Non ero come Roy. Sarebbe diventato un bambino bionico lui. Uno capace di fare meglio tutto ciò che fanno i bambini della sua età e quelli come me. Era successo prima delle dieci. Ero rimasto a casa per via della faringite e per questa mattina alla Spider Wine sarebbero stati senza capo. Cioè me. Non era il postino vecchio tipo. Niente tracolla zeppa di lettere scritte a mano. Niente divisa postale. Niente a farlo una persona di riguardo e di rispetto per quello che andava a consegnare. La motoretta che l’aveva portato davanti casa mia l’aveva lasciata accesa. Non riuscivo a dire niente. La luce del campanello sopra la porta della cucina stava sul rosso. Dal verde che slampa al primo drin s’era fatta gialla al terzo, e al quinto rossa. Lo stronzo non c’è. Né Roy o nessun altro l’avrebbe sentito. Io però gliel’avevo visto dire. S’era girato. Non sono stronzo ma sordo. Avevo spalancato la porta e quello era trasalito. M’aveva messo in mano un foglietto di carta velina. La testa bassa la ciondolava sopra un registro di pochi fogli dove altri prima di me avevano acciaffugliato il proprio nome. In silenzio. Preoccupati. Attanagliati dalla malinconia. Forse devastati dalla gioia. Le cose scritte sui foglietti carta velina c’è bisogno di saperle subito. Appena-appena successe da qualche parte lontano da te. Magari poco prima del loro sicuro e inevitabile inizio. L’ultimo telegramma me l’aveva portato Federico. Un postino vero di quelli rifiniti. A Prepo faceva il giro con la sacca a tracolla di pelle marrone scolorita piena zeppa di lettere vere. S’era tolto il cappello della sua divisa grigio chiaro. M’aveva fatto sedere. Sul foglietto di carta velina due parole m’avevano strappato la voce. Mamma è morta. Freddo. Acido. Intirizzito dal dolore papà me l’aveva detto così. Gaiole in Chianti stava scritto con le lettere a rincorrersi sul timbro rotondo del telegramma di stamattina. Roy. Insopportabile. Spocchioso. Romeo Maria Galletti. Son quel che sono anche grazie alle sue mortificazioni. Che ero scemo. Che uno che non sente le sirene va a finire che muore schiacciato. Da una bomba. Da un buldozer. Da uno schiacciasassi. Dopo la disgrazia d’Emma l’ho odiato. Era il sabato dopo. La madre era venuta a dire alla mia di quanto fosse dispiaciuta. Roy m’aveva fatto sedere vicino alla finestra. M’aveva detto di fissare un qualcosa fuori senza muovere gl’occhi. Anzi, era meglio se l’avessi chiusi. Gl’avevo dato retta. Il mio urlo non è come quello di chi fa uscire dalla bocca parole per intero. E’ spezzato. Forzato. Affossato tra l’aria che spinge in su dallo stomaco e quella che mi s’ingozza senza controllo da fuori. L’odore di bruciato era forte. Non sentivo più Roy nella stanza. Le mani che avevo messo in faccia arse sul palmo m’avevano tirato fuori il mio ululato da cavernicolo. Mamma aveva buttato i 2 petardi bruciacchiati da sopra il davanzale e m’aveva tenuto in collo un giorno intero. Roy a casa nostra non era più venuto. A Villa Vistarenni Ladislao molto malato. Chiede di te. Gianna. L’ultimo di telegramma adesso era questo. Non era più solo Roy. Alla Vistarenni i ricordi m’avrebbero rimontato la scimmia sulla schiena. Emma. Cosa voleva dire morta? Persa. Inerte. Voleva dire andata via. Da me. Per sempre da tutti. Toccava sempre a lei tenermi d’occhio. Io, il suo fratellino sordo di 4 anni più piccolo. Emma era ottocento volte più intelligente di tutti gl’altri. M’aveva insegnato a parlare. M’aveva detto di un certo germe schifo che sulla culla m’aveva succhiato qualcosa dentro l’orecchio. Lo stronzo aveva detto. Lei parlava. Parole piccole ma buone. Emma si portava le mie manine tozze da bambino di due anni sopra la sua gola e diceva cose. Mi diceva anche di fissarle le labbra. L’aria le veniva da dentro. Schioccava in gola. Pigiava sulle labbra carnose e sporgenti come quelle di mamma e composte in fila componeva suoni. A ridere. A urlare avevo imparato subito. Seguivo il suo sorriso. A mille watt. Emma rideva a denti scoperti. Bianchi. Perfetti. Precisi a quelli di mamma insieme ai capelli neri-dritti a spaghetto e gl’occhi vivaci e sempre dilatati come due piccole olive feroci. Il water s’era intasato. La gola mi bruciava. Le luci del soggiorno lampeggiavano. Il cellulare introvabile. Stavo in mutande e sudavo. Le luci non smettevano. Qualcuno insisteva di brutto. Sotto la ciabatta qualcosa faceva spessore sul pavimento. Ti 6 deciso Elio? O Santa o me! Col cavolo che lascio la mia Santa Maria della Versa. Fanculo. La 2° parola che Emma m’aveva insegnato. Alla Spider Wine per 3 giorni senza capo stavano ok. Adriana l’avevo mandata nel posto giusto. Per la Pavia-Firenze in 3 ore a Gaiole ci stavo. Fanculo se rivedevo Roy e quei suoi compari. Fanculo al bosco dietro la Villa, dove per giorni ero rimasto ad aspettare Emma. Al diavolo poi i vicini che prima c’erano amici e dopo la scomparsa d’Emma avevano messo in giro certe voci. Il telegramma di Gianna m’aveva svuotato di qualcosa e riempito con altro. Alla Vistarenni avrei spalancato la porta della stanza di pà. I suoi libri accatastati sotto le finestre. Quelli dietro le tende. I suoi fogli scritti e riscritti mille e una volta. L’avrei rivisti. L’avrei raccolti uno per uno. Ciondolante sulle gambe smilze e lunghe più del busto, il mega prof. Mario Ballucci, senza la sua Emma non passava manco più in soggiorno al rientro dalla sua cattedra universitaria. Mamma lo seguiva. Dentro quella sua stanza chiusi dicevano cose. Di me. Il sopravvissuto. Regina, vedrai mi passerà…poi penserò a Elio..ma devo aspettare che mi passi. Da fuori m’arrampicavo sul finestrone di quella stanza. Riuscivo a vedergli le labbra. Rattristato. Inferocito andavo nel bosco. Chiamavo Emma. Io, per me, per lui ero il figlio scemo. Da buttare. Da tenere lontano da quel suo dolore per la figlia scomparsa. Non una qualunque. Emma. Emma mia. All’inizio mamma m’accoccollava nella seggiola a dondolo che s’era portata dal suo paesello contadino. Regina. Nonno l’aveva voluta chiamare così. Alta con certe spalle larghe a stringere sulla vita stretta, mamma con un seno grande e tondo era la tipa che quando andavamo nei negozi e avevamo difficoltà i commessi facevano a gara per aiutarci. M’aveva regalo Tobia. Una scimmia vera. A cavalcioni sul mio collo m’accompagnava. Dappertutto. Tobia m’avvertiva dei rumori. Un’auto che strombazzava mentre attraversavo. Un compagno che mi chiamava da lontano per salutarmi. Mamma che mi diceva di prepararmi per la cena. Se stavo scoglionato Tobia scopriva i denti giganteschi e mi mostrava il culo. Spisciavo dalle risate. Pensavo che anche Emma da qualche parte mi vedeva e rideva come me. Meno di 3 ore e stavo a Gaiole. Non sapevo da che parte guardare del cielo. Se il paradiso non era in cielo Villa Vistarenni c’andava vicina. La facciata bianco latte. Le persiane precise e regolari. Il capitello incastonato tra le due parti di tetto parallelo alla scalinata spezzata a farla la reggia delle regge. Chi me l’aveva fatto fare. Tutta quella strada. Ladislao malato che cerca me. Tobia sepolto nel bosco dietro Vistarenni. Il tormento di rivedere Roy. E poi Emma. Un bel giorno la mia sorellina di 14 anni non s’era più trovata. A parlare con qualcuno non ce l’avrei fatta. Il parcheggio pieno di macchine e la comitiva in sedia a rotelle m’avevano devitalizzato. A rompere il silenzio che m’abita dentro da una vita il richiamo dei delfini. Il suo. L’unico. La sola cosa che sentissi. Gianna da sempre mi chiamava a quel modo. Veloce dalla scalinata s’era buttata al mio collo. Per le mani mi tirava a sé. Il bacio sotto lo zigomo m’aveva lasciato interdetto. Son contenta che sei venuto. Discosta da me gliel’avevo visto dire. Qualcuno tra quelli in sedia a rotelle ci stava salutando. Capello corto. Occhi bovini. Il viso cotto dal sole a farle triangolo sul mento. Gianna era stata la migliore amica d’Emma. Mi tirava su per la scalinata senza mai lasciarmi la mano. Dopo il bacio m’aveva preso le guance tra le sue mani. Elio, devi essere coraggioso, comprensivo…si tratta d’Emma.. Ancora non avevo parlato. Niente Elio. Devi solo ascoltare. E’ tutto ok. M’ero guardato dietro per via della scimmia sulla schiena. Il tipo sulla sedia a rotelle aveva chiamato Gianna. Ciao Roy. Senza guardarlo l’aveva zittito. Non potevo essere tornato a Villa Vistarenni. Non potevo entrarci dentro. Non potevo ripensare a Emma. Gianna m’aveva tenuto la mano per tutto il tempo. Sulle spalle. Sul torace. Sudavo freddo dappertutto. La stanza della portineria era più grande dell’ultima volta. Avrei giurato che non c’era nessuno. Non riuscivo a respirare. Gianna non mi lasciava la mano. La bocca non stava chiusa. Sullo stesso punto di prima Gianna m’aveva dato un altro bacio. La poltrona davanti alle finestre con le tende tirate conteneva qualcuno. Ne vedevo la testa. Gli stavamo davanti. Ladislao! Aveva cominciato a dire parole. Tanto non le sentivo. Piangevo. Cercavo l’aria che non c’era. Gianna fissava il padre. Prima aveva lasciato la mia mano. Un po’ dopo gl’era saltata addosso. Immobile Ladislao l’aveva lasciata fare. Pugni. Sputi. I calci Ladislao non credo l’avesse sentiti. Adesso ero io che tiravo Gianna per un braccio. E’ morto. L’avevo schioccato in gola con la folata di vento che spifferava dalla porta. Anche Gianna piangeva. La vedevo dire parolacce. Non avevo voglia di far niente per consolarla. Volevo tornare a Santa. In piedi Gianna uno scalino sopra a quello dove stavo io voleva che capissi. Andiamo da Emma. M’aveva ripreso per mano. Imboccato il corridoio sotto la scalinata esterna della Vistarenni scendevamo scalini lisci e consumati. Non ricordavo quel posto. Il fradicio di vecchie barrique e la mancanza di luce l’avevano putrefatto. Vieni devono essere qui. Ancora scale. A chiocciola queste. La testa mi girava. Pressione. Tensione. Paura. I pantaloni che strappavano verso il basso facevano da cena a un topo. Nel calcio che gl’avevo tirato la mia rabbia aveva sbattuto la bestia contro il muro infondo e m’aveva tirato su il nome di Gianna. S’era bloccata. Risaliva le scale per venire da me. L’urlo m’aveva fatto ansimare. Che cazzo volete da me? Tremavo. Piangevo. Gianna aveva fatto per abbracciarmi. L’avevo tenuta lontana. Tuo padre e mia madre hanno avuto una storia. Non una qualunque. Elvira era rimasta incinta. Il mega prof. Ballucci aveva fatto lo gnorri. Allora è nato Tommy il mio fratellino. E il tuo caro Elio. Muto come te. Senza parole. Sempre seduto. Lui però si dondolava di continuo. Mugugnava. Di notte lo sentivo strillare. Il gorgoglio delle lacrime-saliva m’aveva inumidito la gola. Io che centro, eh Gianna? Gianna non m’aveva manco sentito. Tommy era strano. A 6 anni mi dissero che l’avrebbero portato in un posto fatto apposta per lui e da allora non l’ho più visto. Per mano con Gianna adesso stavamo davanti a un muro sfondato. In trans continuava a dire cose. Cazzate. Ladislao l’aveva murato qui. Ma un giorno Tommy è uscito. L’ha presa, Elio. L’ha portata qui con lui. Lontano da noi. Parata sull’apertura più larga del muro Gianna guardava dentro. Non le vedevo più le labbra. Forse stava zitta. Forse aveva finito e credeva d’essersi spiegata. A parole. Da alcune pietre rimosse spifferava luce. Al centro il letto a baldacchino di mamma. Le paranze in tulle ingiallito l’avvolgevano tutt’intorno. Il sopra del baldacchino squarciato ciondolava tra 2 figure. Di scatto Gianna aveva affossato la sua faccia sotto il mio collo. Lacrime disperate. Vile. Caustico. Ignominioso pure avevo ignorato il suo dolore. Con le mani l’avevo sollevata per vedere dentro la parete. La frangia tirata sopra la fronte. Il resto dei capelli a ricadere sulle guance. Affossate. Senza nessuno dei colori noti. Tirate a formare grinze attorno agli altri lineamenti. Al naso lo facevano svuotato. Attorno alla bocca tracciavano tutte le parole che non avrei più imparato da lei. Emma mia. Tutte le volte che l’avevo cercata nel bosco. Tante altre per le stanze e gl’armadi della Villa. Emma era stata sempre lì nel posto più sicuro dove mamma ci faceva stare per via di certi sogni. Nel lettone Emma poco discosta da Tommaso era stata costretta all’eterno riposo. Alcuni vecchi vicini erano venuti al funerale di Emma e di Tommy. Loro. Mia sorella e mio fratello. Per tutto il tempo prima in chiesa e poi al cimitero Gianna m’era stata lontana. A testa bassa per nascondermi le parole che anche da lontano potevo vederle dire al tipo in sedia a rotelle. Denti gialli. Labbro superiore leggermente leporino. Il gesticolo braccia-mani a catturare l’attenzione di tutti. Elio, mi sei mancato! Roy! Dalla sua sedia a braccia aperte m’invitava ad abbassarmi. A tu? Per Roy uno sordo come me aveva il destino segnato e siccome mi credeva anche muto già avevo detto troppo. Inseguivo Gianna. A piedi, 10 minuti dal cimitero fino alla Vistarenni, potevamo parlare. Anzi no. La brezza cominciava a odorare di terra e aria. Il profumo muscoso voleva dire una sola cosa: temporale. Ho un problema col vigneto. Un germe tinge i grappoli della nera. Puoi dirmi qualcosa Elio? Il 1°lampo era già arrivato. La mano di Gianna dentro la mia ci stava tutta. Per intero. Senza scampo. L’avevo guidata sopra le mie labbra. Nessuno a dire cose. Di scatto s’era girata. Doveva essere arrivato il tuono. Rientriamo, piove. Fa lei. No bagnamoci. Faccio io senza la GN di gnomo perché non ero come Roy e Gianna quando ha voglia di ballare, sa che lei uno qui pronto ce l’ha.
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