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ALBERTO BEVILACQUA
Da "La Califfa"


Era la sua prima vacanza dopo molti mesi, quella fuga in macchina, con la Califfa al fianco che, fatto tardi la sera prima, e strappata dal letto, cercava di svegliarsi e di capire dove stessero correndo. Era ancora stordita dall’irrompere di Doberdò in camera sua, dalla luce che aveva inondato il letto, liberato la stanza da una penombra odorosa di giovane carne addormentata, mentre lui, afferrata la cinghia della serranda, con quelle goccioline di sudore felice e le guance infiammate, sembrava un campanaro che suonasse la resurrezione.
Il tempo d’infilarsi un vestito, di bagnarsi il viso e via, in quella macchina che, imboccata una strada di campagna, correva tra due argini bianchi di margherite, invasi dal polverone. E ora la Califfa fissava Doberdò con un certo timore, ché mai gli aveva visto occhi tanto piccoli e lucidi, senza capire cosa gli stesse accadendo. E forse non lo capiva nemmeno lui, Doberdò, quel fremito di correre, di scappare: il suo animo era confuso, e anche la sua mente; chiara era solo l’agitazione che lo spingeva e gli faceva tremare le mani sul volante.
Se prima era stata l’idea di un’assurda sopravvivenza, di un pericolo scampato, ora soltanto la necessità di bruciare la vitalità che lo colmava, lo spingeva a premere sull’acceleratore, con schiocchi d’aria dai finestrini aperti, verso il verde, dentro il verde. Guardò la Califfa rannicchiata sul sedile, le accarezzò le ginocchia scoperte, la faccia allungata sulle mani, che continuava a fissarlo. Immagini, parole, suoni ancora lo frastornavano: le parole del medico, la grigia faccia del grigio Gazza, i telefoni affratellati contro di lui, le segretarie, agitate, beffate. Beffate, sì, come l’ingegnere tedesco, l’industriale lombardo, il Martinolli, sua moglie, la vita stessa. Quanto aveva desiderato di piantare tutto, di scappare in campagna; e c’era riuscito. Adesso, s’arrangiassero da soli, dal momento che erano tutti padreterni...
“Ma dove si va, scusi?...” chiese la Califfa che, nonostante l’intimità, non riusciva ancora a dargli del tu. Doberdò girò una faccia attonita, come se solo allora si accorgesse che la strada era divenuta un sassoso viottolo, dove la macchina pencolava, e gli argini due grandi ali di campi, rosse di papavero. E dall’erba alta si alzava uno stordimento fatto di riverbero meridiano, di canti di uccelli sperduti sotto il sole. Cerano macchie di case, in fondo ai campi, e sulle terrazze le lenzuola sventolavano, tra voci impigrite. La vita stessa che era in lui, nel volto della Califfa ripiegato sullo schienale di velluto, nella sua bocca pesante di carne e di sangue.
Ecco, Doberdò ora cominciava a capire. Non fuggiva solo un agguato di lampadine e di telefoni, ma gli pareva di alzarsi nella gran luce, già giudicato, già leggiero, già libero. Capì, in quell’istante, la vita della luce quando non sta soltanto confusa alle cose, ma al di là di esse, nella sua assoluta purezza. La luce fu la sua vacanza, la sua giovinezza ritrovata, la religione della sua paura della morte. Arrestò la macchina. Piegò la testa sul volante: “Dio ti ringrazio, per questa luce, perché sono vivo... “
“Ma che ha?...” disse la Califfa, scuotendolo. “Non faccia così, che m’impressiona... Ma che, sta male?...” Male, l’idea, il buio del male, riecco quei gonfi piedi legati col nastro, e di nuovo il suo brivido. Spalancò gli occhi per riafferrare la luce e, nell’attimo di un presentimento, strinse a sé la Califfa, ne aspirò il giovane odore del collo, dei capelli, come se avessero dovuto dirsi addio, lì, nella luce di quella campagna.
“L’importante è essere vivi, Califfa, vivi!... Conta solo questo, ricordalo!...” La trascinò giù dalla macchina, si avviarono attraverso il prato, portando il vino e i cesti della merenda che lui aveva comprato prima di passare a prenderla. Calpestando l’erba ridevano, e lui non aveva più sessant’anni, ma trenta, venti, diciotto; era ancora il ragazzo che viveva nel fumo della sua piccola fabbrica, quello che si fermava a strappare i papaveri dai fossi, per ricoprirne la sua compagna. Lottarono ridendo, con i cesti che volavano in aria, e Doberdò riusciva persino a raggiungerla, nella sua corsa sull’erba che si schiantava sotto il suo piede.
Trovarono ombra sotto un muro di confine, in mezzo alle viti. La campagna baluginava nella nebbiolina meridiana e pareva di guardarla oltre un velo d’acqua. Doberdò, stranamente, si sentiva appetito e voglia di inebriarsi con quel vino di cui il medico raccomandava d’assaggiarne solo due dita (“Due dita soltanto, non di più, se no le vengono le palpitazioni...”). Rigirava il bicchiere contro la luce, prima di vuotarlo e diceva: “C’è da ridere, Califfa mia, per vent’anni mi sono mancate le cicale...” Girava la testa per meglio udire il suono che scendeva dagli alberi, confuso al ronzio dei mosconi: “...e i mosconi... Vent’anni come se non esistessero né cicale né mosconi...”
“E cosa vuole che sia, un moscone...” osservò la Califfa, cacciando un moscone dal suo pane imburrato. “Solo una brutta bestiaccia... “
“Eh no. Il moscone va su, nella luce... Guardalo un po’...” La Califfa rimase con il pane infilato in bocca, e intanto seguiva i giri dell’insetto che vorticava in su, verso il cielo tra gli alberi. “È l’unica bestia che capisca veramente la funzione della luce, la sua poesia, che sappia stordirsene da raffinato... Capisci?”
La Califfa fece una smorfia: “E perché dovrei?... Mi piace anche non capirle, certe cose che lei sa dire così bene... Tutti si danno un gran daffare per capire, ma è bello anche non capire, in certi casi... Dire, è così e basta”.
Doberdò sorrise. Si versò un altro bicchiere di vino: “Arrivi a capire tutto, quando ti accorgi che non potrai mai capire niente...” “ Eh già... “ fece la Califfa, riempiendosi la bocca.
“Come puoi capire la luce... C’è, è così, e basta” e Doberdò si sentiva confortato da quella filosofia spicciola che da anni si teneva in corpo, dal giorno in cui Clementina gli aveva perentoriamente proibito di profferire simili stupidaggini tra persone di riguardo come quelle che frequentavano palazzo Doberdò. Ma ora poteva sfogarsi, ché lo ascoltava solo la campagna, con la Califfa che pendeva dalle sue labbra.
“Perché, vedi, la vita di un uomo come me è quella di un tarlo, che parte dalla luce, e scava, gira e rigira su se stesso, dentro, sempre più dentro, per arrivare al midollo di chissà che cosa... Capisci?...” La Califfa allungò il mento per dire né sì né no.
“... e, quando arriva, si rende conto che in quel midollo c’è solo buio, buio e freddo... e che la luce stava fuori... e che sarebbe stato meglio se fosse stato fuori... tanta fatica di meno, tante umiliazioni...” Ma, ormai, il vino gli inceppava le parole e gli rendeva pesanti le palpebre. Le dita gli si allentarono, il bicchiere gli si rovesciò sull’erba, il sonno lo invase con un grande calore. La Califfa gli tolse il cibo dalla mano, lo ricoprì con la giacca, poi si distese anche lei sull’erba e finì per addormentarsi.