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ALBERTO ARBASINO
da "Fratelli d’Italia"


Su quell’orrido tratto di via Cassia tra Siena e Firenze il tempo continuamente peggiora: il cielo sempre più scuro, scrosci radi, un temporale che non si sfoga, ventate calde e ventate fredde, con polvere afosa, rabbiosa.
Arriviamo a Firenze in fine di pomeriggio e subito un bagno in un grosso albergo tutto di plastica verde e neon in fondo ai lungarni, pare un air terminal, altro di questi giorni non si trovò. Via un cappuccino e un altro cappuccino in una hall per gruppi con la sensazione di sentir chiamare il nostro volo o il bus. Arriviamo in via Tornabuoni e fa quasi buio, non perché sia tardi, ma per questo temporale.
Per entrare in Palazzo Strozzi ci vuole il permesso della polizia, ma poi dentro è strapieno di gente, non sanno dove mettere gli impermeabili e s’asciugano le caldane su e giù per le scale, strofinandosi da uno stand all’altro, fra ondate d’odore di tuberose e di ascelle, e mostri sacri e profani usciti tutti insieme e stravolti dalle loro peluches: inglesi candidi delle colline, in lini gualciti e foulards molto lavati, coi loro passettini corti e le loro mantellette blu; Benedette e Fiammette e Ginevre dal profilo cavallino o canino, che vivono tra il Kent e il Chianti, «ma naturalmente non in villa, in fattoria»; attrici e danzatrici dannunziane in ritiro, cre-dute estinte, scappate per la giornata da un chiostro o un chiosco; sciami di mondanoni cinguettanti che erano ieri a Roma anche loro fra una terrazza e un Gambrinus e «un piiiccolissimo pranzo», o «il loro solito pranzo», o «un pranzettino improvvisato ch’è stato un amooore!», e calano qui per l’orribile Cassia come tutti, oppure «con un treno co mo-dis-si-mo!»… «un treno?»…un treno!»… svolando da un must all’altro in gruppi di sarte principesse e arredatori aristocratici overdressed nel rustico, ridendo e abbracciando le fiorentine eleganti e spostando le fiorentine invadenti agitate, sudate, non pettinate, con delle gran borse, la scodella della ribollita già adesso in mano (conoscono qualche cameriere al buffet non ancora aperto?), lappandola come se l’inghiottissero per la prima volta o l’ultima, e dicendosi a gomitate e a voce altissima «ovvia! domandare non costa nulla!», e perciò s’affannano a chiedere tutti i prezzi di tutte le commodes francesi da decine o centinaia di milioni. E il perfido antiquario: « L’è arte povera! ».
I prezzi sono deliranti; e probabilmente non hanno più nessun rapporto con nessun valore degli oggetti. Con quest’afa, con questo odor di sudore, come si fa a superare lo sturbo da cornici dorate, la nausea da Setteciuento, il rigetto da marqueterie… «Raimondo quando rideva con Desideria per le lacche di Lucca…» fa Antonio distrattamente, mentre si salgono le scale fra questi mobili “importanti” del genere «o via lui, o via io» perché possono rendere inabitabili intere pareti, intere stanze… Gli atroci trumò con alzate e ribalte e coronamenti a ghirlande e le damine sugli specchi incisi, come sventolando una bandierina per festeggiare l’evasione fiscale ben riuscita del commendatore e della sua sciura… Gli stipi intagliati e i cassettoni grevi che si immaginano in fondo a saloni bui, per vederli meno, preferibilmente in campagna, dove per rubarli ci vuole almeno un camion sulla ghiaia… Le consoles nemiche della casa ideale senza mobili, le poltroncine ostilissime all’arte del relax, dello spogliarsi e stendersi in tutte le composizioni e flessioni… I cabinets a tarsie o smalti, da vender subito, possedendoli, per comprarsi dei comò di noce molto biondi, illuministici e romantici e da usare come containers fra tanti divani bassi, tutto un understatement di facciata ma coi loro cassetti pieni e traboccanti di cashmere e camicie di tutti i colori da tirar fuori a bracciate per il «cosa ci si mette stase-ra?»… O nei casi più illustri: «prendi quella che ti piace di più»…
Ma questi branchi di comodini e divanini a bombature e riccioli per cui par difficile intravedere altro che il boudoir del sarto da principesse persiane o ereditiere del Brasile… Le mandrie e greggi di pendole e di quei morettacci veneziani che vien voglia di prendere a calci, perché non sanno far altro che porgere candelotti dorati o collane Chanel false da tabaccaio in case dove si mangia in piedi ma la roba è da tagliare con coltello e forchetta, e il bicchiere sul piatto… Con quest’afa, questo sudore che s’attacca alla pelle, con la polizia, i cordoni rossi, le piante verdi, gli stendardi col gi-glio, gli alabardieri vecchi del Comune in panni pesanti da comparse di Meyerbeer, e le tuberose appassite, e le trombe ogni tanto… e qua e là una celletta da romito ricavata fra una porta e l’altra col suo inginocchiatoio e i suoi due cipressetti del vivaista, morenti… e le ventate di correnti fredde, a un tratto, fra una porta che s’apre e una finestra che sbatte…
Tutti questi piccoli stand claustrofobici fitti fitti l’uno sopra l’altro, tutti con l’antiquario dentro come la sorpresa nell’ovetto di Pasqua… Questo parterre da spedizionieri che significa sei o sette secoli di ininterrotto Dugento italiano… secolo infaustissimo che com’è noto non è finito ancor oggi… e comprende non solo i fondi-oro, le madie, le savonarole, quelle Madonne uso senese che se non son finte certamente le sembrano, e ferri battuti, cuoi bulinati, portafogli zigrinati, arcieri e calcio in costume, filigrane, orci, Enrico IV, «preparati la bara Giannettaccio!»… ma – come qui ben si vede – include tutto un côoté goldoniano di lacche, lezii, graziette, servette, cuffiette, reverenzine, manine sui fianchi, vetri soffiati, cornici dorate, lustres che sberlùccicano, divani da pòrtego, ciàcole, cicciccì, conterie e bucintori… E più si sale, vagonate di paesaggisti veneziani con cerimonie e ricevimenti d’ambasciatori, cortei, chicchere… E però a un tratto un Hubert Robert da gridare in parecchi «ma è una vera chicca!»… Addirittura si viene trascinati a un Michelangelo giovane, magari neanche finto, una Madonna col Bambino e «con gli stessi colori di pietra dura del restauro d’una Deposizione alla National Gallery di Londra»… Un Raffaello, giovane anche lui, anche lui col suo temino della Madonna + Bambino N. 125, i suoi alberetti dietro da Perugino garden center, giusti… E poi spinti di qua: il solito Magnasco… Tirati di là: il solito Monsù Desiderio… E all’ultimo piano un intero safari di fiamminghi più o meno Bruegel da arredamento, forse perfino un sotto-Rembrandt, di quelli leggermente fastidiosi, ove un apprendista dello spot giallo vuol proprio spremere e sfruttare e non buttar via niente della sua riflesseria da elettricista teatrale su metallo scuro…
« Antonio, me lo lasci prendere almeno un caffè? »
«Sì, poverino, c’è il bar apposta… Prendi un po’ quello che puoi… ».
Ma mentre pago e chiedo se ne vuole, sento che fa un «non è possibile!» da night-club.
« Cosa c’è? Lillian Gish? ».
«Desideria! Dai! Muoviti! ». Mi pare un matto.
«Va’! Chiamala!». Cosa devo dire? «Senti se vuole un caffè anche lei! ».
Lui corre. Metto giù il mio caffè, e gli corro dietro. Ma è un mitomane, ha le visioni. Non c’è mica, lei…


Fratelli d’Italia è edito da Adelphi.