contattaci
torna alla home page
testi
ELIDE CERAGIOLI
"Nedo porta bene "

 

C’era stata una discussione, ma ormai era passato tanto tempo che nessuno se ne ricordava più. Aveva vinto lei, come sempre del resto. Mio padre si chiamava Slataper ed era un trentino dalla testa dura come il granito, anarchico fino alle midolla e lei era fragile e sinuosa come un’alga di mare e sembrava piegarsi, poi lo guardava con un sorriso dentro gli occhi prima che sulle labbra e lui non sapeva resisterle.
La discussione era stata sul nome: “Nedo Slataper”, aveva detto lei quando la pancia cominciò a crescere.
Gustav come mio padre”, aveva risposto lui, sputando tabacco. Erano andati avanti per un bel po’:
Nedo era mio nonno e anche il mio trisnonno”. Lui, gigantesco, piantato a gambe larghe e con le mani sui fianchi e lei, sullo scalino davanti all’uscio, per farsi più alta:
E Gustav era mio padre e mio nonno e mio bisnonno”.
Sembra di sentirli e di vedere i parenti, subito radunati intorno, ma senza intromettersi, parteggiare solo con gli sguardi,
Si, ma sono morti”
Anche i tuoi sono morti”
E’ vero, ma ad 85 anni: Nedo porta bene!”
annuire infine all’incontrovertibile evidenza che decretava la vittoria di mia madre.
Si, porta bene, me lo ripetevo mentre scendevo pian piano appeso alla corda, con le gambe flesse alle ginocchia, offrendo alla montagna solo il cuoio dei pesanti scarponi. Con piccoli balzi allontanavo il corpo dalle rocce aguzze e taglienti. Il bianco del marmo era così vivido che accecava e costringeva gli occhi a piccole fessure Tremavo, ma non si vedeva e non si vedevano neppure le gocce di sudore che finivano nelle mutande e mi facevano venir voglia di grattarmi. E’ duro arrampicarsi fin dove la montagna agonizzante mostra la sua ferita bianca aperta, e poi calarsi per liberare il masso dalla tecchia o mettere le cariche che lo squarceranno. E’ duro anche per me, allenato dalle generazioni precedenti, e che morirò ad 85 anni nel mio letto, addormentandomi quieto fra le lenzuola bianche, col sorriso pacifico perso fra le rughe, come mio nonno e il mio bisnonno e su, su fino al primo della storia, stretto parente di quegli schiavi che qui sulle cave hanno lasciato pelle, ossa e sentimenti.
«Nedo porta bene!» Per me non avrebbe suonato la campana e le donne non sarebbero corse, fradice di sudore e di paura, le giovani davanti e le vecchie dietro, chiamando il padre, il figlio, il compagno. Mesta e terribile litania alla quale ogni volta sarebbe mancato un nome. Slataper Giovanni, detto Giovannone, anni 46, morì in un caldo pomeriggio di luglio. Scivolò o si ruppe la corda o gli scoppiò il cuore per la fatica, o forse tutto insieme, perché mio padre era un gigante e una cosa sola non bastava ad ammazzarlo.
Mi dissero che potevo andare al suo posto e smisi di riempire casse di sassi alla segheria e salii alla cava. Lo feci come si fanno le cose inevitabili o che si aspettano da tempo. Lo feci perché mi chiamo Nedo e tutti, amici e parenti sanno che porta bene, non mi può succedere niente e la mia ora è già segnata sull’orologio del tempo. Mi guardano con un poco d’invidia e anche di disprezzo, perché per me è una bazzecola arrampicarmi o saltare giù dai massi, leggero e agile come capra di montagna. Lo faccio perché guadagno soldi e mi piace averne per pagare da bere o per andare a donne una volta la settimana, non di più, per sentirmi uomo. Lo faccio, ma tremo, perché non sono come il mulo, eredità di mio padre, che saliva a testa bassa sul ciglio del dirupo e arrancava senza fermarsi e senza paura. Io paura ne ho e anche tanta, ma non posso dirlo perché «Nedo porta bene» e io ci credo.
Ci credo quando sono sospeso tra la terra e il cielo, come un ragno attaccato al suo filo o quando i denti della mia ruspa accarezzano avidi la dura roccia, ma la sera bevo volentieri fino a sentire che dentro qualcosa si scioglie e scivolo in un sonno senza incubi. Io libero il marmo dalla tecchia, lo sveglio dopo secoli di letargo ed è come ritrovare un vecchio amico. Lo saluto, lo consolo: “Ciao! Hai dormito tanto ed è il momento che tu veda il mondo e ti renda utile. Ti taglieranno, ti puliranno e lucideranno. Sarà un po’ doloroso, ma è necessario per far vedere la tua bellezza.” E mi piace ritrovarlo in giro per la città, trasformato in tavoli o in statue o in sottili lastre, incastonate nei muri ad imperitura memoria di questo o di quello. Nomi incisi per tramandarne il ricordo, affidando alla pietra l’anelito di immortalità.
Il marmo ha un cuore che pulsa, lo sento, anche se è coperto dal rumore delle motrici e delle seghe e ogni blocco che si stacca ha una sua storia passata e futura. Gli uomini credono di plasmare la materia a loro piacimento, ma non possono far altro che liberare dalla scorza la vita nascosta dentro. Apriamo il ventre della montagna e le prendiamo i figli e ogni tanto anche lei ne prende uno dei nostri oppure si accontenta di farci un dispettuccio. Carlo ci ha lasciato un occhio per una scheggia, Giuseppe e Giacomo hanno perso una gamba al tempo in cui c’era ancora il taglio col filo elicoidale, Simone e Francesco sono morti sepolti da una frana. Era la loro ora, come prima di loro fu di tanti altri.
Dice una leggenda che il sangue caduto si trasforma esso stesso in pietra durissima, rutilanti rubini che gli angeli raccolgono e portano subito in cielo, perché niente c’è di più prezioso del sangue degli uomini. Io penso invece che il sangue si infiltra fra le zolle e forma un rivolo rosso e caldo che incontra altri ruscelletti, anche loro rossi e caldi, costante offerta sacrificale al dio lavoro, e tutti sfociano in un fiume misterioso che scorre nelle profondità della terra e alimenta l’immensa turbina che fa girare il mondo. Da millenni il marmo uccide e nutre e continuerà a farlo quando anch’io avrò il mio bel foglio bianco, lucido, con scritto a lettere dorate o di bronzo: «Nedo Slataper, visse operosamente e serenamente morì. Mesti e piangenti i parenti posero».
Mi piace pensare che ci sono voluti milioni di anni di sotterraneo, silenzioso lavoro, perché i miliardi di molecole di carbonato di calcio si disponessero una vicina all’altra, unite a formare la pagina sulla quale qualcuno, misericordiosamente inciderà il mio nome. Intanto lo respiro, lo mangio persino questo marmo, che è carbonato di calcio, come le ossa del mio scheletro. E’ parte di me e non potrei vivere lontano da lui e da questa terra dura, aspra che genera figli solidi e intolleranti, liberi, come il mare che si vede dal punto più alto della cava e del quale il vento porta l’odore.
«Nedo porta bene», credevo di essere libero, ma il mio nome è il mio giogo. Mi fossi chiamato Tommaso o Arturo o Vincenzo avrei fatto il marinaio o il cuoco o il poliziotto, invece il mio destino è tracciato. Non devo cadere, non posso cadere. I miei amici mi guarderebbero come si guarda il lardo ingiallito o il pesce andato a male, carne frollata, buona solo per i vermi. Siamo gente di cava, forte e fragile. Come il marmo che lavoriamo, così duro che si taglia solo col diamante e che il sole e la pioggia trasformano in farina. Se Nedo muore, muore la speranza. Gliel’ho detto a quel Cristo scolpito, figlio e dominatore della montagna sulla quale si erge maestoso. Se è Lui che regge il filo al quale sono appeso deve saperlo. Gliel’ho detto, perché mia madre si è consumata le ginocchia sui banchi della chiesa, quando mio padre tornava ubriaco bestemmiando tutti i santi del calendario e ha continuato dopo che è morto, perché io non facessi la stessa fine. Gliel’ho detto perché a me non importa chi regge i fili, mi basta lo faccia bene. Come io faccio bene il mio lavoro.
La mia ruspa ha una bocca enorme e denti d’acciaio, divora quintali di terra e li sposta senza fatica, ma passa sopra la roccia delicatamente. Certe volte ho l’impressione di fare il solletico ad un gigante e che questi, benignamente, mi sorrida.