Fuori, c’è neve
spessa, mista a fango, sugli orli delle strade. Ma
lui non sa più niente, di fuori e del mondo.
Non sente più niente: né Via del Piombo,
né tutta Bologna, né l’aria fredda
e secca di questa ostile metà febbraio. Non
sa che una piccola folla si è assiepata, fuori,
e aspetta. Le senti le carrozze che si fermano, di’,
le senti? senti ancora qualcosa? Elvira adesso piange
di nuovo. Qualche frase rapida – un sussurro,
un filo di voce senza suono – le scappa dalle
labbra, e pare prendere forma dalle lacrime. E io che
farò più, senza di lui. Allora si guarda
attorno, Elvira, prova a distogliere gli occhi dal
corpo di lui – grigio, smagrito, mai esile come
ora; gli occhi dagli occhi di lui: che, quando per
un attimo li apre, sembra come slegato da tutto. Già lontano
da qui, e da tutto. Dal gruppetto di cronisti che,
nella saletta a pianterreno, attende una novità,
un segnale, uno qualunque, che giunga da sopra. La
luce rossastra delle candele disegna sui muri ombre
strane. Hanno qualcosa di crudele, le ombre. Di mostruoso.
Anche Valfredo lo pensa. E tu che ci fai qui, Valfredo?
Va’ via, da bravo. E invece vuole entrare nella
camera, è testardo Valfredino. Si accosta al
letto di suo nonno, trascinando un poco le scarpe sul
pavimento. E gli manda baci con la mano tesa. Però non
piangere anche tu Valfredo, non piangere, va’ a
dormire che è già tardi, domani il nonno
starà meglio. Ma Valfredo guarda le ombre e
sa che non è vero. Lo sa perché anche
la nonna piange. E poi, ha sentito papà che
diceva: non c’è più niente da fare,
non c’è più niente da fare. Ha
sentito che diceva: da un pezzo ce lo vedevamo morire
davanti, ma non pensavamo. Da un pezzo. Non pensavamo.
Una crisi così rapida. Così violenta. È già da
ieri che non tocca cibo.
Mentre l’Onorevole
Fortis entra nella camera, l’infermiere inumidisce
appena le labbra del moribondo. Qualche ora prima,
intorno alle cinque del pomeriggio, ha provato a fargli
sorbire un cucchiaio di marsala. Lui ne ha ingoiato
un poco, come arreso; ma, al secondo tentativo, ha
avuto un moto di ripulsa. Allora sei ancora qui, ci
sei ancora, e senti, ha pensato Elvira. E lo pensa
anche adesso – sono quasi le otto –: adesso
che lui ha riaperto gli occhi. La febbre è scesa
un po’. Forse mi vede, mi riconosce, pensa Libertà,
in piedi, davanti a suo padre che muore. Ed io – Lontano,
oltre Apennin, m’aspetta / La Tittì – rispondea –;
lasciatem’ire. / È la Tittì come
una passeretta, / ma non ha penne per il suo vestire. Il
corpo del padre è scosso dall’affanno.
Il suo respiro è diventato un rantolo.
Noi credevamo che si
sarebbe spento a grado a grado. E non eravamo preparati
a questo. L’ingegner Gnaccarini si stringe nelle
spalle. Finisce così la vita? così in
fretta. Si sorprende a tremare, impercettibilmente,
per qualche istante: mentre pensa alla forza vitale
del grande suocero. Forza vitale: anche in
testa se la definisce così – e però da
tempo così tenue. C’è una lettera,
una delle tante, tra le estreme – Gnaccarini
non lo sa. Il suocero l’ha spedita all’amico
Lemmi, già è un anno: «Ad una ad
una cadono, Adriano, le foglie dell’albero della
vita; presto sarà la nostra volta». Ricevere
auguri o richieste, inviti, negli ultimi tempi lo stizziva.
Scrivere una biografia? e che altro aveva fatto fin
lì? che altro c’era da aggiungere? Il
braccio destro paralizzato, firmava con la penna d’oca.
Firmava soltanto. Il resto, lo dettava. «SALVE
ET PERSEVERA», e nient’altro, al compleanno
1905, per i redattori dell’Indipendente di
Trieste che lo omaggiavano. Ma che cosa c’era
da festeggiare? PAX ET UMBRA MORTIS, si ripeteva, sempre
più spesso. Come un ritornello acido, come una
litania.
È mezzanotte.
Il respiro si è fatto sempre più sottile,
quasi non si coglie più. Sembra diventare più dolce,
ma invece si spegne. Il volto ha una scossa, però Elvira
non se ne accorge, perché ha le mani sugli occhi.
Sente che le bruciano. All’improvviso le viene
in mente la casa dell’anno a Pistoia. E un ombrello,
un orologio da taschino. Le vengono in mente, alla
rinfusa, un panciotto, la barba di lui, le mani. Il
sorriso, i capelli, la curva della schiena. Come è stato
difficile amarti. Elvira si sforza a ricacciare indietro
lacrime ulteriori – per lui. E non si accorge
che lui, in quel preciso istante, ha aperto gli occhi.
Un giro di secondi. Con occhi vivi, di vivo, ha preso
congedo dalle cose. Dalla casa di Bolgheri, secondo
piano a sinistra. Dall’aria
fina di Castagneto. Addio lucertole, biacchi, falchetti,
addio cicale e addio splendide mattine e estati della
dolce Toscana. E mentre per un attimo, improvviso al
suo cuore, si affaccia il viso di Maria bionda, e sente,
confusamente, ma sente che con lei affiorano, a folate,
infinite altre cose da cui prendere congedo – quel
preciso vento e quella precisa polvere, quel preciso
tramonto, quella precisa pioggia, e non tanto il dolore,
o le morte stagioni, ma il corpo com’era dentro
quel dolore e dentro quelle morte stagioni, e i luoghi
attorno, San Miniato, il vino, il ponce, il sesso quando
diventa duro, i figli e i treni, i libri propri e gli
altrui, e quante facce di ragazzi di là dalla
cattedra, quanti anni perdio, e l’amore per ogni
donna, e per ogni Dante della sua vita –, mentre
per un attimo sente questo, comincia davvero a morire.
Non fa in tempo a congedarsi da tutto: è troppo,
adesso, questo tutto; e c’è solo più un’immagine,
che la febbre altissima rende opaca, nebbiosa. Il mare.
Il mare che spumeggia contro il cielo fosco, nella
tempesta di fine inverno. Di qua dalla spiaggia, in
alto, il verde cupo dei boschi, di querce secolari. È tutto
tornato com’era,
nella selvaggia Maremma. E lui adesso avverte il respiro
che si allenta, il dolore che si scioglie. Non è più lui,
non è più. Si sgretola lo spazio del
suo abitare: non più poeta, non più maestro,
né padre. Mentre Manlio sta per chiudere, con
un gesto rapido, gli occhi di suo nonno, fissandone
per un momento il volto, che da cianotico si è fatto
bianco, bianchissimo, gli sembra di sentire come un
piccolo grido. Ma era un grido, un singhiozzo? Sembrava
un ululo spezzato. Manlio non può dirlo, e neanche
Elvira, che seguita a piangere, a domandarsi perché,
e forse non ha sentito niente.
Mentre i cronisti già chiamano
le redazioni per dettare lo sgomento, l’addio
commosso al Poeta della Patria, lo spirito vivo del
vecchio uomo immobile sul suo letto è già altrove. È tornato
all’unico luogo in cui davvero volesse tornare.
Quel luogo: e non com’è, adesso, nelle
prime luci del mattino di questo sabato 16 febbraio
1907: ma com’era. Quando ai piedi della torre
di Ugolino lui leggeva Dante e Shakespeare, e il mare
gli pareva piccolo. Adesso torna, è tornato
lassù tra i falchi, tra i cinghiali (da quanto
tempo non ne vedeva?), e chiama i lupi d’una
volta che lo conoscevano. Quand’era ragazzo,
venivano a frotte, urlando nella sera. Adesso è come
loro. Adesso ulula, come un lupo di Maremma. Poi
co ’l tuon vo’ sprofondarmi / Tra quei
colli ed in quel mar. È da qui che ricomincia,
ciò che finisce. Ma nessuno lo sa, nessuno può saperlo,
adesso che è coperto da un lenzuolo bianco,
il corpo di Giosue Carducci.
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