C’era stata una
discussione, ma ormai era passato tanto tempo che nessuno
se ne ricordava più. Aveva vinto lei, come sempre
del resto. Mio padre si chiamava Slataper ed era un
trentino dalla testa dura come il granito, anarchico
fino alle midolla e lei era fragile e sinuosa come
un’alga di mare e sembrava piegarsi, poi lo guardava
con un sorriso dentro gli occhi prima che sulle labbra
e lui non sapeva resisterle.
La discussione era stata
sul nome: “Nedo Slataper”, aveva
detto lei quando la pancia cominciò a crescere.
“Gustav
come mio padre”, aveva risposto lui, sputando
tabacco. Erano andati avanti per un bel po’:
“Nedo
era mio nonno e anche il mio trisnonno”. Lui,
gigantesco, piantato a gambe larghe e con le mani
sui fianchi e lei, sullo scalino davanti all’uscio,
per farsi più alta:
“E Gustav
era mio padre e mio nonno e mio bisnonno”.
Sembra
di sentirli e di vedere i parenti, subito radunati
intorno, ma senza intromettersi, parteggiare solo
con gli sguardi,
“Si, ma sono
morti”
“Anche i tuoi
sono morti”
“E’ vero,
ma ad 85 anni: Nedo porta bene!”
annuire
infine all’incontrovertibile
evidenza che decretava la vittoria di mia madre.
Si,
porta bene, me lo ripetevo mentre scendevo pian piano
appeso alla corda, con le gambe flesse alle ginocchia,
offrendo alla montagna solo il cuoio dei pesanti scarponi.
Con piccoli balzi allontanavo il corpo dalle rocce
aguzze e taglienti. Il bianco del marmo era così vivido
che accecava e costringeva gli occhi a piccole fessure
Tremavo, ma non si vedeva e non si vedevano neppure
le gocce di sudore che finivano nelle mutande e mi
facevano venir voglia di grattarmi. E’ duro arrampicarsi
fin dove la montagna agonizzante mostra la sua ferita
bianca aperta, e poi calarsi per liberare il masso
dalla tecchia o mettere le cariche che lo squarceranno.
E’ duro anche per me, allenato dalle generazioni
precedenti, e che morirò ad 85 anni nel mio
letto, addormentandomi quieto fra le lenzuola bianche,
col sorriso pacifico perso fra le rughe, come mio nonno
e il mio bisnonno e su, su fino al primo della storia,
stretto parente di quegli schiavi che qui sulle cave
hanno lasciato pelle, ossa e sentimenti.
«Nedo
porta bene!» Per me non avrebbe suonato
la campana e le donne non sarebbero corse, fradice
di sudore e di paura, le giovani davanti e le vecchie
dietro, chiamando il padre, il figlio, il compagno.
Mesta e terribile litania alla quale ogni volta sarebbe
mancato un nome. Slataper Giovanni, detto Giovannone,
anni 46, morì in un caldo pomeriggio di luglio.
Scivolò o si ruppe la corda o gli scoppiò il
cuore per la fatica, o forse tutto insieme, perché mio
padre era un gigante e una cosa sola non bastava
ad ammazzarlo.
Mi dissero che potevo
andare al suo posto e smisi di riempire casse di sassi
alla segheria e salii alla cava. Lo feci come si fanno
le cose inevitabili o che si aspettano da tempo. Lo
feci perché mi chiamo Nedo e tutti, amici e
parenti sanno che porta bene, non mi può succedere
niente e la mia ora è già segnata sull’orologio
del tempo. Mi guardano con un poco d’invidia
e anche di disprezzo, perché per me è una
bazzecola arrampicarmi o saltare giù dai massi,
leggero e agile come capra di montagna. Lo faccio perché guadagno
soldi e mi piace averne per pagare da bere o per andare
a donne una volta la settimana, non di più,
per sentirmi uomo. Lo faccio, ma tremo, perché non
sono come il mulo, eredità di mio padre, che
saliva a testa bassa sul ciglio del dirupo e arrancava
senza fermarsi e senza paura. Io paura ne ho e anche
tanta, ma non posso dirlo perché «Nedo
porta bene» e io ci credo.
Ci credo quando
sono sospeso tra la terra e il cielo, come un ragno
attaccato al suo filo o quando i denti della mia ruspa
accarezzano avidi la dura roccia, ma la sera bevo volentieri
fino a sentire che dentro qualcosa si scioglie e scivolo
in un sonno senza incubi. Io libero il marmo dalla
tecchia, lo sveglio dopo secoli di letargo ed è come
ritrovare un vecchio amico. Lo saluto, lo consolo: “Ciao!
Hai dormito tanto ed è il momento che tu veda
il mondo e ti renda utile. Ti taglieranno, ti puliranno
e lucideranno. Sarà un po’ doloroso,
ma è necessario per far vedere la tua bellezza.” E
mi piace ritrovarlo in giro per la città, trasformato
in tavoli o in statue o in sottili lastre, incastonate
nei muri ad imperitura memoria di questo o di quello.
Nomi incisi per tramandarne il ricordo, affidando alla
pietra l’anelito di immortalità.
Il marmo
ha un cuore che pulsa, lo sento, anche se è coperto
dal rumore delle motrici e delle seghe e ogni blocco
che si stacca ha una sua storia passata e futura. Gli
uomini credono di plasmare la materia a loro piacimento,
ma non possono far altro che liberare dalla scorza
la vita nascosta dentro. Apriamo il ventre della montagna
e le prendiamo i figli e ogni tanto anche lei ne prende
uno dei nostri oppure si accontenta di farci un dispettuccio.
Carlo ci ha lasciato un occhio per una scheggia, Giuseppe
e Giacomo hanno perso una gamba al tempo in cui c’era
ancora il taglio col filo elicoidale, Simone e Francesco
sono morti sepolti da una frana. Era la loro ora, come
prima di loro fu di tanti altri.
Dice una leggenda
che il sangue caduto si trasforma esso stesso in pietra
durissima, rutilanti rubini che gli angeli raccolgono
e portano subito in cielo, perché niente c’è di
più prezioso del sangue degli uomini. Io penso
invece che il sangue si infiltra fra le zolle e forma
un rivolo rosso e caldo che incontra altri ruscelletti,
anche loro rossi e caldi, costante offerta sacrificale
al dio lavoro, e tutti sfociano in un fiume misterioso
che scorre nelle profondità della terra e alimenta
l’immensa turbina che fa girare il mondo. Da
millenni il marmo uccide e nutre e continuerà a
farlo quando anch’io avrò il mio bel foglio
bianco, lucido, con scritto a lettere dorate o di bronzo: «Nedo
Slataper, visse operosamente e serenamente morì.
Mesti e piangenti i parenti posero».
Mi
piace pensare che ci sono voluti milioni di anni di
sotterraneo, silenzioso lavoro, perché i miliardi
di molecole di carbonato di calcio si disponessero
una vicina all’altra,
unite a formare la pagina sulla quale qualcuno, misericordiosamente
inciderà il mio nome. Intanto lo respiro, lo
mangio persino questo marmo, che è carbonato
di calcio, come le ossa del mio scheletro. E’ parte
di me e non potrei vivere lontano da lui e da questa
terra dura, aspra che genera figli solidi e intolleranti,
liberi, come il mare che si vede dal punto più alto
della cava e del quale il vento porta l’odore.
«Nedo
porta bene», credevo di essere libero, ma
il mio nome è il mio giogo. Mi fossi chiamato
Tommaso o Arturo o Vincenzo avrei fatto il marinaio
o il cuoco o il poliziotto, invece il mio destino è tracciato.
Non devo cadere, non posso cadere. I miei amici mi
guarderebbero come si guarda il lardo ingiallito
o il pesce andato a male, carne frollata, buona solo
per i vermi. Siamo gente di cava, forte e fragile.
Come il marmo che lavoriamo, così duro che
si taglia solo col diamante e che il sole e la pioggia
trasformano in farina. Se Nedo muore, muore la speranza.
Gliel’ho detto a quel Cristo scolpito, figlio
e dominatore della montagna sulla quale si erge maestoso.
Se è Lui che regge il filo al quale sono appeso
deve saperlo. Gliel’ho detto, perché mia
madre si è consumata le ginocchia sui banchi
della chiesa, quando mio padre tornava ubriaco bestemmiando
tutti i santi del calendario e ha continuato dopo
che è morto, perché io non facessi
la stessa fine. Gliel’ho detto perché a
me non importa chi regge i fili, mi basta lo faccia
bene. Come io faccio bene il mio lavoro.
La mia ruspa
ha una bocca enorme e denti d’acciaio, divora
quintali di terra e li sposta senza fatica, ma passa
sopra la roccia delicatamente. Certe volte ho l’impressione
di fare il solletico ad un gigante e che questi, benignamente,
mi sorrida.
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