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ALESSANDRO CUPPINI
"A rovescio"


La mamma lo prese per mano ed entrarono nella stazione, appena in tempo per vedere arrivare il locale che veniva da Empoli e portava la ragazza.
Era stata una decisione improvvisa quella che avevano preso i suoi genitori, maturata in pochi minuti. Piero era stato promosso in terza elementare, ma la maestra aveva raccomandato di farlo studiare durante le vacanze, di fargli fare esercizio di lettura e di aritmetica, perché era un pochino indietro rispetto agli altri. E così una sera a cena, a vacanze estive appena iniziate, avevano deciso di invitare nella loro casa di campagna una ragazza che si era appena diplomata maestra e che abitava vicino a loro in città: avrebbe dato ripetizioni a Piero in cambio dell’ospitalità, e avrebbe anche fatto un po’ di compagnia alla mamma, sempre sola. Il treno si fermò con una lunga strepitante frenata. La ragazza fu la prima a scendere. Piero non l’aveva mai incontrata, e ora che la vedeva per la prima volta gli divenne ingiustamente ma immediatamente antipatica.
Si chiamava Ines, la mamma la chiamava la signorina Ines. Era una ragazza dai capelli radi e sbiaditi, priva di freschezza; nere mollette lucide, che sembravano serpentelli stirati, glieli fissavano sulla testa. La camicetta le pendeva dalle spalle magre e non era possibile avere meno petto; sotto la cintura però si affermavano più piene le forme femminili, e la gonna monastica non riusciva a nascondere le rotondità dei fianchi e tutto il resto. Gli fece una carezza e un sorriso, ma nei suoi occhi non c’era nessuna luce, né di desiderio, né di piacere, né di tristezza. I tacchi quadrati dei suoi vecchi sandali bianchi erano consumati all’interno e i piedi le scivolavano in dentro, uno verso l’altro. La signorina Ines disse un Buongiorno da grandi alla mamma e un Buongiorno da bambini a Piero. Poi gli chiese:
- Come ti chiami?
- Piero.
- Sì, Piero.
Assentì come se fosse d’accordo, come se, potendo scegliere, proprio Piero avrebbe scelto. La mamma in macchina chiacchierava con vivacità, contenta della compagnia. Aveva pochi anni in più della ragazza, in fondo.
La casa di campagna sorgeva alta sulla collina verde di olivi. Davanti aveva un’aia selciata: i vecchi ciottoli bianchi, levigati da milioni di passi, mostravano ogni tanto le loro teste calve e brillanti fra la polvere. I muri di sasso sembravano sgretolarsi sotto il sole divorante, le screpolature dell’intonaco si allargavano e si allungavano millimetro dopo millimetro, anno dopo anno. Era una casa antica, solida e spaziosa, con tanti angoli freschi nei quali era bello sedere e riposare. A Piero piaceva tanto. Arrivando nella luce del tramonto gli parve ancora più bella: l’aria scintillava limpida e asciutta, stendendo sulle colline, sui cipressi, sugli olivi, sulla casa stessa una patina tersa e levigata come se ogni cosa fosse stata ritoccata con una mano di acquerello.
A casa la signorina Ines si sistemò nella sua stanza, a fianco di quella di Piero e comunicante con essa. Poi scese a cena.
Il papà le fece un sacco di domande, sui suoi studi, sulla sua famiglia, anche sulle sue idee politiche. Poi Piero andò a letto, e loro rimasero ancora a lungo in salotto, a chiacchierare.

Il giorno dopo si cominciò. La signorina Ines lo fece leggere e si rese conto delle sue difficoltà. E così fu con l’aritmetica. Iniziarono gli esercizi, due ore al mattino e una al pomeriggio, dopo il riposino. Era annoiante, ma questo Piero se l’aspettava. Quello che non poteva andargli giù era la meccanicità senza trasporto con la quale la Ines insegnava, seria e sgradevole sia quando lo rimproverava per la svogliatezza che quando lo lodava per l’impegno. Piero fin da subito la pose a confronto con la maestra della scuola, così allegra, entusiasta e materna, e con la mamma, dolce e serena, che qualche volta lo aiutava nei compiti a casa; era solo un bambino, non si rendeva conto dell’ingiustizia di quel confronto: la signorina Ines non avrebbe mai potuto uguagliare l’esperienza della maestra Pietra e la tenerezza della mamma. E dal confronto naturalmente usciva a pezzi.
La signorina Ines aveva metodi pedagogici antichi: quando Piero sbagliava per la seconda o terza volta sulla stessa cosa si credeva presa in giro, e allora gli dava un pizzicotto cinese prendendogli la pelle del braccio con le unghie. Senza stringere troppo, ma lui il dolore se lo sentiva dentro. L’ora del pomeriggio era dedicata alla lettura. Nel leggere Piero compitava sottovoce le parole, mentre lei lo stava ad ascoltare e lo correggeva. Un giorno senza volerlo lui fece una bolla di saliva che gli si fermò sulle labbra. La Ines non voleva che le facesse, diceva che non era elegante né fare bolle di saliva né far saltellare la gamba accavallata. Anche allora gli disse severa:
- Non fare le bolle, Piero! E Piero per dispetto quando lei uscì dalla stanza per un momento si mise a fare apposta decine di bolle e a far saltellare furiosamente la gamba accavallata. Ma la Ines tornò prima del previsto e lo sorprese. Allora Piero le vide l’ira negli occhi sbiaditi mentre gli diceva:
- Ti ho detto di non fare le bolle. Sono stata chiara? E ripeté:
- Sono. Stata. Chiara? Piero tuttavia cercava di impegnarsi, ma lei, così rigida e senza mai un sorriso, non gli facilitava il compito. La storia antica era una cosa che l’appassionava, di questo la ragazza si rese subito conto. E su quello faceva leva per invogliarlo alla lettura. Un giorno perciò gli raccontò la storia di Giulio Cesare e di come fosse stato pugnalato da Bruto davanti al senato. La cosa impressionò Piero. Quella notte si svegliò e vide la luna brillare attraverso il rettangolo della finestra. Pensava a Cesare e al suo assassino. Dopo un po’ si alzò in piedi sul letto, col lenzuolo avvolto attorno al corpo e nel buio urlò con voce tonante, come pensava dovesse avere un grande generale come Giulio Cesare:
- Aaaanche tu, Bruto, traditooore! E piombò sul letto di schianto, senza piegare le ginocchia, come un morto pugnalato. La signorina Ines che dormiva nella stanza accanto, svegliata dall’urlo e dal trambusto, arrivò di corsa, spettinata e in camicia da notte:
- Piero! Alla luce della luna vide Piero che giaceva sul letto a gambe larghe, una mano all’altezza del cuore, trafitto da trenta pugnalate.
La ragazza lo calmò e lo mise a letto, ma per lungo tempo Piero non riuscì a riaddormentarsi. E quella scena tremenda la rappresentò ancora le notti successive, in silenzio, per non svegliare nessuno.

Un sabato la mamma gli disse che se voleva poteva andare al mare con la signorina Ines. Era tanto che Piero gliel’aveva chiesto alla mamma e mai era stato esaudito. Ci rimase male: lui al mare ci avrebbe voluto andare con la mamma e il papà, mica solo con la Ines.
- E voi non venite?, domandò.
- No, Piero. Papà deve andare in città e io lo accompagno per dare un’occhiata alla casa.
Si sentì scaricato.
- Ma… - Ci andremo un’altra volta, tutti insieme, disse la mamma facendogli una carezza. Te lo prometto.
I pullman per il mare partivano dalla stazione di Empoli. Mamma e papà li accompagnarono prima di proseguire per la città. Quando scesero abbandonando la fresca aria condizionata della macchina, il caldo li assalì a tradimento. L’aria riscaldata tremolava come un lago di cui un vento leggero agitasse l’acqua increspando la superficie.
Erano arrivati in anticipo. Il pullman sotto il sole aspettava i passeggeri. La Ines disse:
- Fa troppo caldo sul pullman. Vieni, aspetteremo in stazione. Dalla sala d’aspetto Piero guardava il pullman. Sotto i finestrini aveva delle striature regolari di vomito. Lui aveva una grande curiosità per il vomito perché non aveva mai vomitato. Si chiese perché i passeggeri avessero vomitato in modo così uniforme e se lo avessero fatto tutti insieme in un unico conato ben sincronizzato (magari a tempo con la musica della radio del pullman) oppure separatamente, uno alla volta.
Richiamati dall’autista salirono sul pullman. La Ines aveva una grande borsa con gli asciugamani e i costumi di ricambio. La mise sulla reticella sopra di loro e si sedettero su due sedili affiancati. Nell’aria c’era un odore amaro di metallo che veniva dai corrimano d’alluminio e rimaneva sulle dita una volta che queste li avevano toccati.
Partirono. Piero si guardò intorno. C’era gente, ma nessuno sembrava andare al mare; erano persone che sarebbero scese alle fermate intermedie, nei paesini che avrebbero attraversato. Di fronte a lui c’era una donna grassa, in piedi. Si teneva stretta ad un sostegno col braccio teso in avanti. Quando l’autobus era in movimento, il grasso delle braccia dondolava come un bucato pesante al vento. Quando era fermo, per le vibrazioni del motore si agitava come una tenda mossa dal vento, una tenda di carne.
Su un sedile dall’altra parte del corridoio c’era un tipo con la canottiera che gli lasciava scoperto l’ombelico. Aveva i capelli neri e ricciuti, i peli delle ascelle non protetti dalle braccia neri e sottili, quelli del ventre neri e robusti. Un uomo con tre tipi di peli:
- Ines, guarda quello là…
- Non si indica con il dito!,disse la Ines, severa.
- Sì. Ma guarda quello là. Come può essere che ha tre tipi di peli?, e gli spiegò il suo dubbio.
La faccia della Ines si fece ancora più severa:
- Ti sembra il caso di notare queste cose?
Piero non sapeva cosa rispondere, gli pareva un’osservazione come un’altra, la sua. Vide la piega profonda tra i sopraccigli della Ines, capì che era meglio lasciar perdere, perplesso si girò dalla parte del finestrino e tacque.
Si mise a guardar fuori. Il pullman passava da paesi con nomi che da soli sarebbero bastati a comporre armoniose ed esotiche poesie. Lungo la strada, al loro passaggio, certe foglie verdi grandi come un fazzoletto si inchinavano in un consenso di massa: sembrava che nessuna di loro nutrisse il minimo dubbio.
Piero alzò lo sguardo: il sole splendeva attraverso il finestrino aperto direttamente su di lui. Chiuse gli occhi e splendette di rimando; anche attraverso le palpebre la luce era brillante e caldissima. La parte posteriore delle gambe gli si fece umida e sudata, la pelle scivolava sulla plastica del sedile. Piero chiese:
- Mi si attaccano le cosce al sedile. Succede anche a te?
La Ines non rispose.
Finalmente arrivarono al mare. Nello scendere dal pullman Piero notò una rana morta sull’asfalto: era talmente spiaccicata, talmente piatta, che aveva più l’aspetto di una macchia a forma di rana sulla strada che di una rana vera.
In pochi passi furono sulla spiaggia. La Ines lo spalmò con la crema che le aveva dato la mamma, poi spalmo sé stessa, chiedendo a Piero di mettergliela sulla schiena: il costume le cascava sul petto senza poppe, come se l’avesse indossato un uomo. Anche al mare faceva un caldo infernale, e Piero chiese di andare subito a fare il bagno. Ma non erano trascorse le tre ore regolamentari e così fu costretto ad aspettare. Passò il tempo a costruire castelli di sabbia, con in testa un cappellino bianco da marinaio. Dopo il bagno mangiarono i panini e bevvero la gazzosa. Poi Piero giocò un po’ con gli stampini e le palline coi nomi dei corridori in bici.
Alle quattro il pullman tornava indietro; ma alla Ines l’ora quasi passò e lo presero per un pelo. Dentro, faceva ancora più caldo che al mattino. Ad una fermata intermedia salì una strana signora che si sedette dall’altra parte del corridoio, con la faccia rivolta verso di loro. Aveva le guance rosse e i baffi, e tossiva sputando catarro che avvolgeva in piccoli cartocci di carta strappata dal giornale che teneva in grembo. Sistemava i pacchettini in file ordinate sul sedile di fronte a lei, come se stesse mettendo su una scuderia di catarro. E intanto chiacchierava tra sé e sé con una voce morbida e suadente: forse voleva autoconvincersi di qualcosa. Piero non commentò, nel timore che la Ines gli rispondesse che non erano cose da notare. Ma la cosa lo impressionò parecchio, e nei giorni successivi di nascosto si mise a fare il gioco della tosse: tossiva e sputava in cartoccini di carta di giornale che poi allineava sul bordo del letto.
Il pullman si fermò ad un incrocio. Il cartello triangolare bianco e rosso diceva: STOP.
POTS, lesse Piero.
Più avanti, un cartellone giallo e rosso diceva: VODAFONE - LIFE IS NOW:
WON SI EFIL - ENOFADOV, lesse Piero.
- Lo sai che non devi leggere alla rovescio, disse la Ines in tono esasperato, senza guardarlo.
Lo sapeva. Il giorno dopo fu costretto a scrivere cento volte: Non leggerò più alla rovescia.
Nel pomeriggio la Ines dovette tornare in città perché sua madre si era sentita male. Piero stava finendo la centesima frase quando la mamma fuor di sé portò la tragica notizia che la signorina Ines traversando una strada era morta travolta da un’auto che nel cercare di evitarla era finita in un fosso.
Piero pensò che c’era una giustizia al mondo, dal momento che nell’incidente l’auto si era rovesciata. Poi si chiese se la Ines fosse stata spiaccicata in una macchia a forma di signorina Ines dall’auto che l’aveva investita.