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PAOLO DI PAOLO
"Da qui"


Fuori, c’è neve spessa, mista a fango, sugli orli delle strade. Ma lui non sa più niente, di fuori e del mondo. Non sente più niente: né Via del Piombo, né tutta Bologna, né l’aria fredda e secca di questa ostile metà febbraio. Non sa che una piccola folla si è assiepata, fuori, e aspetta. Le senti le carrozze che si fermano, di’, le senti? senti ancora qualcosa? Elvira adesso piange di nuovo. Qualche frase rapida – un sussurro, un filo di voce senza suono – le scappa dalle labbra, e pare prendere forma dalle lacrime. E io che farò più, senza di lui. Allora si guarda attorno, Elvira, prova a distogliere gli occhi dal corpo di lui – grigio, smagrito, mai esile come ora; gli occhi dagli occhi di lui: che, quando per un attimo li apre, sembra come slegato da tutto. Già lontano da qui, e da tutto. Dal gruppetto di cronisti che, nella saletta a pianterreno, attende una novità, un segnale, uno qualunque, che giunga da sopra. La luce rossastra delle candele disegna sui muri ombre strane. Hanno qualcosa di crudele, le ombre. Di mostruoso. Anche Valfredo lo pensa. E tu che ci fai qui, Valfredo? Va’ via, da bravo. E invece vuole entrare nella camera, è testardo Valfredino. Si accosta al letto di suo nonno, trascinando un poco le scarpe sul pavimento. E gli manda baci con la mano tesa. Però non piangere anche tu Valfredo, non piangere, va’ a dormire che è già tardi, domani il nonno starà meglio. Ma Valfredo guarda le ombre e sa che non è vero. Lo sa perché anche la nonna piange. E poi, ha sentito papà che diceva: non c’è più niente da fare, non c’è più niente da fare. Ha sentito che diceva: da un pezzo ce lo vedevamo morire davanti, ma non pensavamo. Da un pezzo. Non pensavamo. Una crisi così rapida. Così violenta. È già da ieri che non tocca cibo.

Mentre l’Onorevole Fortis entra nella camera, l’infermiere inumidisce appena le labbra del moribondo. Qualche ora prima, intorno alle cinque del pomeriggio, ha provato a fargli sorbire un cucchiaio di marsala. Lui ne ha ingoiato un poco, come arreso; ma, al secondo tentativo, ha avuto un moto di ripulsa. Allora sei ancora qui, ci sei ancora, e senti, ha pensato Elvira. E lo pensa anche adesso – sono quasi le otto –: adesso che lui ha riaperto gli occhi. La febbre è scesa un po’. Forse mi vede, mi riconosce, pensa Libertà, in piedi, davanti a suo padre che muore. Ed io – Lontano, oltre Apennin, m’aspetta / La Tittì – rispondea –; lasciatem’ire. / È la Tittì come una passeretta, / ma non ha penne per il suo vestire. Il corpo del padre è scosso dall’affanno. Il suo respiro è diventato un rantolo.

Noi credevamo che si sarebbe spento a grado a grado. E non eravamo preparati a questo. L’ingegner Gnaccarini si stringe nelle spalle. Finisce così la vita? così in fretta. Si sorprende a tremare, impercettibilmente, per qualche istante: mentre pensa alla forza vitale del grande suocero. Forza vitale: anche in testa se la definisce così – e però da tempo così tenue. C’è una lettera, una delle tante, tra le estreme – Gnaccarini non lo sa. Il suocero l’ha spedita all’amico Lemmi, già è un anno: «Ad una ad una cadono, Adriano, le foglie dell’albero della vita; presto sarà la nostra volta». Ricevere auguri o richieste, inviti, negli ultimi tempi lo stizziva. Scrivere una biografia? e che altro aveva fatto fin lì? che altro c’era da aggiungere? Il braccio destro paralizzato, firmava con la penna d’oca. Firmava soltanto. Il resto, lo dettava. «SALVE ET PERSEVERA», e nient’altro, al compleanno 1905, per i redattori dell’Indipendente di Trieste che lo omaggiavano. Ma che cosa c’era da festeggiare? PAX ET UMBRA MORTIS, si ripeteva, sempre più spesso. Come un ritornello acido, come una litania.

È mezzanotte. Il respiro si è fatto sempre più sottile, quasi non si coglie più. Sembra diventare più dolce, ma invece si spegne. Il volto ha una scossa, però Elvira non se ne accorge, perché ha le mani sugli occhi. Sente che le bruciano. All’improvviso le viene in mente la casa dell’anno a Pistoia. E un ombrello, un orologio da taschino. Le vengono in mente, alla rinfusa, un panciotto, la barba di lui, le mani. Il sorriso, i capelli, la curva della schiena. Come è stato difficile amarti. Elvira si sforza a ricacciare indietro lacrime ulteriori – per lui. E non si accorge che lui, in quel preciso istante, ha aperto gli occhi.
Un giro di secondi. Con occhi vivi, di vivo, ha preso congedo dalle cose. Dalla casa di Bolgheri, secondo piano a sinistra. Dall’aria fina di Castagneto. Addio lucertole, biacchi, falchetti, addio cicale e addio splendide mattine e estati della dolce Toscana. E mentre per un attimo, improvviso al suo cuore, si affaccia il viso di Maria bionda, e sente, confusamente, ma sente che con lei affiorano, a folate, infinite altre cose da cui prendere congedo – quel preciso vento e quella precisa polvere, quel preciso tramonto, quella precisa pioggia, e non tanto il dolore, o le morte stagioni, ma il corpo com’era dentro quel dolore e dentro quelle morte stagioni, e i luoghi attorno, San Miniato, il vino, il ponce, il sesso quando diventa duro, i figli e i treni, i libri propri e gli altrui, e quante facce di ragazzi di là dalla cattedra, quanti anni perdio, e l’amore per ogni donna, e per ogni Dante della sua vita –, mentre per un attimo sente questo, comincia davvero a morire. Non fa in tempo a congedarsi da tutto: è troppo, adesso, questo tutto; e c’è solo più un’immagine, che la febbre altissima rende opaca, nebbiosa. Il mare.
Il mare che spumeggia contro il cielo fosco, nella tempesta di fine inverno. Di qua dalla spiaggia, in alto, il verde cupo dei boschi, di querce secolari. È tutto tornato com’era, nella selvaggia Maremma. E lui adesso avverte il respiro che si allenta, il dolore che si scioglie. Non è più lui, non è più. Si sgretola lo spazio del suo abitare: non più poeta, non più maestro, né padre. Mentre Manlio sta per chiudere, con un gesto rapido, gli occhi di suo nonno, fissandone per un momento il volto, che da cianotico si è fatto bianco, bianchissimo, gli sembra di sentire come un piccolo grido. Ma era un grido, un singhiozzo? Sembrava un ululo spezzato. Manlio non può dirlo, e neanche Elvira, che seguita a piangere, a domandarsi perché, e forse non ha sentito niente.
Mentre i cronisti già chiamano le redazioni per dettare lo sgomento, l’addio commosso al Poeta della Patria, lo spirito vivo del vecchio uomo immobile sul suo letto è già altrove. È tornato all’unico luogo in cui davvero volesse tornare. Quel luogo: e non com’è, adesso, nelle prime luci del mattino di questo sabato 16 febbraio 1907: ma com’era. Quando ai piedi della torre di Ugolino lui leggeva Dante e Shakespeare, e il mare gli pareva piccolo. Adesso torna, è tornato lassù tra i falchi, tra i cinghiali (da quanto tempo non ne vedeva?), e chiama i lupi d’una volta che lo conoscevano. Quand’era ragazzo, venivano a frotte, urlando nella sera. Adesso è come loro. Adesso ulula, come un lupo di Maremma. Poi co ’l tuon vo’ sprofondarmi / Tra quei colli ed in quel mar. È da qui che ricomincia, ciò che finisce. Ma nessuno lo sa, nessuno può saperlo, adesso che è coperto da un lenzuolo bianco, il corpo di Giosue Carducci.