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SANDRO BARTOLINI
"Cinque le dita delle balene "

 

Stavo sotto pressione come una pentola, sbuffavo e mi usciva aria calda. Macinavo ore e ore in ditta e le giornate svoltavano una dopo l’altra, si rincorrevano leste, come un branco di cani dietro una lepre. Ordinavo tonnellate di solventi, pigmenti, barattoli e altre diavolerie simili. Camionisti stanchi, con la catenina d’oro che ballava sul petto sudato, arrivavano dalla Francia, dalla Lombardia, dalla Slovenia o chissà da dove! Esaudivano le richieste conducendo docili autotreni verso lo stabilimento. Autobotti argentate, rosse, blu varcavano il cancello, spinte dal ronzio del motore al minimo e si fermavano davanti al casotto della pesa, piene di materie prime sfuse. Mi sentivo un mago! Abracadabra missingribi missingraba! Alzavo il telefono, mandavo un fax, una e-mail e giù camionate di troiai prendevano la via del padule del Bientina. Un grande manovratore! Il materiale, come d’incanto veniva inghiottito negli stretti e sudici meandri della fabbrica. Branchi sterminati di barattoli di diluenti, smalti, idropitture, uscivano in fila indiana dalle macchine confezionatrici e riposavano sui bancali, stretti dalle strisce di cellophane. Autotreni ruggenti ripartivano per le consegne in tutte le parti d’Italia. I più coraggiosi percorrevano la via del grande Annibale, al contrario, arrivavano in Francia, Spagna, Portogallo. Un po’ di melma sfusa partiva per qualche paese arabo. Containers s’imbarcavano dal porto di Livorno per gli Emirati Arabi Uniti, Qatar, Oman, Arabia Saudita, Giordania. Fusti da duecento litri, bianchi come il latte, pieni di smalti verdi, gialli, arancioni, solcavano il Mediterraneo, attraversavano il canale di Suez e arrivavano a destinazione. Pagamento 30-60, fine mese, bonifico bancario, valuta fissa.
Cartellino d’entrata, otto e trenta. Ero un autentico impiegato modello, mi sentivo un masso di razionalità, di umiltà, di buona disposizione d’animo. Andavo incontro alle pene del giorno, cercando di scansarne qualcuna. Viaggiavo spedito sulle solite corsie, dal lunedì al venerdì, fino alla fine dell’anno, al lume della luce artificiale, nel mezzo del padule del Bientina, solcato da fossi d’acqua putrida. Sveglia, colazione, casa, ufficio, pianti, risa del bimbo, qualche urlo sul lavoro, corse. Noia! Noia…noia...Un sentimento fine come la polvere che s’infilava negli interstizi della vita, di tutti noi. Seguivo la logistica. Programmazione giornaliera, rapporti coi fornitori, riunioni operative col magazzino e la produzione. Sgomitavo come chiedeva l’azienda. Davo del tu e del lei, secondo la posizione gerarchica. Stile libero, avevo una grande bracciata, andavo a fondo nell’acqua putrida, autentico bottino. Correvo per non rimanere indietro. Mi specchiavo negli altri che giravano intorno e non vedevo una bella faccia. Procedevo con le ruote sgonfie, avanzavo carponi nella vita, mese dopo mese, galleggiavo nei giorni, tiravo avanti.
Un pomeriggio capitai a Lucca, per un corso d’aggiornamento alla Camera di Commercio. Camminavo a passi spediti, con la borsa di pelle, le scarpe incerettate, tirato a lucido. Vidi le mura massicce, mattoni e terra, che si stagliavano davanti, gli alberi s’innalzavano regali, a corona, oltre svettava il campanile bianco, merlato, di San Martino. Mi fermai sotto il portico del duomo, mi incuriosirono i bassorilievi medievali, alzai la testa, presi a fissarli attentamente. Ogni mese una formella. Ianuarius, in gonnellino, seduto su un panchetto, un uomo filava. Februarius, sempre un tizio in gonnellino, senz’altro della medesima famiglia, pescava con una canna e un cestino a tracolla. Martius, il solito ometto di gennaio, col gonnellino che potava una vite. Aprilis! Maius! Iunius, un contadino triste, segava il grano con la falce. Li avevo visti anch’io, schiere di donne e di uomini, piegati, giù per le piagge, a segare a mano, legare le manne e tirare su le barche del grano. Le mani nodose, callose, gonfie, sbucciate, le unghie forti, nere, le stoppie che grattavano la pelle a sangue. Mio padre, mia madre, e gli altri della truppa che grondavano al sole, mentre aspettavano un mondo migliore. Il fiasco dell’acqua all’ombra d’una quercia, la zuppa di fagioli, il desinare di mezzogiorno, nella borsa di paglia. Iulius! La battitura del grano col correggiato. Augustus! Il contadino raccoglieva i frutti. September pigiava l’uva nel tino, come facevo io, coi miei cugini al podere I Massi. L’uva si schiacciava, morbida, sotto i nostri piedi. October, il vino nelle botti. November si aravano i campi. December, il contadino in gonnellino ammazzava il maiale. A capo all’ingiù, la bestia allungata gocciava sangue. Il maiale ha pianto prima d’essere scannato. Iiiiih! Iiiiih! Iiiiih! Iiiiih! Iiiih! Io l’ho sentito! I suoi lamenti ci rincorrevano. L’avremmo dimenticati, davanti alle salsicce, alla grassa pancetta, al mallegato con l’uva passa e i pinoli, ai fegatelli cogli spinaci, al bicchiere di vino nero come la pece.
La sera, al ritorno, sulla strada per Laiatico svuotai il serbatoio. La brezza dolce arrivava dal mare. Tempesta all’orizzonte, presto sarebbe girato a scirocco, vento alle spalle, il birillo spingeva lungo. Una cappa infinita di stelle sopra la testa. Lari, Laiatico, Orciano, Santa Luce, il vento spazzolava il grano verde, ancora qualche boccata d’aria e poi sarei ripartito per Colle Bazzano. Buio fitto! Ballavo nel mezzo della strada deserta tra le colline d’erba, ballavo come Cassius Clay, il più grande. Muhammed Alì aveva il destro, il sinistro, sul quadrato si muoveva come un angelo, parlava come un diavolo, e teneva qualche quintale di sale in zucca.
Ho sempre avuto un bel gancio sinistro, picchiavo sodo! Da ragazzo, se qualcuno mi stuzzicava, in quattro e quattr’otto lasciavo partire dei briscoloni. Ero tra i più bassi del gruppo, mica un nanerottolo! Uno e settantacinque. Quadrato come Joe Frazier, mancino come lui e piacevo alle donne. Un gran bel mancino, l’unico della mia famiglia, mancino in tutto. Da dove ero uscito? Sapevo scrivere indifferentemente da sinistra a destra e da destra a sinistra, come gli ebrei e gli arabi, anche se da sinistra a destra mi macchiavo le mani e sporcavo le camice.
Rientrai in macchina, le stelle immobili in cielo, non passava anima viva. Terra! Intorno solo terra! Qualche casa e terra! Terra! Terra! Mezzadri da quando? Dal millecinquecento, forse prima. Tutti in fila, e alla fine ero nato io. Ragazzi, dormite tranquilli! Non mi dimenticherò di voi. Partendo dal millecinquecento, quattro generazioni ogni cent’anni, sono una ventina di Solatii che m’avevano preceduto. Mica scherzi! Contadini, mezzadri. Colle Bazzano, Guardistallo, Pomarance, Colle Val d’Elsa, Rosignano e poi chissà, sempre lì intorno, un bel pezzo di Toscana, non c’è che dire! Qualcuno era rimasto contadino! La maggior parte abbandonarono le bestie, i campi di grano, la sulla, le vigne. Mio padre nel 61 lasciò i campi e diventò manovale, avrebbe finito la carriera come muratore di seconda.
Da Colle Bazzano gli uomini entravano all’acciaierie di Piombino e alla Solvay di Rosignano. I più partivano alle sei, in motore o in bicicletta, imbacuccati, con un foglio di giornale sotto il maglione e la borsa del mangiare dietro. Con lo stesso giornale preparavano il cappellino, mentre impastavano la calcina. Rena, calce e acqua. La pala spingeva. Manovali dalle spalle robuste, in calzoncini corti, bassi in vita, mezze mele abbronzate, vecchi muratori sdentati che ci davano di mestola, con la bolla, il filo del piombo, che smazzolavano sulle pietre. I visi screpolati dal sole, la pelle dura, la barba lunga di una settimana, bianca e nera.
Nacqui di sette mesi e mezzo, un chilo e novecento. Non ero Maciste! Piccino picciò, sembravo un coniglio spellato. A quindici mesi davo già delle belle soddisfazioni. Chiamavo mamma, babbo, nonno. Dicevo bombo, pappa. Bubu era il cane. Avevo messo sei denti, quattro sotto e due sopra e sapevo camminare a due zampe anche se non riuscivo a curvare, andavo solo avanti e indietro e per girare mettevo il culo in terra. Acqua, vento, ghiaccio, sole. Le rondini che andavano e venivano, gli scioperi politici, le tessere in tasca, le bandiere sbatacchiate dai venti, pettirossi sui cipressi, i mezzadri diventavano muratori, i pescatori operai. Si continuava a tagliare le macchie, il bosco ceduo. Accette, pennati, motoseghe, segacci. Si buttavano giù ornelli, querce, lecci, cerri, scope. La legna si scollettava coi muli dalle macchie sulle strade. Un metro, due metri, cento metri di legna. I carbonai facevano il carbone, gli stranieri dal nord Europa arrivavano sul mare, la notte si continuava a stendere i tramagli e pescare con la bilancia. Si coglievano le olive e si mangiavano le nespole, l’uva spina, quella fragola, lo zibibbo, il trebbiano. La malvasia seccata diventava vin santo. Le verghe la notte si armavano, andavano su e giù in bui cunicoli caldi, liquidi lattiginosi a giro, una via di mezzo tra il brodo e il latte. Da quel seme nascevano i bambini! Le cicogne? Balle! Nelle nostre terre non si ricordava più una cicogna da cent’anni e i bimbi continuavano a nascere lo stesso! I richiami dei caprioli echeggiavano nelle valli umide come cani fiochi. Il cuculo cantava solitario, prigioniero del suo vigliacco destino. Gli usignoli ricamavano coi loro canti la notte, salutando la vita.
Nel dopoguerra a Colle Bazzano arrivarono da giù, a branchi, famiglie di vecchi, giovani, marmocchi, braccia in cerca di terra, di lavoro, gente forte. Dalla Sicilia i Candelise, gli Anastasia, gli Scalisi, i Biancone, i Bellanti, dalla Basilicata i D’Aria, dalla Campania i Mastroquattro, i Cucchiaro, dall’Abruzzo i Nerotti, i Mazzia. Scesero anche dall’Appennino reggiano come pastori, venivano d’inverno per la transumanza, cercavano i pascoli e trovarono le mogli. Si infilarono a Colle Bazzano, erano come noi, pazienti, allegri, scontrosi, ignoranti, sapienti. La famiglia di Pietro Buscemi detto il Monaco arrivò da Montelepre, quattro fratelli, tre maschi e una femmina, la mamma vedova. Lui, una roccia, Ercole in terra, portava delle fascine sulle spalle come un mulo, un siciliano dal sangue normanno. Fu ricoverato all’ospedale di Volterra per un esaurimento, da lì passò al manicomio.
Noi Solatii eravamo fantastici, pescavamo tutti meravigliosamente. Rezzaglio, canna, tramagli, barchino da terra con tre, cinque o quattordici ami. Spalla a spalla, l’orchestra Solatii suonava la sua musica, come mancino uscivo di rovescio rispetto agli altri. La foce era piena di gente con le spalle larghe e il cervello fino. Amos Favilli, contadino, Renato Bianchi, operaio, Alberto Cicalini, contadino, Armido, Guido e Mario Ulivi, tre fratelli, operai e contadini, e una altra quarantina di querce dalle braccia robuste. Suonavamo sulla foce della Sterza una melodia misteriosa, solo noi la sapevamo ascoltare. Conoscevamo le correnti, le secche, le buche, le alte e le basse maree, quando il fiume con la torba avrebbe portato le spigole nelle reti. L’alba e il tramonto erano i nostri momenti, carichi di borse, prigionieri dei sogni, i piedi affondavano sulla battigia, le dita raspavano nella rena, l’acqua ci rinfrescava. In fila indiana camminavamo verso le buche. Il fiume d’inverno sfondava diretto, la bocca larga come cento balene. D’estate piegava pigramente, camminava per un chilometro a poche centinaia di metri dal mare, e si tuffava con un rigagnolo stretto, timido, nell’acqua salata. Pescatori di terra! Guardavamo il mare con rispetto. Tutti avevamo la baracca sul fiume, il barchino di palude e tiravamo il rezzaglio secondo le buone creanze, da più di duemila anni.
L’unico di noi che non pescava era mio zio Corrado Macchiatelli, primo spazzino del paese e becchino all’occorrenza. Un giorno d’estate io e Francesco Volterrani scendemmo nell’ossario insieme a lui. Dovevamo recuperare due teste di qualche nostro antenato. Il sindaco aveva dato il benestare. Un teschio lo prendeva Massimiliano Semoli, medico di Colle Bazzano, e l’altra testolina sarebbe servita al Volterrani, studente di medicina all’università di Pisa. Ossa! Ossa! Montagne d’ossa dappertutto! Non c’era da aver paura. Ci conoscevano. Erano quelli arrivati prima di noi. Lo stesso seme. La stessa terra. La stessa polvere saremmo diventati noi. Polvere! Polvere! Che la tramontana avrebbe soffiato via, che la pioggia avrebbe trascinato nel padule, che la Sterza avrebbe portato in mare, che i pesci avrebbero mangiato, che gli uomini avrebbe pescato. Col rezzaglio. Il lancio perfetto. Rotondo! Come la terra che gira intorno al sole, che riscalda la nostra vita. Come le donne che riscaldano i nostri cuori.
Nel nuovo millennio la terra continuava a camminare a rimorchio del sole, le stelle non sappiamo dove fossero dirette, la notte e il giorno si mordevano la coda, i cinghiali si inseguivano fiutando gli istinti della vita, cespugli di rose bianche scendevano dai muri d’arenaria, si moriva di tumore al polmone dopo avere fumato per una vita nazionali senza filtro, i fegati spappolati si portavano via giovani donne. Qualcuno decideva di partire prima del tempo e lasciava dentro di noi un dolore infinito! Il mondo galoppava, giorno e notte. Le verghe si infilavano in buchi stretti e larghi, i piccoli camminavano a quattro zampe, la Sterza instancabile buttava acqua in mare, scorrendo nel padule di Colle Bazzano. I peschi fiorivano, i mandorli fiorivano, i ciliegi fiorivano, tracce di mercurio nel Cecina, l’Arno d’argento portava merda quotidiana in mare, gli infarti piegavano i ginocchi degli uomini, i bimbi piangevano appena messa la testolina bagnata fuori dal ventre delle madri, acciughe, crognoli, paranze, triglie, aguglie, tracine si avvicinavano alla costa, lecce, orate, spigole, sugarelli, cheppie rimanevano impigliate nelle reti di pescatori contadini, il cielo stellato osservava i nostri passi accompagnati al frangere delle onde, i giovani continuavano a essere giovani a quarant’anni senza avere un lavoro stabile e una famiglia, milioni di disperati si incamminavano da una parte all’altra del mondo, molti galleggiavano sulle onde senza essere riusciti a toccare la terra promessa. Il mondo girava. All’estate seguiva l’autunno, nei boschi crescevano ginepri e pungitopo, porcini e boletus satana, le rondini riprendevano la strada della Cina e i pettirossi gareggiavano con gli scriccioli sui rami spogli dei cerri. Incredibile! Si continuava a ballare a tempo di valzer, di slow fox, di mambo, e fregandosene della scienza e del progresso gli uomini e le donne si accoppiavano come animali. I maschi inseminavano le femmine dalle verdi età fino ai cinquanta, sessanta, settant’anni. Qualche eroe provava a fottere con ragazze sopra gli ottanta, ma ci voleva un gran fisico. Un mondo brutto e bello che qualcuno continuava a pensare infinito. Si rifletteva sul creatore di ogni cosa. Le bombe dilaniavano i nostri corpi, da qualche parte si squartavano donne e uomini, con le accette, in nome di un essere superiore. Purgatorio! Inferno! Paradiso! Il limbo era caduto in disuso, l’acqua continuava a scorrere nel fiume Sterza, a ristagnare nel padule di Colle Bazzano, gli eleganti cavalieri d’Italia passeggiavano nei campi bassi, terra nera in padule, diventava rossa, piena di calore, su per le piagge di Colle Bazzano, mattaione intorno a Volterra. Ci si ingozzava con scafardate di triglie e baccalà alla livornese. Il cacciucco era sacro. Misterioso! Cacciucco. Sacro come il cous cous d’Algeria. Si continuava a bere fiumi d’alcol che permettevano di guardarci intorno con ottimismo, il chianti di Greve, il rosso di Montalcino, il bianco di Montecarlo, la vernaccia di San Gimignano, la malvasia di Bosa, il rosso di Magomadas, il marsala siciliano, l’aleatico dell’Elba. Un bicchiere di rosso dolce dell’isola si bevve per Mohammed Alì quando vinse contro Foreman, io, il mio babbo, Arturo Solatii in persona, e mio cugino Lorenzo, Solatii anche lui. La damigianina da cinque litri la tenevamo in salotto, sopra il mobile di formica verde, cinque le dita per zampa delle balene della Certosa di Calci, cinque come le nostre dita, cinque gli scalini che portavano in casa mia, fino a cinque imparai a contare, uno scalino per volta tenuto per un dito da mio nonno Costantino! Che misteriosa rete era la vita! Avevo fatto una lunga corsa, mi ero lasciato alle spalle qualche milione di spermatozoi, avevo molta strada davanti, lunga polverosa stretta, l’avrei percorsa, con le chiocciole e le cavallette, coi grilli e i pettirossi, i cinghiali e i falchi, le querce, i cipressi, i ginepri, le api operaie che volavano sopra la sulla fiorita, nei campi che guardavano la Corsica. Ognuno avrebbe recitato la sua parte.