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PATRIZIA BARTOLI
"Olga"


Olga rientrò a casa poco dopo le dieci. Tremava leggermente in tutto il corpo, sopraffatto da un sentimento di gioia che non sapeva tenere a freno. Ne era sorpresa e spaventata perché all’arrivo di Ernesto avrebbe dovuto far finta di niente. Bevve in un sol fiato un bicchiere pieno d’acqua per spegnere la sete che le bruciava la gola e andò in camera dove si tolse il vestito a giacca che ripose con cura nell’armadio insieme alla camicetta. Indossò svelta la gonna a quadri e la maglia beige che erano appese all’attaccapanni dietro la porta e prese a rifare il letto matrimoniale, stendendo bene le lenzuola. Poi, di nuovo in cucina, lavò le tazze della colazione, apparecchiò la tavola e cominciò a preparare il pranzo. Suo marito sarebbe tornato dal lavoro solo dopo mezzogiorno, esattamente dieci minuti dopo mezzogiorno, ma l’eccitazione che la pervadeva le impediva di fare le cose in modo sensato. Le parole della lettera che aveva appena spedito, disubbidendo per la prima volta da quando erano sposati alla volontà di suo marito, affollavano i suoi pensieri. Olga le ricordava tutte e le ripeteva una dopo l’altra come fa un bimbo con una filastrocca. Una, due, tre volte e poi ancora, senza stancarsi mai. Temeva che, se avesse smesso, quelle si sarebbero disperse lasciandole solo uno sbiadito ricordo di quella mattina, quando, all’insaputa di Ernesto, - un brivido le correva lungo la schiena al solo pensiero che prima o poi l’avrebbe scoperto- era uscita di casa e aveva raggiunto l’Ufficio Postale tra gli sguardi increduli di chi aveva incontrato.
Olga abitava a Fornaci di Barga da più di vent’anni, ma mai nessuno l’aveva vista per le strade del paese da sola, senza il marito. Olga era la signora Parrini, la moglie del ragioniere Ernesto Parrini, e i Parrini, come tutti sussurravano, erano un po’ bizzarri. Senza figli, vivevano appartati nella modesta casa a un piano, con la veranda e il modesto giardino, di Via Cesare Battisti e Olga trascorreva le ore del giorno in solitudine. Non aveva un’amica con cui parlare, ridere, piangere. Il suo mondo era fatto di niente, ma non se n’era mai lamentata neppure nel segreto del suo cuore, fino a quando, alcuni mesi prima, aveva ricevuto una lettera inattesa dall’Australia. Allora, tutto ciò che aveva perso e che credeva di aver dimenticato, era tornato con prepotenza a infiammare i suoi pensieri. Infine quella mattina, dopo lunghi giorni lacerati da dubbi ed esitazioni, aveva scelto di rispondere a chi si era ricordato di lei. Aveva scritto parole colme di gioia e di tristezza, di speranza e di rassegnazione.
Appoggiata al tavolo di cucina, mentre aspettava che Ernesto tornasse dal lavoro per il pranzo, sapeva, e la consapevolezza la faceva star male, che gli avrebbe mentito nascondendo la forte emozione che provava dietro i gesti abituali e le poche frasi, sempre le stesse, che si scambiavano prima di mettersi a mangiare. Ernesto, infatti, non amava più di tanto conversare con la moglie e preferiva immergersi nella lettura de La Nazione. Sfogliava il giornale soffermandosi su alcuni articoli fino al momento in cui, poco prima dell’una, la salutava senza affetto e inforcando la sua vecchia bicicletta tornava in fabbrica, al suo ufficio di contabile.
Accadeva così da anni – tutto nella loro vita coniugale si ripeteva uguale a se stesso – ed era improbabile che proprio quel giorno suo marito desiderasse fare due chiacchiere con lei. Tuttavia Olga era spaventata e, a mano a mano che i minuti passavano e s’avvicinava il mezzogiorno, l’audacia che l’aveva sostenuta quella mattina, le sembrava stupida e inutile. Nessuna lettera ricevuta o spedita avrebbe riportato indietro la sua vita. L’Australia era lontana, lei non sapeva neppure quanto, da quel piccolo paese adagiato sulla riva sinistra del Serchio che delimitava i confini della sua esistenza.
Per contrastare la paura che la soffocava e aumentava i battiti del suo cuore – li sentiva rimbombare furiosi dentro di sé come dei colpi di martello – girò per le stanze della casa in cerca di qualcosa da fare. Tutto era in ordine e pulito, come sempre. D’altronde non poteva che essere così dal momento che Olga trascorreva gran parte delle ore del giorno – di ogni giorno – occupata nelle faccende domestiche che riempivano – triste a dirsi, ma era la verità – il vuoto della sua vita.
Dalla camera alla sala, la stanza in cui Ernesto conservava con una determinazione maniacale i quotidiani e le riviste, niente era fuori di posto. Intanto le lancette del suo piccolo orologio da polso segnavano le dodici e la sirena della fabbrica prese a suonare
E fu quel suono che annunciava la pausa per il pranzo a darle la scossa necessaria per farla tornare in sé. Si ricordò che aveva ancora il rossetto sulle labbra e corse in bagno per toglierlo con un batuffolo di cotone. Nello specchio vide riflesso il suo volto segnato da alcune rughe intorno agli occhi e ai lati della bocca. Gli anni passati avevano lasciato una traccia nei suoi lineamenti che tuttavia a uno sguardo attento apparivano ancora belli Ma questo non era importante, si disse, e non era la bellezza quella che rimpiangeva; a volte provava un certo vago struggimento per quella ragazza dolce, timida e ingenua che era stata. La vita le aveva riservato poche gioie, tuttavia non aveva mai covato risentimenti e rancori, nemmeno verso Ernesto a cui era andata sposa in circostanze insolite.
Si era rivelato in fretta, ma senza sorpresa da parte sua, un matrimonio sbagliato a cui era rimasta assolutamente fedele accettandone affanni e crucci. Quando il signor Parrini, dopo aver lasciato la bicicletta sulla veranda e aver aperto la porta con la chiave che teneva nella tasca destra della giacca, entrò nel corridoio dalle mattonelle esagonali rosse e s’affacciò in cucina, Olga era lì ad attenderlo.
Era pallida e le mancava il respiro. Si passò una mano nervosa tra i capelli appena striati di grigio, ma con un sentimento di orrore ristette, temendo che Ernesto si sarebbe accorto che li aveva lavati quella mattina, prima di uscire. Ma era mercoledì, non sabato: quale bugia credibile avrebbe potuto inventare se gliene avesse chiesto il motivo?
Ma Ernesto non lo fece e, posando La Nazione e le riviste Oggi e Gente sul ripiano del mobiletto accanto alla stufa a legna, accennò uno sbrigativo saluto. Poi tornò nel corridoio e si tolse il cappotto, la sciarpa e il cappello che appese all’attaccapanni a muro. Olga si sorprese a pensare che era vestito troppo per quella calda giornata di marzo e che era giunto il tempo di fare il cambio degli armadi. Era un pensiero sciocco che tuttavia la distrasse dalla sua preoccupazione, riportandola per un momento alla sicurezza delle cose di ogni giorno. Dopo essersi lavato le mani nell’acquaio, il signor Parrini si mise a tavola; sua moglie lo servì di un misurato piatto di maccheroni al ragù, poi si se ne versò una porzione piccola per sé e si sedette pronunciando con voce fioca:
“ Buon appetito ”
“ Buon appetito “ le rispose Ernesto, sollevando lo sguardo che aveva già posato sulla prima pagina del giornale. Gli sembrò diversa dal solito: nel pallore del volto spiccavano le guance un po’ arrossate e gli occhi erano lucidi. La osservò con più attenzione e vide che la mano destra che sorreggeva la forchetta tremava mentre la sinistra stropicciava il lembo della tovaglia.
“ Ti senti poco bene? Stai tremando e sembra che tu abbia la febbre.” disse in modo brusco.
“ Non è niente. Solo un po’ di mal di gola, ma nulla di cui preoccuparsi. Non ho fame e …
“ Ah, se non stai bene, stasera non andremo a fare la spesa. Mi fermerò io alla bottega, tornando dal lavoro. “ la interruppe Ernesto, senza permetterle di finire la frase.
La loro conversazione terminò lì e, per una volta, Olga fu contenta quando lo vide sparire con la testa tra i fogli de La Nazione. Significava che per tutto il pranzo i loro occhi non si sarebbero incrociati e che lei non avrebbe dovuto sostenere il loro sguardo indagatore.
Per Olga era difficile affrontarlo anche quando non aveva nulla da nascondere; figurarsi quel giorno, le sarebbe stato davvero impossibile. Per più di vent’anni non aveva mai avuto un segreto da custodire e non sapeva come si faceva a mentire. Se le avesse chiesto qualcosa di più, se avesse fatto un’allusione innocente a come avesse trascorso la mattina, avrebbe finito con il rivelargli tutto di quella storia che era iniziata mesi prima con la lettera dall’Australia.
Era sicura che sarebbe stata così stupida da raccontargli ogni particolare, ma fortunatamente, Ernesto non s’interessò più di lei. Alla fine del pranzo – mangiava sempre velocemente – si accomodò nella poltrona vicino alla finestra e bevve in un sol sorso il caffè nero e amaro nella tazzina di vetro, poi fece un breve sonnellino. Non più di dieci minuti perché all’una meno un quarto era già in piedi che si metteva il cappotto, la sciarpa e infine il cappello. Salutò la moglie con un cenno della testa e se ne andò chiudendo a chiave la porta d’ingresso.
Solo allora Olga si sentì veramente sollevata e due grosse lacrime le scesero agli angoli degli occhi solcando le guance in fiamme. Si rannicchiò nella poltrona e pianse sommessamente abbandonandosi a un sentimento di nostalgia che negli ultimi tempi aveva provato sempre più spesso. In qualche modo che non sapeva spiegarsi, piangere le faceva bene e, a poco a poco, ritrovava la calma necessaria per riprendere la sua vita.
Anche quel giorno fu così e quando si alzò dalla poltrona si sentiva molto meglio. Sapeva che prima o poi, se non avesse fatto qualcosa, la sua fragilità le si sarebbe ritorta contro, ma scacciò quel pensiero che la spaventava. In bagno si lavò la faccia con l’acqua fredda e la tamponò con un asciugamano di spugna, ma non ebbe voglia di guardarsi nello specchio. Più tardi, dopo aver sparecchiato, lavato i piatti e rimesso in ordine la cucina, si sarebbe fatta degli impacchi di camomilla per attenuare il gonfiore delle palpebre. Trascorse il resto del pomeriggio lavorando a maglia e leggendo con poca voglia alcune pagine di Oggi e Gente. Fino a qualche mese prima le due riviste riempivano piacevolmente le sue giornate, ma ora erano incapaci di distrarla con i loro sogni luccicanti di falsità.
Alle cinque e dieci era pronta per ricevere Ernesto che però ritardò di circa mezz’ora perché, come aveva detto, si era fermato al negozio di alimentari. Un gesto gentile e inusuale da parte sua che normalmente non si curava molto di lei.
Durante la cena, come era solito fare, il signor Parrini ascoltò le notizie del Giornale Radio delle sette, commentandole ad alta voce. Quella sera, a differenza delle altre, per almeno due o tre volte cercò con il suo sguardo quello della moglie come per chiederle un parere. Olga ne fu sbigottita e impaurita temendo che Ernesto sospettasse veramente qualcosa. Il pensiero che quei modi, per lui inconsueti, fossero una trappola in cui farla cadere la colpì con violenza, dandole un senso di vertigine. Si costrinse a non abbassare gli occhi mentre a stento metteva a tacere la voce che le parlava dentro e la spingeva a rivelare tutto al marito in una sorta di confessione liberatoria. Si accorse così che nascondergli la verità non era poi difficile e che negli ultimi mesi c’era riuscita bene. Non doveva far altro che continuare e, più sicura di sé, gli si rivolse con un lieve sorriso sulle labbra, facendo di sì con la testa in un cenno di assenso alle sue parole.
La fine del Giornale Radio coincise con quella della cena e il signor Parrini si alzò immediatamente da tavola raggiungendo il salotto al di là dello stretto corridoio. Alla luce fioca di un lampadario a gocce avrebbe letto per un’oretta o due il giornale e i settimanali che ogni mercoledì comprava tornando dal lavoro. Il salotto era il suo mondo disadorno di mobili ad eccezione di una poltrona dallo schienale alto abbastanza comoda al centro della stanza. Intorno pile e pile di giornali e di riviste di cui stravagantemente amava circondarsi. Ogni mattina, Olga passava tra quei cumuli in equilibrio precario con uno straccio bagnato, attenta a non urtarli con lo spazzolone. Le era proibito spostarli e la polvere s’accumulava tra quei fogli un giorno dopo l’altro fino a quando, generalmente ogni due, tre mesi, era lo stesso Ernesto a sbarazzarsene. Li lasciava sulla veranda alla sera e la mattina dopo, molto presto, passava il camioncino della cartiera a ritirarli. Andava avanti così da anni e Olga non aveva mai capito perché. Nei primi tempi del loro matrimonio glielo aveva chiesto, ma Ernesto aveva risposto infastidito che non c’era un motivo, lo faceva e basta. Naturalmente il salotto non era stato arredato e in verità ai coniugi Parrini, che in vent’anni non avevano mai ricevuto una visita o fatto un invito a pranzo, non sarebbe servito a niente.
Olga viveva molte ore della sua lunga solitaria giornata in cucina e anche quella sera, dopo aver lavato i piatti e spazzato per terra, si sedette vicino alla radio ad ascoltare un po’ di musica, qualche canzone dell’ultimo festival di San Remo, prima di andare a dormire. Usciva raramente di casa - per fare la spesa tre volte alla settimana e per andare a messa la domenica - sempre accompagnata dal marito che le camminava accanto sfiorandole il braccio in un gesto che poteva sembrare affettuoso.
Una stranezza che Olga aveva fatto l’errore di accettare subito dopo il matrimonio e che negli anni s’era trasformata in una condizione senza scampo.
Nei giorni seguenti, non accadde niente. Olga immaginava la sua lettera in viaggio verso l’Australia e attendeva con pazienza una risposta. Sapeva che ci sarebbe voluto un po’ di tempo e si ripromise che non avrebbe avuto fretta, tuttavia ogni mattina verso le dieci sostava dietro le tendine ricamate a mano della finestra di cucina e aspettava l’arrivo del postino. Dopo tre settimane in cui non aveva perso la fiducia, cominciò a nutrire dei dubbi e il suo cuore si fece pesante di tristezza. Dopo aver provato una gioia immensa e aver pensato, forse scioccamente, che i suoi anni a venire sarebbero stati migliori di quelli passati, le era impossibile accettare quella delusione. Se molti mesi prima il postino non si fosse fermato alla sua porta e non le avesse recapitato quella lettera carica di ricordi, Olga avrebbe continuato a vivere la sua esistenza modesta, ma ora sentiva crescere dentro di sé un’insoddisfazione che la rendeva inquieta. Aveva quarant’anni e gli ultimi venti li aveva trascorsi in quella casa quasi come una prigioniera. Era arrivato il momento di liberarsi anche se questo avrebbe significato un pericoloso salto nel buio. Il pensiero di lasciare Ernesto l’atterriva perché non sapeva dove andare. Non aveva soldi suoi, almeno non molti, e avrebbe faticato a trovare un lavoro. Una donna sola, già di una certa età, che in tutta la sua vita non aveva fatto che la casalinga, che cosa si sarebbe dovuta attendere se non rifiuti e umiliazioni? Olga s’immaginava sola e smarrita tra estranei malevoli o, nel migliore dei casi, indifferenti alla sua sorte, ma non rinunciò facilmente al sogno che una stupida lettera, a cui non ne era seguita un’altra, le aveva donato. Non aveva più la forza di continuare nell’inganno di una vita infelice a cui era rimasta testardamente aggrappata, forse per disperazione.
Sapeva che Ernesto teneva nel primo cassetto del comò in una piccola scatola a combinazione qualche decina di migliaia di lire. Ne conosceva i numeri e non esitò: c’erano centomila lire in biglietti da cinque e da dieci che prese e ripose in parte nel portafogli e in parte nella tasca interna della borsa. Poi preparò con poche cose la valigia verde dai rinforzi in pelle che aveva comprato per il viaggio di nozze e che da allora era rimasta abbandonata nell’armadio a muro in fondo allo stretto corridoio. Si pettinò accuratamente e indossò il vestito a giacca con la camicetta bianca. Quando uscì di casa, chiudendo la porta alle sue spalle, erano le nove del mattino: avrebbe fatto in tempo a prendere il treno per Lucca.