli, medico di Colle Bazzano, e l’altra
testolina sarebbe servita al Volterrani, studente di
medicina all’università di Pisa. Ossa!
Ossa! Montagne d’ossa dappertutto! Non c’era
da aver paura. Ci conoscevano. Erano quelli arrivati
prima di noi. Lo stesso seme. La stessa terra. La stessa
polvere saremmo diventati noi. Polvere! Polvere! Che
la tramontana avrebbe soffiato via, che la pioggia
avrebbe trascinato nel padule, che la Sterza avrebbe
portato in mare, che i pesci avrebbero mangiato, che
gli uomini avrebbe pescato. Col rezzaglio. Il lancio
perfetto. Rotondo! Come la terra che gira intorno al
sole, che riscalda la nostra vita. Come le donne che
riscaldano i nostri cuori.
Nel nuovo millennio
la terra continuava a camminare a rimorchio del sole,
le stelle non sappiamo dove fossero dirette, la notte
e il giorno si mordevano la coda, i cinghiali si inseguivano
fiutando gli istinti della vita, cespugli di rose bianche
scendevano dai muri d’arenaria, si moriva di
tumore al polmone dopo avere fumato per una vita nazionali
senza filtro, i fegati spappolati si portavano via
giovani donne. Qualcuno decideva di partire prima del
tempo e lasciava dentro di noi un dolore infinito!
Il mondo galoppava, giorno e notte. Le verghe si infilavano
in buchi stretti e larghi, i piccoli camminavano a
quattro zampe, la Sterza instancabile buttava acqua
in mare, scorrendo nel padule di Colle Bazzano. I peschi
fiorivano, i mandorli fiorivano, i ciliegi fiorivano,
tracce di mercurio nel Cecina, l’Arno d’argento
portava merda quotidiana in mare, gli infarti piegavano
i ginocchi degli uomini, i bimbi piangevano appena
messa la testolina bagnata fuori dal ventre delle madri,
acciughe, crognoli, paranze, triglie, aguglie, tracine
si avvicinavano alla costa, lecce, orate, spigole,
sugarelli, cheppie rimanevano impigliate nelle reti
di pescatori contadini, il cielo stellato osservava
i nostri passi accompagnati al frangere delle onde,
i giovani continuavano a essere giovani a quarant’anni
senza avere un lavoro stabile e una famiglia, milioni
di disperati si incamminavano da una parte all’altra
del mondo, molti galleggiavano sulle onde senza essere
riusciti a toccare la terra promessa. Il mondo girava.
All’estate seguiva l’autunno, nei boschi
crescevano ginepri e pungitopo, porcini e boletus satana,
le rondini riprendevano la strada della Cina e i pettirossi
gareggiavano con gli scriccioli sui rami spogli dei cerri.
Incredibile! Si continuava a ballare a tempo di valzer,
di slow fox, di mambo, e fregandosene della scienza e
del progresso gli uomini e le donne si accoppiavano come
animali. I maschi inseminavano le femmine dalle verdi
età fino ai cinquanta, sessanta, settant’anni.
Qualche eroe provava a fottere con ragazze sopra gli
ottanta, ma ci voleva un gran fisico. Un mondo brutto
e bello che qualcuno continuava a pensare infinito. Si
rifletteva sul creatore di ogni cosa. Le bombe dilaniavano
i nostri corpi, da qualche parte si squartavano donne
e uomini, con le accette, in nome di un essere superiore.
Purgatorio! Inferno! Paradiso! Il limbo era caduto in
disuso, l’acqua continuava a scorrere nel fiume
Sterza, a ristagnare nel padule di Colle Bazzano, gli
eleganti cavalieri d’Italia passeggiavano nei campi
bassi, terra nera in padule, diventava rossa, piena di
calore, su per le piagge di Colle Bazzano, mattaione
intorno a Volterra. Ci si ingozzava con scafardate di
triglie e baccalà alla livornese. Il cacciucco
era sacro. Misterioso! Cacciucco. Sacro come il cous
cous d’Algeria. Si continuava a bere fiumi d’alcol
che permettevano di guardarci intorno con ottimismo,
il chianti di Greve, il rosso di Montalcino, il bianco
di Montecarlo, la vernaccia di San Gimignano, la malvasia
di Bosa, il rosso di Magomadas, il marsala siciliano,
l’aleatico dell’Elba. Un bicchiere di rosso
dolce dell’isola si bevve per Mohammed Alì quando
vinse contro Foreman, io, il mio babbo, Arturo Solatii
in persona, e mio cugino Lorenzo, Solatii anche lui.
La damigianina da cinque litri la tenevamo in salotto,
sopra il mobile di formica verde, cinque le dita per
zampa delle balene della Certosa di Calci, cinque come
le nostre dita, cinque gli scalini che portavano in casa
mia, fino a cinque imparai a contare, uno scalino per
volta tenuto per un dito da mio nonno Costantino! Che
misteriosa rete era la vita! Avevo fatto una lunga corsa,
mi ero lasciato alle spalle qualche milione di spermatozoi,
avevo molta strada davanti, lunga polverosa stretta,
l’avrei percorsa, con le chiocciole e le cavallette,
coi grilli e i pettirossi, i cinghiali e i falchi, le
querce, i cipressi, i ginepri, le api operaie che volavano
sopra la sulla fiorita, nei campi che guardavano la Corsica.
Ognuno avrebbe recitato la sua parte.
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