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VINCENZO CERAMI
Da "Un borghese piccolo piccolo"


Quella era sempre la sua casa, non c'era dubbio, eppure non lo sembrava affatto.
Si accorse ora, con forse più tristezza, di non avere famiglia. Ma scoprì anche, nel segreto del suo intimo, che se non aveva affetti non aveva neanche paure.
Ormai più nessuna disgrazia avrebbe potuto colpirlo. Non poteva morirgli più nessuno.
Il cupore dei suoi assilli fu sconvolto dallo scricchiolare del Tuscolano sotto l'improvviso rovescio della pioggia.
Tutt'intorno al palazzo era esploso un vero e proprio nubifragio, l'acqua veniva giù a dirotto.
Giovanni sentì sulle spalle un freddo improvviso. Un tuono lo fece avvicinare alla finestra.
Guardò di sotto il brutto acquazzone che tormentava la città.
Fiumi d'acqua straripavano dalle terrazze come da recipienti stracolmi e confluivano verso i tombini ostruiti della via, precipitavano lungo i binari del tram trasportando fango e immondizie.
L'animo di Giovanni fu ammorbato da un grave sospetto che andò paurosamente ingigantendosi.
«Oh Madonna mia!» invocò a bassa voce dentro di sé.
«L'assassino!...»
Stava correndo un rischio madornale, anzi, la catastrofe era certa, non l'avrebbe salvato neanche il Padreterno in persona.
Vedeva con quanta furia l'acqua macinava i piedi delle piante e girava vorticosamente tutt'attorno.
Si figurava la riva dello stagno dove l'assassino era stato mal sotterrato.
Ad ogni lampeggiamento del cielo sulle rétine di Giovanni si stampavano immagini di incubo: come due fiori carnosi le mani bianche della vittima spuntavano da sottoterra e la pioggia le lavava per metterle bene in mostra; il cadavere liberato dal fango, con la bocca spalancata alle nuvole, sputava acqua piovana con una risonanza strafottente, come se fosse viva; alla fine un capannello di persone pallide e mute sotto gli ombrelli circondava il corpo restituito alla superficie.
Tutto questo per la stoltezza di chi l'aveva sepolto. Si trattava di agire subito: ritornare laggiù, impadronirsi di nuovo del cadavere, riseppellirlo.
Fu proprio il carattere necessario della cosa che gli dette la forza di affrontare la burrasca.
Sarebbe tornato al più presto, quella notte stessa.
Mise le scarpe pesanti, si imbacuccò per benino, lasciò sollevata la cornetta del telefono e uscì in punta di piedi, si toccò la tasca per sentire le chiavi di casa, chiuse con delicatezza e sparì.

Mano a mano che Giovanni si avvicinava alla campagna si accorgeva che, per fortuna, la furia degli elementi era soprattutto concentrata sul Tuscolano.
I campi e i fossi non erano allagati: si rincuorò e se la prese più comoda.
Deviò per lo stagno, fermò la macchina a pochi metri da dove aveva sotterrato l'assassino, scese, fece due passi intorno.
Tutto era in ordine, silenzio sopra e sotto la terra, nessuno in vista per chilometri, né uomini, né animali.
Risalì in macchina, raggiunse la baracca e prese gli attrezzi: pala e piccone.
Scelse in una macchia di alberi di fico selvatico il fico più grosso e si mise al lavoro: l'intenzione era di sradicare la pianta per trapiantarla vicino alla bicocca.
Lavorò soprattutto di pala, con le mani e i piedi nella melma; il piccone gli servì per recidere le radici più lunghe.
Dopo un paio d'ore finalmente la pianta fu divelta.
Giovanni si sedette sul tronco per riprendere fiato, poi con santa pazienza, metro dopo metro, tirò l'albero fino alla baracca.
Le mani e il collo gli prudevano impastati di terra e di latte di fico. Si pulì alla meglio con l'erba bagnata, riconquistò le forze e dette inizio alla fatica più grossa.
Scavò, scavò senza risparmiare energie.
La testa bassa, il piede sul badile, il manico di legno sotto l'ascella a estrarre pozzolana e tufo. Con le mani ferite estirpava grosse pietre dalle pareti della buca e le spingeva fuori... e ancora giù, sempre più in basso, a cavar terra.
A notte alta aveva fatto un bucone così grande che insieme all'assassino poteva seppellirci pure l'automobile.
Si fermò: la baracca non si vedeva più, nascosta dietro i picchi dello sterro.
Risalì a fatica, caricò sulla macchina la pala e via subito verso la sepoltura in riva allo stagno.
Scavò anche qui, ma quasi subito sentì sotto le mani gli abiti bagnati della vittima.
Con le unghie e con le dita scalzò la terra intorno al cadavere, lo afferrò quindi per i piedi e lo trascinò via.
«Da là sotto, - pensò mentre guardava quei resti mortali in fondo alla buca, - neanche il terremoto lo farà venire fuori».
E cominciò a ricoprire palata dietro palata. Ributtò dentro le pietre, i tufi...
Verso la fine, un buon metro prima di spianare, piantò l'albero di fico, nel bel mezzo dello scavo; puntellò con i sassi la radice, ricolmò il fosso e ammucchiò terra intorno. Ecco, adesso poteva stare tranquillo. Il fico un giorno avrebbe attecchito, sarebbe cresciuto e avrebbe fatto ombra davanti alla baracca nelle prossime estati.

Rientrò a casa che era notte fonda. Le gambe gli tremavano per la stanchezza, non lo tenevano più diritto in piedi.
Era stata una fatica del diavolo e solo adesso si rendeva conto di avere strafatto.
D'altra parte in un caso del genere è sempre vero che chi più spende meno spende: poteva dirsi tranquillamente, lavandosene ormai le mani: «cosa fatta capo ha!»
A incremento di quell'ottimismo c'era la convinzione di non essere stato visto da nessuno, né all'andata, né al ritorno: tutti quelli che lo conoscevano non potevano pensarlo che a casa, insonne, in quella prima notte di solitudine.
E, anzi, per non rischiare neanche un pochettino, camminò per le stanze senza accendere la luce, con la fiammella di un cerino sopra le dita.
Con estrema delicatezza rimise a posto la cornetta del telefono e filò dritto dritto verso il letto. Per trovarlo dovette faticare un po' visto che era ridotto a una piazza sola e non stava più dove era sempre stato.
Finalmente lo sentì con le ginocchia, mandò un bel sospirone: non vedeva l'ora!
Trovò il pigiama, si spogliò e cadde subito, esausto, in un sonno ristoratore.
La mattina appresso stava già meglio. Alle cinque e mezzo aprì bene gli occhi, guardò la finestra buia e la sveglia, si girò dall'altra parte accoccolandosi intorno ai gomiti.
Riuscì a dormire ancora un'ora tutta d'un fiato, fino alle sei e mezza sette meno un quarto, quando la prima luce del nuovo giorno gli disegnò sulla faccia lo spigolo della persiana socchiusa.
Finalmente si alzò, si guardò tra quelle quattro mura. Si sedette su una sedia come se si trovasse nella casa di qualcun altro.
Notò subito che la carta da parati era tutta scolorita: sulla parete dove una volta c'era l'armadio era abbozzato un grande rettangolo fiorito mentre tutt'intorno non rimaneva che un giallo vago e affumicato.
Il comò, in quel nuovo posto, era un'altra cosa; i due comodini, ai lati di quel letto così piccolo, lui che aveva sempre dormito dalla parte sinistra, li vedeva messi là da un sacrestano; le due sedie mingherline accanto alla porta gli facevano pena.
Chiuse gli occhi e immaginò di ritrovarsi nella vecchia camera da letto; li aprì e si vide di colpo dov'era, nella nuova eppur vecchia stanza.
Chiuse e riaprì gli occhi ancora, tante volte. Si alzò e andò in cucina a prepararsi il caffè.
Pose la macchinetta sul fuoco, tirò fuori la tazzina, ci mise dentro due cucchiaini di zucchero.
Poi, per ingannare il tempo in attesa che la caffettiera fischiasse, con un mozzicone di matita ritrovata nel fondo di un cassetto, sopra un brandello della busta del pane si mise a calcolare: fece qualche moltiplicazione, qualche sottrazione, divise i pensionati per tanti bambini; tolse qualche anno per prudenza, qualche altro per contemplare gli imprevisti e un buon dieci per cento d'errore.
Togli e metti, per navigare sicuro verificò il problema con la prova del nove. Decise che più o meno gli restavano quindici anni da vivere, che non poteva escludere i cento anni e che comunque dieci erano quasi matematici.
La caffettiera borbottò, ribollì velocemente e di colpo si acquietò.
Giovanni riempì la tazzina e con le labbra a punta ci soffiò sopra a circolo. Soffiava e pensava che per una quindicina d'anni tutte le mattine sarebbe stato così.